Curiosità sul Carnevale a Roma: i dolci tipici, i riti pagani e le antiche maschere
Il Carnevale è iniziato il 17 gennaio (festa di S. Antonio) e terminerà come sempre il Martedì Grasso (16 febbraio), giorno che segna l’inizio dei quaranta giorni di quaresima che precedono la Pasqua. Ha origine da festività di buon auspicio per la nascente primavera, festività religiose dedicate a Saturno che nella Roma papalina erano caratterizzate da balli, maschere, riti orgiastici, divertimenti, sacrifici e trasgressioni di vario tipo.

A Roma per festeggiare il Carnevale ci sono le frappe, dolci a forma di striscia spesso annodata a formare una sorta di fiocco preparati con un impasto di farina, uova e zucchero che viene poi cotto al forno oppure fritto ed infine impreziosito da una spolverata di zucchero a velo, miele o una spruzzata di liquore.
Troviamo anche le castagnole che rimandano all’antica Roma nella quale alle feste in onore del Dio Bacco si offrivano delle palline fritte, che sono poi giunte fino ad oggi. Le castagnole sono infatti palline di farina, uova, zucchero e burro che vengono fritte e poi ricoperte di zucchero a velo e cannella. Molto spesso sono vuote ma vi sono pure nella gustosissima versione ripiena di ricotta, crema o più raramente cioccolato e limoncello, una vera e propria delizia.
Il Carnevale non è tale senza i coriandoli e le stelle filanti colorate che colorano le strade e senza i bambini in maschera che se li lanciano l’un l’altro. I più piccoli ne vanno matti ed in fondo anche i più grandi, nonostante la fatica per eliminarli dopo che si sono andati a infilare dovunque.
L’usanza di lanciare oggetti di vario genere in occasione dei festeggiamenti carnevaleschi risale all’epoca rinascimentale quando, durante le parate in costume e le sfilate dei carri, tipiche di molte città come Roma, si gettavano sulla folla granoturco, arance, monete, gusci d’uovo con essenze profumate e fiori. Nel corso del XVI secolo tra gli oggetti lanciati dai carri figuravano pure dei confetti realizzati con frutti di coriandolo rivestiti di zucchero.
È proprio da questi bonbon che deriverebbero non solo il nome dei coriandoli, ma pure il sinonimo con cui sono, spesso, ancora oggi designati, ovvero, appunto “confetti”. Bisogna dire che l’uso di preparare e lanciare questi dolcetti si rivelò, molto presto, troppo gravosa e costosa e venne in parte dimenticata. In sostituzione dei confetti iniziarono, dunque, a fare la loro comparsa palline di carta o di gesso.

Le antiche maschere romane sono: Cassandrino, Don Pasquale, il Generale La Rocca, Meo Patacca ed il più famoso fra tutti, Rugantino.
Esse non sono celebri come quelle di altre città, ma hanno nei secoli evidenziato spassosamente e farsescamente i lati più tipici delle persone del popolo e della nobiltà romana con i loro difetti e la loro curiosità.
Cassandrino: non si sa la data precisa di quando sia nata la maschera di Cassandrino, si fa riferimento al XIX secolo.
È rappresentato vestito con una giacca a coda di rondine, i pantaloni hanno un colore più chiaro e le scarpe sono con le fibbie, sulla testa una parrucca con cappello a tricorno; quando parla la sua voce è nasale.
Nella vita la sua origine è nobile ed è padre di famiglia; ma diviene un borghese sprovveduto che si lascia facilmente raggirare sia dalle figlie che da qualsiasi donna.
Si fa portavoce di tutte le lamentele avanzate dal popolo particolarmente verso il Papa.
Don Pasquale: il vero nome di questa maschera è Don Pasquale de’ Bisognosi, ma egli stesso detesta questo nome perché lo ritiene esagerato e popolare, addirittura volgare per lui che appartiene alla nobiltà.
I suoi abiti sono una veste a palandrana di notevole fattura, calzoni al ginocchio, scarpe con fibbia molto lucide e sul capo una parrucca grigia; ama sempre essere vestito bene ed avere il viso incipriato.
La sua intenzione è quella di convolare a nuove nozze; ma tutte le sue disavventure finiscono unicamente a farlo ritrovare solo e schernito dalla servitù.

Generale Mannaggia la Rocca: un venditore di stracci Luigi Guidi, inventò questa maschera nel 1897, la sua figura ricordava un po’ quella di Capitan Spaventa, comandante di un esercito praticamente inesistente o si componeva unicamente di accattoni, raccontava sempre le sue audaci imprese che in effetti non aveva mai compiuto e nel periodo di Carnevale era solito montare un asino o un cavallo molto vecchio tanto da suscitare ancora di più la comune ilarità.
Quando raccontava le sue fandonie in pubblico, vi era un continuo botta e risposta fra lui ed i convenuti che assistevano allo spettacolo, tanto che si raggiungeva una perfetta spensieratezza unita all’allegria. Ma quando il suo inventore morì, la maschera venne lentamente e definitivamente dimenticata.
Meo Patacca: tipica maschera romana che più di altre rappresenta, con Rugantino, il carattere del popolo che anticamente abitava il quartiere di Trastevere, un carattere indolente, fiero e sfrontato portato facilmente alla rissa, è un popolano spaccone ed attaccabrighe, sempre pronto a buttarsi nella mischia non da vigliacco ma con valore e sentimento cavalleresco.
Il suo nome deriva da “Patacca” una misera paga che un tempo prendevano i soldati. Indossa calzoni stretti sopra il ginocchio con dei legacci, la giacca di velluto, una sciarpa di colore vistoso ed una retina sulla testa completano l’abbigliamento; ha sempre con sé un coltello che usa quando, a suo giudizio, deve farsi giustizia subito e da solo.
Questa maschera divenne famosa tramite un poema in dialetto romanesco di Giuseppe Berneri (1637-1710) risalente al 1695 “Roma in festa ne i Trionfi di Vienna”.
Rugantino: la maschera che certamente rappresenta di più Roma, è quella di Rugantino: sfrontato, spaccone, sempre pronto a rispondere con le sue battute, ma si ritrova decisamente incapace quando deve difendersi con le mani o con le armi.

È una maschera che raffigura il tipico popolano romano, i suoi abiti sono semplicissimi: calzoni che arrivano al ginocchio, una fusciacca che gli avvolge la vita, camicia con sopra una casacca e l’immancabile fazzoletto annodato al collo.
Il carattere principale che contraddistingue questa maschera è il modo di agire e parlare con sfrontatezza ed arroganza tanto che il suddetto nome deriva da “ruganza”, ovvero, arroganza.
È attualmente la maschera più popolare di Roma perché il teatro ha portato sul palcoscenico la figura dello stesso ottenendo enormi successi, romantico protagonista di una delle storie più famose della tradizione romana.
Ricordo particolarmente che il Carnevale di una volta, era sempre una festa che impegnava giornate intere per preparare i costumi rigorosamente confezionati in casa, con ciò che c’era, magari andando a rovistare nei cassetti e nel guardaroba di nonne, zie, parenti vari.
Io e mio fratello Fabrizio, ci mascheravamo rispettivamente di dama dell’Ottocento ed indiano, regali di mio zio Ninì buonanima che aveva un rinomato emporio in paese e così travestiti ci recavamo a scuola per festeggiare la suddetta festa con gli altri compagni di classe, al ritmo travolgente della tarantella napoletana suonata a ripetizione dal giradischi delle suore a Lecce, tra frizzi e lazzi!
Che passione per me inoltre, il vestito di Mary Poppins, un abito lungo con un cappellino rosso ed un simpatico ombrellino ed il vestito da cowboy, una camicia scozzese, dei pantaloni larghi, un cinturone con una grossa fibbia ed un largo cappello. Nel cinturone erano infilate le pistole giocattolo ed alle scarpe si fissavano gli speroni, uguali a quelli veri ma di plastica.
“Viva i coriandoli di Carnevale” di Gianni Rodari
“Viva i coriandoli di Carnevale,
bombe di carta che non fan male!
Van per le strade in gaia compagnia
i guerrieri dell’allegria:

si parano in faccia risate
scacciapensieri
si fanno prigionieri
con le stelle filanti colorate.
Non servono infermieri
perché i feriti guariscono
con una caramella.
Guida l’assalto, a passo di tarantella,
il generale in capo Pulcinella.
Cessata la battaglia tutti a nanna.
Sul guanciale
spicca come una medaglia
un coriandolo di Carnevale”.
Written by Mariagrazia Toscano
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