Dalle Enneadi secondo Plotino: i numeri
“In verità, ogni essere è in cerca di se stesso e non di un’altra cosa, e l’uscita da sé è segno di stoltezza o è frutto di necessità. Oltre a ciò ciascuna realtà realizza maggiormente se stessa non quando si incrementa nel numero o nelle dimensioni, ma quando si appartiene e, per appartenersi, bisogna volgere a se stessi. La propensione verso un siffatto tipo di grandezza è tipica di chi ignora la vera grandezza, e rivolge il suo impegno non dove sarebbe necessario, ma verso la realtà esterna. D’altra parte tendere a sé vuole dire tendere all’interiorità.” – Plotino
Plotino nasce a Licopoli nel 203/205 e muore a Minturno (o Suio) nel 270. È considerato l’erede di Platone e padre del neoplatonismo, le informazioni che abbiamo su questo importante filosofo greco provengono dalla Vita di Plotino ad opera dell’allievo Porfirio, inserita come prefazione alle Enneadi.
Porfirio racconta nella biografia: “Nello scrivere egli, pur avendo molte idee, era conciso e breve, perché abbondava più di pensieri che di parole; nel parlare, invece, era spesso ispirato e appassionante, perché si immedesimava in quello che diceva e non si limitava a una trasmissione di idee. Nei suoi scritti si mescolano latenti dottrine stoiche e peripatetiche; spesso viene utilizzata la “Metafisica” di Aristotele[1]. Non ignorava certo i cosiddetti teoremi della geometria, dell’aritmetica, della meccanica, dell’ottica e della musica; ma non si dedicò ad approfondire queste materie. Nelle lezioni venivano letti sia i commentari di Severo[2], di Cronio[3], di Numenio[4], di Gaio[5] e di Attivo[6], sia quelli dei Peripatetici, vale a dire di Aspasio[7], di Alessandro[8], di Adrasto[9] e di altri occasionali. Ma non era una semplice lettura di un brano, perché egli era originale e creativo nella speculazione, portando nelle ricerche l’intelligenza di Ammonio. Completava velocemente la lettura e poi, spiegando in poche parole il significato di una profonda riflessione, si alzava in piedi. Quando gli vennero letti i trattati di Longino[10] intitolati: “Sui Principi” e “L’amante dell’antichità”, egli commentò: “Longino è certamente un filologo, ma non è assolutamente un filosofo”. La volta che Origine si presentò a una lezione, egli arrossì e volle andarsene, e, sebbene Origene lo pregasse di parlare, egli rispose che la tensione viene meno quando chi parla sa che deve dire cose che gli uditori già sanno; e così andò via, dopo aver discusso per breve tempo.”
Le Enneadi (in greco antico: Ἐννεάδες, Enneádes) sono composte da sei gruppi di nove trattati ciascuno. Porfirio ordinò i trattati in senso ontologico con lo scopo di tracciare un percorso per il lettore per il raggiungimento del superamento della condizione terrena e, dunque, per giungere alla comprensione della filosofia.
Gli scritti di Plotino hanno ispirato teologi, mistici, cristiani, musulmani, ebrei, gnostici e metafisici pagani.
Il primo trattato della sesta ed ultima Enneade è intitolato “I generi dell’Essere I” e si sviluppa come critica della dottrina delle categorie di Aristotele e degli Stoici. Il secondo trattato segue il precedente, “I generi dell’Essere II” ed è fondato sul Sofista di Platone, il trattato vuole stabilire quali siano i generi supremi del mondo intelligibile dopo aver stabilito il concetto secondo il quale l’essere non è l’Uno. Il terzo trattato “I generi dell’Essere III” si concentra sul mondo sensibile, ossia sul divenire. Nel quarto trattato “Che cosa significhi che l’essere uno e identico è tutto intero dovunque I” si continua ad affrontare la il nesso strutturale fra l’Uno e i Molti. Il quinto trattato, “Che cosa significhi che l’essere uno e identico è tutto intero dovunque II”, come suggerisce il titolo segue e prosegue il quarto trattato, esplicitando però maggiormente il nucleo teorico ed incentrando i ragionamenti sull’Essere intelligibile e sull’Uno.
Il sesto trattato, “I numeri”, è il trentaquattresimo scritto da Plotino in cui si richiama la concezione di Platone dell’infinito come Diade di grande e piccolo infinita o indeterminata. Fondamentalmente si vuole asserire che il numero infinito di per sé non esiste ma siamo noi che pensando un numero sempre più grande di uno dato creiamo un infinito. Se non ci fossimo noi ed il nostro contare non ci sarebbe l’infinito perché il numero di per sé è determinato. Similmente alle Idee così i numeri: l’essere delle Idee non dipende dal loro essere pensate perché un’Idea è e l’uomo può pensare un’Idea proprio perché questa è, esiste.
L’Essere precede i numeri. Il numero deriva dall’Essere stesse e precede i singoli enti. Dall’Uno assoluto deriva l’Essere che è un numero unitario, e dall’Essere derivano gli enti che sono numeri sviluppati. L’Intelligenza, invece, è un numero semovente. L’Uno e i numeri non sono affezioni dell’Anima ma caratteri strutturali delle cose.
Il trattato non è propriamente originale, nel senso che a Plotino non interessa molto la problematica del numero, ciò che troveremo è una ripresa dei problemi portati avanti da Platone, il quale ha parlato di numeri in senso metafisico ed in senso matematico. Si ricorderà quella finzione letteraria tanto cara a noi occidentali: “Non entri nessuno che non conosca la geometra” (“Ἀγεωμέτρητος μηδεὶς εἰσίτω”), ebbene essa esprime in modo perfetto il programma che Platone metteva in atto nell’Accademia.
In “Metafisica” Aristotele scrive: “[Platone] afferma che, accanto ai sensibili e alle Forme [= Idee], esistono gli Enti matematici intermedi fra gli uni e le altre, i quali differiscono dai sensibili perché immobili ed eterni, e differiscono dalle Forme perché ve ne sono molti simili, mentre ciascuna Forma è solamente una e individua”.
Di seguito sono riportati il primo ed il sesto dei diciotto paragrafi complessivi del trattato, dunque, si invita all’acquisto del volume riportato in bibliografia per potersi dissetare pienamente.
Enneade VI 6, 1 – I numeri
La molteplicità è forse una separazione[11] dall’Uno e l’infinito in quanto tale, per la sua innumerabile grandezza, un’assoluta separazione?
Del resto, è proprio per questo motivo che l’infinito è un male e noi pure lo siamo, dato appunto che siamo molteplicità. Ogni realtà diviene molteplice quando è incapace di piegarsi su se stessa, e così si riversa all’esterno e si diffonde sino a dissiparsi. E quando nella dissipazione ha esaurito la sua unità, diventa molteplicità, venendo meno la forza unificante di una parte con l’altra. Se, poi, riesce a stabilizzare questa sua dispersione, diviene grandezza.
Ma che c’è di male in questa grandezza?
Il male nascerebbe al momento in cui si acquistasse coscienza di ciò, perché, in tal caso si renderebbe conto di essere fuori di sé e di essere lontana da sé.
In verità, ogni essere è in cerca di se stesso e non di un’altra cosa, e l’uscita da sé è segno di stoltezza o è frutto di necessità. Oltre a ciò ciascuna realtà realizza maggiormente se stessa non quando si incrementa nel numero o nelle dimensioni, ma quando si appartiene e, per appartenersi, bisogna volgere a se stessi.
La propensione verso un siffatto tipo di grandezza è tipica di chi ignora la vera grandezza, e rivolge il suo impegno non dove sarebbe necessario, ma verso la realtà esterna. D’altra parte tendere a sé vuole dire tendere all’interiorità.
Eccone la prova che viene da una cosa dotata di grandezza: suddividendola in modo tale da ridurla in parti autonome, si avrà l’esistenza di ciascuna di queste, ma non della cosa originaria. Ma se questa pur sussiste, bisogna che tutte le parti tendano all’uno, dato che essa stessa esiste perché in qualche modo è una e non già perché è grande. Ciò, dunque, è una conseguenza della grandezza, per cui una cosa si dissolve in proporzione della sua relazione con essa. Invece, quello che ha unità, ha se stesso.
Eppure, l’universo è sia grande sia bello: questo dipende dal fatto che non gli è concesso di fuggire nell’infinito, ma è circoscritto dall’Uno.[12] E poi l’universo è bello non perché è grande, ma per via della bellezza, e di questa ebbe bisogno, dacché assunse la grandezza.
Senza il bello, la bruttezza sarebbe pari alla sua grandezza. In tal senso, la grandezza è materia del bello, perché è la realtà molteplice ad aver bisogno di ordine, e quanto più il grande è disordinato tanto più è brutto.
Enneade VI 6, 6 – I numeri
“Ma se l’Uno in sé e la decade in sé esistono anche in assenza delle cose, e se le realtà intelligibili prima sono quel che sono e solo in seguito, in un secondo tempo, saranno monadi, diadi e triadi, come sarà la loro natura e in quale forma sussisterà?
Certo, la generazione[13] degli intelligibili va concepita come un evento che riguarda la ragione. In primo luogo e in generale bisogna cogliere l’essenza delle idee: ciascuna di esse non dipende dal pensiero di un qualche soggetto che, una volta pensata, le attribuisca esistenza con la forza del pensiero.
Così la giustizia non deve la sua esistenza al fatto che qualcuno ha pensato che cosa deve essere; e, parimenti, il movimento esiste, non perché uno ha pensato la su definizione.
In tal caso, un tale pensiero finirebbe con l’essere successivo alla cosa pensata – e dunque il pensiero della giustizia posteriore alla giustizia – e nel medesimo tempo sarebbe anche antecedente rispetto a ciò che da sé trae origine, perché esso esiste per il fatto di averlo pensato. E se la giustizia si identificasse con un pensiero di questo genere, in primo luogo sarebbe assurdo che non si riducesse alla sua definizione.
Infatti, che cosa vuol dire l’aver pensato la giustizia o il movimento, se non afferrarne ciò che è? Ma questo corrisponde a concepire la ragione di una cosa che non esiste, il che è impossibile.
Si potrebbe, però, sostenere quest’altra tesi: per gli oggetti immateriali la scienza si identifica con il suo oggetto. Qui però l’asserto va inteso in questi termini: non che la scienza e il suo oggetto, la ragione pensante un certo contenuto e il suo contenuto facciano tutt’uno, ma, all’opposto, l’oggetto nella sua immaterialità è a un tempo pensato e pensiero, intendendo quest’ultimo termine non come se fosse l’apprensione razionale della cosa o il suo coglimento immediato, ma, invece, Intelligenza e scienza, dato che la cosa stessa è insita nell’intelligibile.
Certo, la scienza non si rivolge a se stessa, ma l’oggetto del mondo intelligibile è riuscito a trasformare quella scienza insicura che era propria delle cose materiali, rendendola scienza autentica, ossia facendola non più immagine del suo oggetto, ma identica a esso.
Pertanto, il pensiero del movimento non ha dato luogo al movimento in sé, ma al contrario è stato quest’ultimo a dare origine al primo, di modo che il movimento in sé si è trasformato tanto in movimento quanto in pensiero. E il movimento di lassù è anche pensiero di quella realtà, la quale è essa pure movimento: movimento primo – perché al di sopra non ce n’è un altro – e vero, perché non è accidente di altro, ma atto di ciò che è attualmente in movimento. Per tale motivo è anche sostanza.[14]
La cognizione dell’essere è tuttavia differente. La giustizia non è il pensiero della giustizia, ma una certa disposizione dell’Intelligenza, o meglio una sua attività; il suo aspetto è bello, tanto che neppure “la stella della sera e del mattino sono altrettanto”,[15] e neanche, in generale, qualcuna delle realtà sensibili. Si tratta, invero, di uno splendore intellettuale, che, per così dire, sgorga da se stesso e si manifesta in se stesso, o, per meglio dire, che esiste in sé.”
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Dal 9 marzo al 4 maggio 2019 abbiamo presentato la prima Enneade con alcuni paragrafi tratti dall’edizione Mondadori del 2012. Abbiamo così attraversato gli argomenti “Che cos’è il vivente e chi è l’uomo”, “Le virtù“, “La dialettica”, “La felicità”, “Se l’essere felice aumenta col tempo”, “Il Bello”, “Il primo bene e tutti gli altri“, “Quali siano e da dove vengono i mali” ed “Il suicidio”.
Dall’8 giugno al 3 agosto abbiamo presentato la seconda Enneade ed i suoi nove trattati: “Il Cielo“, “Il moto celeste“, “Se gli astri hanno un influsso“, “La materia“, “Ciò che è in potenza e ciò che è in atto“, “La sostanza e la qualità”, “La commistione totale“, “La vista, perché le cose lontane appaiono piccole“, “Contro gli gnostici“.
Dal 7 settembre al 2 novembre abbiamo presentato la terza Enneade: “Il Destino”, “La provvidenza I”, “La provvidenza II”, “Il demone che ci ha avuto in sorte”, “Eros”, “L’impassibilità degli esseri incorporei”, “Eternità e tempo”, “La natura, la contemplazione e l’Uno”, “Considerazioni varie”.
Dal 7 dicembre 2019 al primo febbraio 2020 abbiamo presentato la quarta Enneade: “La sostanza dell’Anima I”, “La sostanza dell’Anima II”, “Questioni sull’Anima I”, “Questioni sull’Anima II”; “Questioni sull’Anima III”, “La sensazione e la memoria”, “L’immortalità dell’Anima”, “La discesa dell’Anima nei corpi”, “Se tutte le anime siano una sola”.
Dal 7 marzo al 2 maggio 2020 abbiamo presentato la quinta Enneade: “Le tre ipostasi originarie“, “La genesi e l’ordine della realtà che vengono dopo il primo”, “Le ipostasi che conoscono e ciò che è al di là”, “Come dal primo principio derivi ciò che viene dopo il primo. Ricerche sull’Uno”, “Sul fatto che gli intelligibili non sono esterni all’Intelligenza e sul bene”, “Sul fatto che ciò che è al di là dell’essere non pensa e su che cosa siano il primo e il secondo principio pensante”, “Se esistano idee anche degli individui”, “La bellezza intelligibile”, “L’intelligenza, le idee e l’essere”.
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Note
[1] Plotino era abbastanza critico nei confronti di Aristotele, ma non così fu Porfirio che tentò una mediazione tra Platone, Aristotele e Plotino.
[2] Severo fu un medioplatonico del II secolo d.C., autore di un commentario al “Timeo.
[3] Cronio fu un medioplatonico del II secolo d.C., autore di un trattato “Sulla reincarnazione”, presentato da Porfirio nell’”Antro delle Ninfe” come amico intimo di Numenio di Apamea e ricordato anche da Luciano di Samosata nella “Morte di Peregrino”.
[4] Numenio di Apamea è uno dei più importanti autori del medioplatonismo/neopitagorismo, di enorme importanza per la formazione del neoplatonismo plotiniano. Plotino fu addirittura accusato di plagiare Numenio nella teoria delle tre ipostasi.
[5] Gaio fu un mediplatonico del II secolo d.C., che diresse una scuola ad Alessandria in cui si leggevano e si commentavano i dialoghi di Platone. Spesso è stato citato da Albino, da Prisciano e da Proclo.
[6] Attico fu un medioplatonico fortemente critico verso Aristotele, è vissuto nel II secolo d.C., ci sono pervenuti solo frammenti.
[7] Aspasio fu un aristotelico del II secolo d.C., maestro di Ermino, a sua volta maestro di Alessandro di Afrodisia.
[8] Alessandro di Afrodisia fu un aristotelico del II secolo d.C., ed è il suo principale commentatore.
[9] Adrasto di Afrodisia fu un aristotelico del II secolo d.C., che commentò le “Categorie” di Aristotele e il “Timeo” di Platone.
[10] Il retore Cassio Longino, a cui è stato attribuito lo scritto “Sul sublime”, fu il primo maestro di Porfirio ad Atene.
[11] Plotino utilizza per “separazione” il termine ἀπόστασις (composto di lontano e stare/collocarsi) derivante da ἵστημι che avrà molta fortuna in ambito religioso ed impostosi come metafora emblematica dell’abbandono della propria dottrina.
[12] La falsa grandezza è quella fisica, la vera grandezza sta invece nella dimensione dell’intelligibile. La grandezza fisica dis-perde la cosa, mentre l’unità (la determinazione e la concentrazione unitaria) la fa essere veramente se stessa, e quindi grande in senso vero. Analogo è il ragionamento che Plotino fa sulla bellezza: il bello non deriva dalla grandezza fisica, la quale può produrre l’opposto, il non-bello: la bellezza può derivare solo dall’Idea del bello.
[13] Termine usato in senso metaforico, si intende esprimere con la ragione la struttura del reale.
[14] Enneade VI 2, 7.
[15] Euripide, Melanippe.
Info
Rubrica Dalle Enneadi secondo Plotino
Bibliografia
“Enneadi” di Plotino, Arnoldo Mondadori Edizioni, 2012. Traduzione di Roberto Radice. Saggio introduttivo, prefazioni e note di commento di Giovanni Reale.
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