Meditazioni Metafisiche #22: sulla Morte che non muore e sull’Essere

La nostra esistenza in questa dimensione è un mistero. Proveniamo da un mondo che non ricordiamo, viviamo una vita il cui fine ultimo ci sfugge e dovremo lasciarla in vista di qualcosa che non conosciamo.

Basilio Magno
Basilio Magno

La parola “mistero” deriva dal greco muein, che significa “tacere”. Non si può parlare di ciò che è oltre la nostra portata conoscitiva. Tutto è relativo a quel qualcosa che denominiamo Dio, il quale sta all’origine e alla fine della nostra vita terrena, ma del quale nulla possiamo sapere.

Basilio Magno (Omelia XV, Sulla fede) scriveva che “il trattare a parole con compiutezza ciò che concerne Dio è impresa audace poiché il nostro pensiero cade a una grande lontananza dalla dignità della cosa e poi a sua volta la parola presenta i pensieri in maniera indistinta”, logōi de diexienai ta perì theou tolmērontēs men dianoias pollōi tōi metrōi tēs axias tōn pragmatōn apopiptouysēs, palin de tou logou amudrōs paristōntos ta noētheta.

Tuttavia le religioni e le correnti spirituali cercano di comunicare qualcosa di Dio o delle divinità o del numinoso o della energia che tutto permea. Non si tratta perlopiù di parole che squarciano il velo del mistero, ma semplicemente che alludono ad esso, senza circoscriverlo del tutto. Per questo Agostino (De catechizandis rudibus 4. 8)  affermava che bisogna parlare della fede in modo che chi ascolta “ascoltando creda, credendo speri e sperando ami”, audiendo credat, credendo speret, sperando amet.

In ciò sta il senso più recondito dell’annuncio di ogni religione. Le parole non possono esaurire la Realtà assoluta e trascendente di Dio. Noi umani nella dimensione terrena vediamo mediante la luce: illuminiamo una realtà con la ragione e quindi la comprendiamo. Ma l’essenza stessa di Dio è qualcosa di diverso, che la nostra ragione non può decifrare come decifra una equazione matematica.

La mitologia indiana insegna che la Verità della Verità (satyasya satyam) è la Persona del Sole, cioè Dio, la quale è anche detta Morte. Per conoscere Dio bisogna morire, distaccarci dal corpo e dalla materia e così, puri, accedere alla dimensione superiore. La Morte è la Persona del Disco (maṇḍale), la Luce che splende (arcir dipyate) è ciò che non muore (amṛtam). Di conseguenza la Morte non muore poiché è interiore ed è non vista.  È una Luce solare che non sorge né tramonta ma inverte sé stessa. È una Tenebra Divina, un eccesso tale di Luce che acceca tutte le facoltà umane, è celata ad ogni conoscenza umana, è l’Oscurità nella quale era Dio prima della creazione[1].

Tuttavia le parole sono utili per esercitare una vita virtuosa in vista della salvezza finale. Per la tradizione ebraica la osservanza dei precetti della Torah è motivo per cui Dio regga ancora questo mondo. Gli studiosi cercano ancora di capire l’esatto significato della parola siriaca qeyama entro questa tradizione cristiana. Probabilmente è un tipico termine semitico che si traduce in molti modi: si pensa che voglia veicolare i concetti per cui “stando” nel mondo terreno bisogna praticare i retti precetti della “alleanza” tra Dio e uomini in attesa della “resurrezione”, cioè della salvezza. Per questo l’ebraismo e il cristianesimo pongono molta enfasi all’ascolto della Parola di Dio.

Deuteronomio 6, 4 ss (brano che gli ebrei più osservanti portano legato sulla fronte perché si tratta di capitale professione di fede israelitica) inizia con l’imperativo Shemà, Israel, “ascolta, Israele”, dove il verbo ebraico “ascoltare” significa anche “obbedire”. Filone d’Alessandria (L’erede delle cose divine 10) scriveva: “Siccome l’ignoranza è sfrontatezza e chiacchiera, thrasutaton gar kai lalistaton amathia, il primo rimedio è il silenzio; il secondo è l’attenzione rivolta a coloro che dicono cose degne di essere ascoltate”.

Maat - Dea egiziana
Maat – Dea egiziana

La verità è necessaria per orientarsi nella vita e evitare gli errori. Essa è a servizio dell’armonia dell’universo: l’errore è un elemento destrutturante. La dea egiziana della verità e dell’ordine cosmico è Maat, rappresentata da una fanciulla con sulla testa la timoniera, la penna che permette agli uccelli di orientarsi in volo senza commettere errori. Ogni cosa deve essere fatta nel tempo opportuno: c’è chi deve parlare e c’è chi deve ascoltare.

Il centro della morale della Grecia antica può balenare mediante il detto delfico meden agan, “nulla di troppo”.

L’uomo non deve panta poiein, “fare tutto”, ma deve fare solo ciò che è conforme al suo stato e alla sua natura. Ci sono inevitabili differenze tra uomini e uomini e tra uomini e dèi. È tracotanza, ubris, essere di più di ciò che si è. Collegato a questo campo ideale è il concetto di timē, che non è semplicemente “onore”. È una parola greca intraducibile nelle lingue moderne. Spesso i termini greci antichi hanno talmente tante sfaccettature che non c’è una sola traduzione moderna. La timē è, insomma, in qualche modo, il tributo che una persona o un dio merita in base a ciò che è. Gli dèi sono detti polutimētoi non perché hanno molto onore ma se hanno un alto grado di timē, cioè se sono molto riveriti con tributi. C’è un passo dell’Aiace di Sofocle (426-427) nel quale Aiace dice di essere atimos, cioè senza timē, che non significa che non ha onore, ma: “mi hanno rubato ciò che di diritto appartiene a me[2].

Nel mondo esistono diversi tipi di sapienza. Abbiamo una verità intuitiva che tutti hanno in quanto uomini. Poi abbiamo una verità che non tutti posseggono, che è data mediante l’uso di ragione, mediante applicazione personale. Nel Corano si adombrano entrambe le sapienze. Dio, prima ancora di creare l’uomo, lo convoca davanti a sé, forse nella sua mente, in un giorno primordiale detto “giorno del patto” (in arabo yawm al-mithaq), e gli chiede: “Sono io il tuo Signore?”, alastu birabbikum (7, 172). Al che l’umanità risponde coralmente di sì. Questa prima sapienza, innata, riguarda la verità intuitiva su Dio. È la religione naturale dell’uomo, che la rivelazione coranica non fa altro che risvegliare. Ma il Corano parla anche di un’altra sapienza, quella che l’uomo deve ricavare studiando i “segni di Dio” (ayat Allah) nella creazione[3]. In ogni modo, sia che si tratti della prima sapienza sia che si tratti della seconda, ci sono delle persone in grado di parlare e altre meno, che quindi devono ascoltare: nel primo caso il profeta ha risvegliato in sé la conoscenza divina che nel resto degli uomini è dormiente; nel secondo caso lo scienziato si è applicato e ha studiato più del resto della umanità.

Il più importante filosofo del Rinascimento, Cusano (De Quaerendo Deum I), scriveva: “Ogni volta che leggo gli Atti mi stupisco di questo modo di procedere di Paolo. Paolo, infatti, volle rendere manifesto ai filosofi il Dio ignoto, ma poi afferma che questo Dio non può essere concepito da nessun intelletto umano. È in questo, dunque, che Dio si rende manifesto, nel fatto cioè che ogni intelletto si riconosce troppo piccolo per poterselo raffigurare e per poterlo concepire, quia scitur ipsum omnem intellectum ad ipsius figurationem et conceptum nimorem”.

Ma i precetti delle religioni, poiché provengono da un Dio sapiente o onnisciente, sono la giusta via da seguire entro la dimensione terrena. In ebraico biblico d’h si riferisce alla “onniscienza di Dio”. Da un lato il sostantivo ebraico indica che Dio sa molte cose o tutte, dall’altro che questa onniscienza è un attributo della essenza di Dio. In Dio l’uomo trova deh (Salmo 73, 11: gli empi mettono in dubbio che ci sia conoscenza nell’Altissimo, wejesh de’ah be-eljon, quindi, in questo stesso passo, il salmista afferma in modo indiretto che in Dio c’è conoscenza e che Egli la dà al suo popolo).

Con la Prima Lettera ai Tessalonicesi Paolo inaugurava un modo inedito di annunciare il messaggio cristiano: quello della lettera, che veniva spedita a una singola comunità, ivi accolta e commentata e poi fatta circolare altrove. In questa lettera Paolo tradisce la solerzia con cui ha annunciato ai fratelli il messaggio, paragonandosi dapprima a “una madre che cura premurosamente i figli” (2, 7: trophos thalapē ta eautēs teknas), poi a un lavoratore (2, 9) e infine a “un padre” con “i figli suoi” (2, 11: tekna eautou).

In pratica si parla spesso di un Principio. Ma tutti avvertiamo continue contraddizioni in noi: corpo e spirito, bene e male, vero e falso, saggezza e ignoranza, perizia e incompetenza, amore e odio, bellezza e bruttezza, nobiltà e infamia, gioia e dolore. La pretesa delle religioni abramitiche di affermare in senso razionale un Principio assoluto si scontra con l’esperienza comune dell’uomo, tanto da far pensare i manichei che i Principi siano due: un Dio buono e un Dio malvagio. Lo gnosticismo esalta la contrapposizione tra Materia/Male e Spirito/Bene. Le prime comunità cristiane erano particolarmente attente al distacco dal mondo e lo erano soprattutto quelle siriache. I filologi osservano come il Vangelo di Luca, connesso all’ambiente antiocheno, abbia varianti delle parole di Gesù che sembrano inasprire il messaggio circa il distacco dal mondo.

Il filosofo medioplatonico Eudoro di Alessandria così scriveva (tramandato da Simplicio, In Arist. Phys): “Nel senso più alto del discorso bisogna dire che, secondo i Pitagorici, l’Uno è principio di tutte le cose; ma in un secondo senso essi affermano che i principi delle realtà compiute sono due: l’Uno e la natura contraria ad esso. Di tutte le cose concepite per contrapposizione, quella buona è subordinata all’Uno, mentre quella cattiva è subordinata alla natura contrapposta all’Uno. Perciò secondo loro questi ultimi non sono nemmeno principi in senso universale. Se infatti uno è principio di alcune cose, l’altro di altre, non sono principi comuni di tutte le cose come l’Uno”.

Aristotele
Aristotele

La prima frase della Metafisica di Aristotele è: “Tutti gli uomini desiderano sapere per natura”, pantes anthrōpoi tou eidenai oregontai phusei. Ciò che non si comprende affascina gli esseri umani, “seduce”, che nel significato etimologico vuol dire dal latino “conduce a sé”. Siamo attratti dal mistero della vita e degli altri e vogliamo conoscere.

La spinta gnoseologica, come insegna il platonismo, altro non è che atto di amore. Siamo spinti dal desiderio di amare il mondo nel quale siamo immersi e quindi vogliamo conoscerlo.

Per questo nelle religioni l’inno alla divinità è da una parte un tentativo di svelare l’arcano del dio, ma anche dall’altra un tripudio amoroso alla sua perfezione. A questo punto l’inno religioso diviene arte nel momento in cui questa spinta gnoseologica e amorosa diviene adorazione del Bello in sé. E il Bello in sé, che è un’altra definizione di arte, ha molto a che fare con la salvezza.

Matisse diceva che voleva dipingere opere così belle da placare tutta l’angoscia in chi le guardasse. Esiste sia un’arte visiva sia un’arte poetica, ma entrambe hanno come base l’esaltazione del Bello in sé.

È tipico del classicismo augusteo il gusto del fondere arte visiva con arte poetica. Nella statua detta Augusto di Prima Porta l’imperatore ha una corazza. Sui rilievi della corazza, nella parte alta, in corrispondenza del pettorale, c’è un carro, e davanti a questo carro c’è una figura animata che tiene una fiaccola accesa. Si tratta di Phosphoros, portatore della lampada febea, della fiaccola del sole. Questa stessa immagine è cantata da Virgilio all’inizio del libro IV dell’Eneide, ai versi 6-7:

“Postera phoebea lustrabat lampade terras,

Umentemque Aurora polo dimoverat umbram.”

L’Aurora seguente (postera Aurora) illuminava la terra con il lume di Febo (phoebea lampada) e l’umida ombra aveva cacciato dal cielo (polo)”.

Ogni parola necessita di un commento perché il latino è già di per sé una lingua molto pregnante, poi il grande poeta non mette mai i termini a caso.

Si tratta dell’alba dopo la notte insonne di Didone, pazzamente innamorata di Enea: postera… Aurora. In mezzo a questi due termini in concordanza ma così distanti c’è un mare di luce, quello del sole dell’alba.  Lustrabat, “illuminava”, è un indicativo imperfetto, indica una azione continua: Virgilio vuole dirci che il sole sta sorgendo come in una sequenza cinematografica, progressivamente, sta illuminando le tenebre in maniera graduale.

Lustrabat è un verbo che non ha a che fare solo con la luce, ma appartiene al lessico religioso, a un rito che è quello della lustratio dei campi, praticata dai fratres arvales. Un rito molto antico, il quale prevedeva che i frates arvales, cioè i sacerdoti, percorressero il perimetro del campo per purificarlo. Per cui, il movimento del sole nel cielo, è assimilato al movimento di questi sacerdoti lungo il perimetro del campo, quindi è una azione purificatrice. Dopo una nottata resa pesante, non solo dall’oscurità di piombo, tipica della notte, ma anche da tutte queste passioni, il mattino diventa quasi un momento di respiro, nella misura in cui con il mattino non solo sorge il sole e il cielo si illumina, ma quasi si assiste a una purificazione di una condizione di tormento.

Questa lustratio, che è luce e purificazione allo stesso tempo, avviene tramite una fiaccola febèa, cioè una lampada o fiaccola accesa, che è qualificata con il nome del sole che riconduce a Febo Apollo, dio solare. Apollo è chiamato Febo, in quanto Phoibos in greco significa “colui che dà alla luce”. Questo mattino di Didone è qui descritto in versi, come lo scultore dell’Augusto di Prima Porta, ritrae il mattino che sorge sulla corazza di Augusto stesso.

Publio Virgilio Marone
Publio Virgilio Marone – autore ignoto

L’Aurora illuminava (imperfetto) e aveva cacciato (piuccheperfetto) dal cielo l’umida ombra. Virgilio usa la normale consecutio temporum per indicare che prima bisogna cacciare l’ombra (azione anteriore: piuccheperfetto) e poi l’aurora illumina (azione posteriore: imperfetto), ma mette in atto una figura retorica di ùsteron pròteron, cioè inserisce prima quello che deve stare dopo: l’aurora che illumina è messa prima della azione per cui l’umida ombra è cacciata. Virgilio adotta questa figura retorica per esaltare la confessione che Didone fa del suo amore alla sorella Anna.

Ma, ritornando a noi, il passaggio dalla sfera religiosa all’arte in sé stessa sta per esempio nella storia della parola latina carmen, che passa dall’indicare la formula magica a veicolare il senso di carme poetico. Dioniso ne è un altro esempio, infatti il I Inno omerico (A Dioniso, vv. 18-19) recita: “noi aedi ti cantiamo all’inizio e alla fine, e chi ti dimentica non può intonare un sacro canto”, oi de s’aoidoi adomen archomenoi lēgontes t’, oude pēi esti sei’ epilēthomenōi ierēs memnēsthai aoidēs.

Le teorie estetiche del Romanticismo vedevano nell’arte l’Assoluto, ma prima dell’Ottocento europeo il filosofo indiano Abhinavagupta aveva teorizzato il rasa, termine sanscrito che significa “succo”: l’opera d’arte ha una essenza, un “succo”, degustando il quale è possibile raggiungere il nirvāṇa.

La parola, quindi la logica razionale, è uno strumento conoscitivo molto impiegato dagli uomini. È curioso che la radice siriaca HGY significa sia “vocalizzare” un testo (inserire le vocali per leggerlo correttamente) sia “meditare”. D’altra parte conoscere le lingue serve ad entrare in profondità in una cultura, sia del passato sia del presente.

Il siriaco è una lingua cristiana letteraria e liturgica affermatasi nei primi secoli come codificazione del dialetto aramaico di Edessa. Tracce epigrafiche le abbiamo già dal I secolo, le prime testimonianze epigrafiche e papirologiche non sono cristiane, ma compaiono nei manoscritti cristiani dal IV secolo. Nell’umanesimo europeo si sentiva l’esigenza di conoscere lingue diverse dal latino per studiare a fondo diverse culture. I cristiani orientali venivano spesso a contatto con quelli europei, e il siriaco è ancora oggi una delle lingue delle chiese orientali. Poi la nascente stampa sperimentava caratteri grafici orientali. Insomma, per queste e altre ragioni, gli umanisti iniziavano a studiare anche il siriaco: il pioniere degli studi sul siriaco in Europa fu Teseo Ambrogio degli Albonesi; la prima grammatica interamente dedicata al siriaco fu scritta da Masius; un’altra importante grammatica fu quella del sacerdote maronita ‘Amīra; e così via[4].

Gli studi sulla Bibbia in originale (ebraico, aramaico, greco) iniziano nel Rinascimento sulla spinta di motivazioni analoghe. Sono stati portati avanti soprattutto dagli ebrei e dal protestantesimo. Si è discusso molto riguardo al tipo di ebraico impiegato nella Bibbia e alle sue varianti (preesilico, rappresentato da Isaia, e postesilico, rappresentato da Ezechiele): il ritrovamento della iscrizione di Siloam nel 1880 ha dimostrato che la lingua della Bibbia non era solo usata per questo testo (prima di allora si pensava che fosse artificiale) ma anche per le faccende quotidiane. L’Antico Testamento è anche scritto in parte in aramaico: sezioni di Esdra in aramaico imperiale (simile a quello dei papiri di Elefantina), sezioni di Daniele in un aramaico più tardo, detto medio. Tutta la Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) presenta aramaismi, pensiamo alle espressioni in aramaico di Cristo. Gesù forse parlava in una variante dell’aramaico giudaico detta aramaico galileiano, che presentava affievolimento delle laringali. Diversamente da come si dice, i cristiani maroniti non usano ancora oggi nella liturgia l’aramaico di Cristo (un tipo occidentale), ma il siriaco (che deriva da un aramaico orientale). Invece il greco della Bibbia è perlopiù la variante popolare della koiné dialektos, la lingua greca sovradialettale ellenistica, diversa dalla variante colta, come quella usata da Plutarco. In ogni modo il greco biblico si caratterizza, all’interno della koiné dialektos, per il grande uso di semitismi, cioè espressioni derivanti dalle lingue semitiche (nella specie ebraico e aramaico), tanto che Norden proponeva di parlare per questo greco di un “dialetto giudaico”.

Facciamo un solo esempio di semitismo nel greco biblico. In Atti 2, 46 si parla dello spezzare il pane eucaristico kat’oikon. Questa espressione greca ha suscitato molte ipotesi. “Presso le case”, circa domos, come traduce la Vulgata? Altri pensano a domi, “privatamente”. Altri ancora a domatim, “di casa in casa”. Zolli richiama Esodo 12, 3: gli ebrei prendano “un agnello per famiglia, un agnello per casa”, nell’originale ebraico seh le-beth ‘avoth, seh la-bajith. La traduzione greca LXX rende rispettivamente con kat’oikous, kat’oikian. Quindi l’espressione degli Atti kat’oikon potrebbe indicare che il pasto rituale della chiesa primitiva, che prendeva le mosse dall’avvenimento pasquale ebraico, era celebrato spezzando il pane “per famiglia”[5].

Tra Settecento e Ottocento avviene in Europa la riscoperta dell’India antica. L’espansione coloniale della Compagnia delle Indie Orientali inglese accelerò e approfondì i contatti degli intellettuali occidentali col patrimonio artistico, letterario e culturale indiano. Nel 1950 Reynold Schwab utilizzò l’espressione Rinascimento Orientale (Renaissance Orientale) per descrivere l’impatto profondo e fortemente innovativo che ebbe la riscoperta delle civiltà orientali – e in particolare del patrimonio culturale dell’India antica e sanscritica – sul mondo occidentale tra la fine del Settecento e il tardo Ottocento.

Sir William Jones - Painting by Joshua Reynolds
Sir William Jones – Painting by Joshua Reynolds

Gli intellettuali europei, oltre a gustare tesori spirituali e letterari di incomparabile bellezza, dai Veda al Mahābhārata e alle opere immortali di Kālidāsa (il quale affascinò Goethe: fu esponente della letteratura raffinatissima sanscrita detta kavya), avanzarono in quel periodo anche la ipotesi indoeuropea. Nel suo Third Anniversary Discourse to the Asiatic Society (1786), Sir William Jones (1746–1794) propose l’ipotesi che il sanscrito, il greco e il latino avessero una comune origine, e che fossero inoltre imparentati con il gotico, con le lingue celtiche e con il persiano.

Il senso ultimo dello studio delle lingue è imparare il passato dal quale la lingua deriva e il presente nel quale la lingua in questione viene usata. Allora un siffatto studio ha come fine ultimo il capire la mentalità di un popolo.

La cultura è diversa dal nozionismo: la nozione è un dato, ma il singolo dato non deve essere fine a sé stesso bensì fornire gli strumenti della conoscenza profonda una realtà. Non ha senso possedere la nozione grammaticale di una lingua senza aprirsi alla conoscenza di quel popolo. Il primo livello è propedeutico alla cognizione della cultura entro la quale quella lingua acquisisce il suo senso pieno.

Per lo stoico Crisippo di Soli la sapienza (sophia) èl’arte di tutte le arti” (fr. C.e. 301 von Arnim: technē technōn). E, sempre secondo Crisippo (fr. C. e. 214 von Arnim), “ogni arte è un sistema di principi teorici consolidati dall’esercizio”, pasa de technē sustēma ek theōrēmatōn sunghegumnasmenōn.

La sapienza della lingua è qualcosa di più: si allaccia all’Essere. Il Vangelo di Giovanni si apre con questa dichiarazione capitale: “In principio era la Parola”, in greco en archēi ēn o logos. I commentatori accostano questo incipit con quello della Genesi: “In principio Dio creò”, in ebraico be-reshit barà ‘Elohim.

La parola è strumento della creazione. Il più importante testo cabalistico, lo Zohar, trasforma il testo della Genesi e rende: “Con questo principio creò”, be-hai reshit barà. Prima della parola, dunque, non c’è niente perché Dio creò tutto mediante la parola.

L’imperfetto greco rende probabilmente un perfetto aramaico, quindi non si tratta di un passato: l’azione verbale del verbo aramaico è compiuta ma con risultati costanti nel tempo. Allora la parola non era nel passato ma risulta essere strumento di creazione anche nel presente dei nostri giorni. Fino all’eternità. È quindi l’Essere, detto in altri termini, è Dio, continua Giovanni:E la Parola era Dio”, kai theòs ēn o logos.

Il sostantivo greco logos deriva dal verbo greco leghein, “raccogliere”. Secondo una ipotesi, la radice indoeuropea LEG, dallo stesso significato del verbo greco, sarebbe da accostare all’altra radice indoeuropea REG, che ha dato origine a parole molto importanti come “rettitudine”, “retto”, “regola”, “regime”, attraverso la mediazione del verbo latino regere, che è in connessione con l’ordine delle cose, quindi il rex, “re”, è colui che presiede alla stabilità e all’ordine dello stato.

Ora, ordine delle cose e rettitudine sono da sempre in sintonia con l’idea che i più hanno della divinità.

 

Written by Marco Calzoli

 

Note

[1] A. K. Coomaraswamy, Aspetti bhakta della dottrina dell’ātman, in ID., La tenebra divina, Milano 2017, pp. 427-438.

[2] E. Fraenkel, Pindaro, Sofocle, Terenzio, Catullo, Petronio, Roma 2007.

[3] C. Saccone, Il “retto sentiero” e la via dell’intelletto: sapienza umana e sapienza divina nell’Islam, in Divus Thomas Vol. 110, No. 3, Sufismo (settembre-dicembre 2007) pp. 37-75.

[4] Per approfondire: R. Contini, Gli inizi della linguistica siriaca nell’Europa rinascimentale, in Rivista degli studi orientali, Vol. 68, Fasc. 1-2 (1994) pp. 15-30. Il siriaco è la lingua cristiana orientale più importante (le altre sono: copto, etiopico, arabo, greco, armeno, georgiano, sogdiano). I maggiori prestiti stranieri nell’arabo provengono dal siriaco (e in misura minore dal sud-arabico). Il sostantivo arabo burg, “torre”, deriva dal greco purgos, “via”, per la mediazione siriaca burga. Cfr. S. Fraenkel, Die aramäischen Fremdwörter im Arabischen, Leiden 1886. Secondo l’ipotesi di Luxenberg, lo stesso Corano potrebbe essere stato scritto originariamente in un misto di siriaco e arabo e in alfabeto siriaco.

[5] E. Zolli, Il Nazareno. Studi di esegesi neotestamentaria alla luce dell’aramaico e del pensiero rabbinico, Milano 2009.

 

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Rubrica Meditazioni Metafisiche

 

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