Intervista di Emma Fenu a Maria Lidia Petrulli: sul legame fra i disturbi alimentari e una società competitiva
“Alice assaggia, pilucca, tracanna,/ prima è due metri poi è una spanna/ Alice pensa, poi si arrabatta,/ niente da fare, è sempre inadatta/ Alice morde, rosicchia, divora,/ ma non si arrende, ci prova ancora.
Alice piange, trangugia, digiuna,/ è tutte noi,/ è se stessa, è nessuna.” – Lella Costa
Maria Lidia Petrulli, medico psichiatra e psicoterapeuta, è appassionata di storia e mitologia celtica e medievale e inizia la sua carriera di scrittrice nel 2002.
Ne “Il volo della libellula”, pubblicato nel 2019 con Ensemble Edizioni, l’autrice affronta il tema della bulimia: Amélie è una restauratrice di 36 anni che, in seguito a un grave trauma sul lavoro, ha un forte calo di autostima e si sente una fallita.
I conseguenti sensi di colpa e inadeguatezza che ne derivano, creano un vuoto che la protagonista cercherà di colmare con il cibo. Sarà la presa di coscienza che evolverà nell’arco della storia che le permetterà di affrontare quel che è accaduto, anche se con sofferenza.
Accogliamo oggi su Oubliette Magazine Maria Lidia Petrulli per evidenziare quanto sviluppato nel suo romanzo, ossia i danni che una società come la nostra, eccessivamente competitiva, può provocare nelle persone, non solo le più fragili: siamo tutti fragili di fronte alla possibilità di valere poco o niente.
E.F.: I disturbi alimentari sono determinati da pressioni sociali sulla perfezione del corpo femminile, da conflitti con la figura materna o da una concomitanza di fattori?
Maria Lidia Petrulli: Cominciamo col dire che i disturbi alimentari psicogeni, cioè di origine psicologica, sono l’Anoressia mentale e la Bulimia, che hanno sintomatologie e cause molto diverse fra loro.
L’Anoressia mentale compare in genere in età adolescenziale o comunque giovane, al di sotto dei vent’anni. La sua comparsa in età superiore è rara e secondaria a particolari eventi di vita. La sintomatologia è caratterizzata da una riduzione drastica dell’alimentazione e dalla volontà di avere un aspetto “ascetico”, da una distorsione della propria immagine corporea, poiché la persona con anoressia mentale non ha una corretta percezione del sé fisico, quel che vede è una proiezione distorta del sé mentale. La persona con anoressia mentale non è consapevole del proprio dimagrimento, neppure di quello eccessivo, e neanche dei danni che questo le può provocare. Si guarda e si vede sempre troppo grassa anche nelle situazioni più gravi, non è mai abbastanza magra. Nell’anoressia mentale è come se tutta la concentrazione, l’autostima, il proprio valore come persona, risiedesse in questa sfida con sé stessi in cui una magrezza inquantificabile e infinita è lo scopo ultimo. Per quel che riguarda le cause capaci di provocare l’Anoressia mentale, il confronto con i canoni di bellezza attuali, che si basano su donne molto magre e irraggiungibilmente belle, può agire da causa scatenante. Ma se si trattasse solo di questo, con la maturità scomparirebbe poiché l’adolescente si distacca da tali modelli recuperando il proprio senso critico e un certo equilibrio. Nella maggior parte dei casi, l’Anoressia mentale nasce in una costellazione familiare disturbata, con una madre invadente, dilagante, screditante, con aspettative molto alte relativamente alla figlia, affettivamente distante, incapace di vedere la figlia come “altro da sé”. La figura paterna è invece marginale, per sua scelta, per esempio padri che si dedicano soprattutto al lavoro, oppure perché emarginata dalla figura materna. Più raramente abbiamo figure paterne centrali e squalificanti con madri marginali e con atteggiamenti ambigui rispetto al partner e alla figlia. In questa situazione, la figlia sviluppa incertezza sul suo valore personale, scarsa autostima, depressione, un modo distorto di vedere sé stessa come persona, che la porta a vedere nel dimagrimento la propria forma di affermazione e di valore personale e di rivalsa. Quindi direi che, se all’inizio il fattore scatenante è la pressione sociale e ai modelli forniti dai mass media, il motivo di base è la situazione familiare che occupa la responsabilità più importante.
Il secondo disturbo alimentare, la Bulimia, può comparire a qualsiasi età, in particolare fra i 20 e i 30 anni. Si manifesta con un aumento costante dell’assunzione di cibo e crisi bulimiche periodiche, con un aumento del peso considerevole. Le cause della Bulimia sono molto diverse da quelle dell’Anoressia. In questo caso la pressione esterna o modelli di bellezza non svolgono alcun ruolo, mentre è in gioco il rapporto della persona con sé stessa. Rapporto caratterizzato da grave riduzione dell’autostima, insicurezza, tutta la sua vita ruota in modo ossessivo intorno al peso, all’aspetto fisico che diviene l’asse di interesse, eludendo tutto il resto che è poi la causa della bulimia stessa. Nell’anamnesi di queste ragazze troviamo spesso la presenza di genitori screditanti e con aspettative molto elevate nei confronti della figlia; affettivamente assenti o comunque distanti. Si tratta di ragazze con difficoltà nelle relazioni interpersonali, di cui hanno timore. Alla fin fine, il loro problema è con se stesse, non si amano, non si ritengono degne dell’amore degli altri. Presentano sensi di colpa notevoli verso gli altri e verso sé.
E.F.: Il cibo scalda e rassicura, ma quando il rapporto con esso diventa patologico?
Maria Lidia Petrulli: Il rapporto col cibo diviene patologico nel momento in cui perde il significato di elemento per la sopravvivenza, che non esclude un senso di piacere del mangiare, purché non sia accompagnato da una perdita del controllo sul cibo stesso, e acquista valenze psicologiche che sono la proiezione di un problema. Nell’anoressia il cibo è un nemico, un demone tentatore che potrebbe far deviare la persona con anoressia mentale dal percorso e dai canoni che la persona si è prefissata. C’è una sorta di rapporto di odio e amore col cibo. Perché fa ingrassare ma contemporaneamente riempie il vuoto della persona stessa, donde le crisi bulimiche cui le persone con anoressia mentale vanno spesso incontro.
Nella bulimia, invece, il cibo diventa il riempimento di un vuoto affettivo che non si è capaci di colmare in altro modo, di un’insoddisfazione riguardo alla propria vita che si ha paura di affrontare, perché affrontarla comporta prendere decisioni di cui si ha paura, perché le decisioni portano un cambiamento, e il cambiamento è percepito come un salto nel buio. Ma è anche uno scudo. Il grasso accumulato diviene infatti l’alibi per rimandare il confronto con la realtà esterna, per non impegnarsi, per evitare le responsabilità, per proteggersi dal senso di fallimento che invade quando i problemi restano irrisolti.
E.F.: Il grasso accumulato, dunque, è una corazza che difende dal dolore e che, al contempo, anestetizza i sentimenti?
Maria Lidia Petrulli: Direi solo in apparenza, perché nella realtà il grasso accumulato crea disagio, vergogna e senso di colpa, e quasi paradossalmente incrementa i sentimenti di solitudine e di vuoto perché la persona bulimica si sente nettamente inferiore agli altri e tenderà ad evitare i rapporti sociali e le situazioni d’incontro in genere. Con quel che ne consegue. Nella bulimia nervosa non c’è il piacere del cibo ma è una costrizione operata da se stessi, molto simile alle forme ossessive che parassitano la vita. Alla fine il grasso è un vero parassita dell’esistenza.
E.F.: Quali sono i pregiudizi e i falsi miti sulla bulimia?
Maria Lidia Petrulli: Un tempo l’essere grasso era sinonimo di buona salute, di una buona situazione economica, e senza arrivare all’obesità, una donna “pienotta o mediterranea” suscitava un certo interesse. Culturalmente parlando, sino agli anni ‘60 avere qualche chilo in più era positivo. Attualmente, le campagne condotte a salvaguardia della salute mettono ampiamente in guardia sui rischi legati all’obesità, oltre al fatto che, un aumento rilevante di peso ha ormai assunto il significato di brutto, stupido, trasandato, mediocre… e le persone grasse sono sottoposte a ogni genere di sberleffo e spesso isolate. Questo è il pregiudizio che parte dall’equazione: aspetto sgradevole, soprattutto se grasso, equivale a l’essere un perdente, un fallito.
E.F.: Qual è il primo passo da compiere per guarire?
Maria Lidia Petrulli: Il primo passo è sempre la consapevolezza, l’accettazione di avere un problema, dopodiché ci si rivolgerà a un nutrizionista o a un dietologo e, naturalmente, a uno psichiatra e a uno psicoterapeuta. Questi passi sono più facili da fare per una persona bulimica in cui non c’è una distorsione della propria immagine. Nella quale la pressione delle situazioni negative che hanno provocato l’aumento di peso può diventare così elevata, che la persona finisce col cercare un aiuto. Il percorso psicoterapico, che accompagna un cambiamento nello stile di vita e di alimentazione, è sicuramente vincente.
L’anoressica cerca invece difficilmente aiuto perché la consapevolezza non esiste, tanto che solo dopo un trattamento sanitario obbligatorio si riesce a intraprendere un percorso psichiatrico e psicoterapico.
Written by Emma Fenu