“Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese: La rupe, il discorso tra Eracle e Prometeo
Di seguito si potrà leggere il dialogo intitolato “La rupe” presente nel libro “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese, segue una breve analisi del testo.
“La rupe”
Nella storia del mondo l’èra detta titanica fu popolata di uomini, di mostri, e di dèi non ancora organizzati in Olimpo. Qualcuno anzi pensa che non ci fossero che mostri – vale a dire intelligenze chiuse in un corpo deforme e bestiale. Di qui il sospetto che molti degli uccisori di mostri – Eracle in testa – versassero sangue fraterno.
(Parlano Eracle e Prometeo)
Eracle: Prometeo, sono venuto a liberarti.
Prometeo: Lo so e ti aspettavo. Devo ringraziarti, Eracle. Hai percorso una strada terribile, per salire fin qua. Ma tu non sai cos’è paura.
Eracle: Il tuo stato è più terribile, Prometeo.
Prometeo: Veramente tu non sai cos’è paura? Non credo.
Eracle: Se paura è non fare quel che debbo, allora io non l’ho mai provata. Ma sono un uomo, Prometeo, non sempre so quello che debbo fare.
Prometeo: Pietà e paura sono l’uomo. Non c’è altro.
Eracle: Prometeo, tu mi trattieni a discorrere, e ogni istante che passa il tuo supplizio continua. Sono venuto a liberarti.
Prometeo: Lo so, Eracle. Lo sapevo già quand’eri solo un bimbo in fasce, quando non eri ancora nato. Ma mi succede come a un uomo che abbia molto patito in un luogo – nel carcere, in esilio, in un pericolo – e quando viene il momento d’uscirne non sa risolversi a passare quell’istante, a mettersi dietro le spalle la vita sofferta.
Eracle: Non vuoi lasciare la tua rupe?
Prometeo: Devo lasciarla, Eracle – ti dico che ti aspettavo. Ma, come a uomo, l’istante mi pesa. Tu sai che qui si soffre molto.
Eracle: Basta guardarti, Prometeo.
Prometeo: Si soffre al punto che si vuole morire. Un giorno anche tu saprai questo, e salirai sopra una rupe. Ma io, Eracle, morire non posso. Nemmeno tu, del resto, morirai.
Eracle: Che dici?
Prometeo: Ti rapirà un dio. Anzi una dea.
Eracle: Non so, Prometeo. Lascia dunque che ti sleghi.
Prometeo: E tu sarai come un bambino, pieno di calda gratitudine, e scorderai le iniquità e le fatiche, e vivrai sotto il cielo, lodando gli dèi, la loro sapienza e bontà.
Eracle: Non ci viene ogni cosa da loro?
Prometeo: O Eracle, c’è una sapienza più antica. Il mondo è vecchio, più di questa rupe. E anche loro lo sanno. Ogni cosa ha un destino. Ma gli dèi sono giovani, giovani quasi come te.
Eracle: Non sei uno di loro anche tu?
Prometeo: Lo sarò ancora. Così vuole il destino. Ma un tempo ero un titano e vissi in un mondo senza dèi. Anche questo è accaduto… Non puoi pensarlo un mondo simile?
Eracle: Non è il mondo dei mostri e del caos?
Prometeo: Dei titani e degli uomini, Eracle. Delle belve e dei boschi. Del mare e del cielo. È il mondo di lotta e di sangue, che ti ha fatto chi sei. Fin l’ultimo dio, il più iniquo, era allora un titano. Non c’è cosa che valga, nel mondo presente o futuro, che non fosse titanica.
Eracle: Era un mondo di rupi.
Prometeo: Tutti avete una rupe, voi uomini. Per questo vi amavo. Ma gli dèi sono quelli che non sanno la rupe. Non sanno ridere né piangere. Sorridono davanti al destino.
Eracle: Sono loro che ti hanno inchiodato.
Prometeo: Oh Eracle, il vittorioso è sempre un dio. Fin che l’uomo-titano combatte e tiene duro, può ridere e piangere. E se t’inchiodano, se sali sul monte, quest’è la vittoria che il destino ti consente. Dobbiamo esserne grati. Che cos’è una vittoria se non pietà che si fa gesto, che salva gli altri a spese sue? Ciascuno lavora per gli altri, sotto la legge del destino. Io stesso, Eracle, se oggi vengo liberato, lo devo a qualcuno.
Eracle: Ne ho vedute di peggio, e non ti ho ancora liberato.
Prometeo: Eracle, non parlo di te. Tu sei pietoso e coraggioso. Ma la tua parte l’hai già fatta.
Eracle: Nulla ho fatto, Prometeo.
Prometeo: Non saresti un mortale, se sapessi il destino. Ma tu vivi in un mondo di dèi. E gli dèi vi hanno tolto anche questo. Non sai nulla e hai già fatto ogni cosa. Ricorda il centauro.
Eracle: L’uomo-belva che ho ucciso stamane?
Prometeo: Non si uccidono, i mostri. Non lo possono nemmeno gli dèi. Giorno verrà che crederai di aver ucciso un altro mostro, e più bestiale, e avrai soltanto preparato la tua rupe. Sai chi hai colpito stamattina?
Eracle: Il centauro.
Prometeo: Hai colpito Chirone, il pietoso, il buon amico dei titani e dei mortali.
Eracle: Oh Prometeo…
Prometeo: Non dolertene, Eracle. Siamo tutti consorti. È la legge del mondo che nessuno si liberi se per lui non si versa del sangue. Anche per te avverrà lo stesso, sull’Oeta. E Chirone sapeva.
Eracle: Vuoi dire che si è offerto?
Prometeo: Certamente. Come un tempo io sapevo che il furto del fuoco sarebbe stata la mia rupe.
Eracle: Prometeo, lascia che ti sciolga. Poi dimmi tutto, di Chirone e dell’Oeta.
Prometeo: Sono già sciolto, Eracle. Io potevo esser sciolto se un altro prendeva il mio posto. E Chirone si è fatto trafiggere da te, che la sorte mandava. Ma in questo mondo che è nato dal caos, regna una legge di giustizia. La pietà, la paura e il coraggio sono solo strumenti. Nulla si fa che non ritorni. Il sangue che tu hai sparso e spargerai, ti spingerà sul monte Oeta a morir la tua morte. Sarà il sangue dei mostri che tu vivi a distruggere. E salirai su un rogo, fatto del fuoco che io ho rubato.
Eracle: Ma non posso morire, mi hai detto.
Prometeo: La morte è entrata in questo mondo con gli dèi. Voi mortali temete la morte perché, in quanto dèi, li sapete immortali. Ma ciascuno ha la morte che si merita. Finiranno anche loro.
Eracle: Come dici?
Prometeo: Tutto non si può dire. Ma ricòrdati sempre che i mostri non muoiono. Quello che muore è la paura che t’incutono. Così è degli dèi. Quando i mortali non ne avranno più paura, gli dèi spariranno.
Eracle: Torneranno i titani?
Prometeo: Non ritornano i sassi e le belve. Ci sono. Quel che è stato sarà.
Eracle: Ma foste pure incatenati. Anche tu.
Prometeo: Siamo un nome, non altro. Capiscimi, Eracle. E il mondo ha stagioni come campi e la terra. Ritorna l’inverno, ritorna l’estate. Chi può dire che la selva perisca? O che duri la stessa? Voi sarete i titani, fra poco.
Eracle: Noi mortali?
Prometeo: Voi mortali – o immortali, non conta.
“Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese fu pubblicato dalla casa editrice Einaudi nel 1947. Il libro si presenta in forma dialogica e consta di ventisette brevi racconti. Pavese si muove nell’Antica Grecia nelle grandi braccia del mito che, ancora oggi, consiglia ad ognuno di noi nell’inconscio ed è espresso dall’unicità, dalla sensibilità di udire il canto.
“L’istante mi pesa. […] c’è una sapienza più antica. […] Ogni cosa ha un destino. […] un tempo ero un titano e vissi in un mondo senza dèi. […] in questo mondo che è nato dal caos, regna una legge di giustizia. […] Quando i mortali non avranno più paura, gli dèi spariranno.”
Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950) ha avuto una vita solcata dal lutto sin dalla tenera età con la morte del padre, di una sorella, di due fratelli e di un compagno di scuola che si era tolto la vita con una rivoltella. Sin da giovane fu attratto dalla lingua inglese ed i suoi primi lavori furono proprio delle traduzioni: il “Moby Dick” di Herman Melville e “Riso nero” di Sherwood Anderson (clicca QUI per approfondire la biografia).
L’autore, nella prima edizione de “Dialoghi con Leucò”, scrisse la seguente presentazione:
“Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi Dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. Non c’è scrittore autentico, il quale non abbia i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta, che a un tratto lo inducono a farsi eremita. Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva: si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e tabù, che i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti, fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso. E ne sono nati questi Dialoghi.”
Ogni dialogo presenta due interlocutori, personaggi della mitologia greca e così si possono incontrare Tiresia ed Edipo (“I ciechi”), Ippòloco e Sarpedonte (“La Chimera”), la Nube ed Issione (“La nube”), Ermete ctonio ed il centauro Chirone (“Le cavalle”), Eros e Tànatos (“Il fiore”), Endimione ed uno straniero (“La belva”), Saffo e Britomarti (“Schiuma d’onda”), Meleagro ed Ermete (“La madre”), Achille e Patroclo (“I due”), Edipo ed un mendicante (“La strada”), Eracle e Prometeo (“La rupe”), Orfeo e Bacca (“L’inconsolabile”), due cacciatori (“L’uomo-lupo”), Litierse ed Eracle (“L’ospite”), due pastori (“I fuochi”), Calipso ed Odisseo (“L’isola”), Virbio e Diana (“Il lago”), Circe e Leucotea (“Le streghe”), Lelego e Teseo (“Il toro”), Castore e Polideute (“In famiglia”), Iasone e Mélita (“Gli Argonauti”), Leucotea ed Ariadne (“La vigna”), Cratos e Bia (“Gli uomini”), Dioniso e Demetra (“Il mistero”), un satiro ed un’amadriade (“Il diluvio”), Mnemòsine ed Esiodo (“Le Muse”), due voci (“Gli dèi”).
Ne “La rupe” siamo nel Caucaso nella regione della Scizia, limite naturale tra Europa ed Asia, nella scena il mortale Eracle ed il titano Prometeo. Quest’ultimo è incatenato alla rupe sotto il supplizio di un’aquila che ogni giorno gli divora il fegato che si rigenera ogni notte. Fu Zeus a punirlo perché Prometeo (Προμηθεύς dal composto Προ- “prima” e -μῆτις “intelligenza”, “colui che riflette prima”) disobbedì al dio quando donò nuovamente il fuoco agli uomini.
Prometeo, figlio di Giapeto e di Climene, è fratello di Epimeteo (“colui che riflette dopo” ed infatti sposerà Pandora (πᾶς “tutto” e δῶρον “dono”), donna mortale creata da Efesto ed inviata da Zeus con i mali da distribuire al mondo degli uomini), Atlante (il padre di Calipso) e Menezio. Sin dalla nascita ebbe il dono di prevedere il futuro e preferì, nella guerra tra dèi e titani, schiararsi con i primi. Prometeo, talvolta, viene confuso con Efesto come personaggio legato alle arti ed al fuoco.
Nel dialogo di Pavese, Eracle è appena giunto sulla rupe dopo una serie di difficoltà, nel mito dovrà uccidere l’aquila come ringraziamento per le indicazioni fornite da Prometeo ma il nostro autore non la menziona, mentre coinvolge il centauro Chirone che appare come sacrificio per la liberazione di Prometeo. Ma, prendendo sempre in considerazione il mito, Eracle conosce bene Chirone perché egli, figlio di Crono e dell’oceanina Filira, sarà suo precettore di medicina e chirurgia. Chirone è legato a Prometeo perché per grazia di Zeus perse la sua immortalità per poterla consegnare nuovamente a Prometeo, ma è un evento successivo alla liberazione.
Similmente agli altri dialoghi troviamo l’azione di Ἀνάγκη (la necessità logica – legge di natura): “Ogni cosa ha un destino.” I titani, che sono stati sostituiti dal governo degli dèi, ben sanno che “c’è una sapienza più antica” che dal caos originario ha creato le leggi immutabili. La vita e la morte sono la medesima azione, così Chirone (secondo Pavese) donerà la sua vita per salvare Prometeo.
“Siamo tutti consorti.”
Titani, uomini, belve, boschi, mare e cielo: tutti sono consorti.
“La morte è entrata in questo mondo con gli dèi.” Sono gli dèi che, dichiarandosi immortali e governando con le continue punizioni, hanno portato all’uomo la mortalità e la paura. È l’uomo che deve liberarsi dalla paura degli dèi per decretare la fine dell’Olimpo per un prossimo governo, come profetizza Prometeo a fine dialogo.
La concezione di immortalità che porta avanti Prometeo è, per Eracle, complessa da comprendere ma è ben riassunta nella domanda: “Chi può dire che la selva perisca?”
Se quel che si cerca si trova, si è certi di cercare ciò che rende felici?
Written by Alessia Mocci
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