“Finitudine” di Telmo Pievani: vivere è dare un senso a sé e all’Altro
Il pessimismo è un umanesimo? Un esempio illustre come Leopardi pare confermare tale ipotesi.
Il principio antropico è un umanesimo? Pare di sì. Non so se vi sia però anche un principio ochesco o gorillesco. Esso afferma, nella sua forma debole, che noi possiamo osservare il mondo perché esistiamo. La forma forte è infinitamente più assurda: l’universo dev’essere tale perché qualcuno lo possa osservare. Qualcuno che siamo noi, nella fattispecie (ma anche i gorilla, le oche e i virus).
I fisici hanno calcolato tutta una serie di condizioni estreme e al contempo reali che legittimano almeno la forma debole del ragionamento. È quasi inaudito che io sia qui a battere freneticamente i tasti del mio portatile. Nelle prime pagine del romanzo filosofico, l’autore indica alcune di queste eventualità azzeccate per un caso che ha del miracoloso, come se fosse un intelligent design voluto da chissà quale grafico o ingegnere.
Mio padre, preoccupato per la mia scarsa voglia di lavorare (col tempo l’ho dovuta acquisire, obtorto collo) e di studiare (questione che risolsi a modo mio), mi chiese cosa volessi fare nella vita. Gli risposi senza esitazione: Ingegnere del nulla. A distanza di quattro decenni non ho ancora conseguito la laurea e nessuno mi ha ancora abbracciato né baciato. Ancora mi sto affannando sui libri, in attesa di ottenere il mio primo 18. Il principio antropico non basta, bisogna andare nella direzione corretta, se si vuole perseguire uno scopo. A volte ci si può azzeccare per caso, ma è quasi improbabile. È sempre questo avverbio di modo che salva noi disgraziati.
Il romanzo “Finitudine”, ambientato nei primi sei mesi del ’60, narra di un miracolo. Albert Camus ha avuto un pauroso incidente (si dice così come se fosse il pericolo a correre se stesso), ma non è morto, in questo universo. In un altro, che frequentavo poco fa, e a cui talvolta faccio ritorno, non ha avuto tanta fortuna. Dovrei chiedere spiegazioni a Giordano Bruno o a Hugh Everett III.
Il suo amico Jacques Monod lo va a trovare e gli propone la lettura di alcuni passi terribili, improntati alla più lucida e bieca neritudine, una serie di previsione apocalittiche che hanno il difetto di essere certe: prima o poi tutto finirà.
“C’è dell’incanto in questa finitudine di tutte le cose.” Strana la mancanza di un punto esclamativo. Si vede che l’incanto è contenuto. Esso è dovuto perché, come di certo l’autore sa (chissà chi è, almeno relativamente a questa frase, Pievani, Monod o Camus? Sento che è tutto Pievani e, al contempo, un misto di tutti e tre), il primo principio della termodinamica assicura che il numero delle carte resta sempre quello, per cui il gioco è assicurato, che poi sia una briscola o un ramino, dipende appunto da quale sia esattamente il numero costante delle carte. Nulla si crea e nulla si distrugge, però tutto si ri-crea e poi si ri-distrugge. Questo è il vero miracolo, anzi: miracolo! Nella vita c’è la morte, nella morte c’è la vita, assicura il saggio Thích Nhât Hanh, monaco vietnamita.
“Deve esserci un disegno.” – questa pare sia l’ipotesi da cui si ri-parte, per l’ennesima volta, dopo aver circumnavigato quello che non si può circumnavigare, mancando esso di un centro, dove si confida di tornare. L’eterno ritorno? Boh! Chiediamo a Sisifo?
“Il destino si compie il momento stesso in cui si compie, non prima. La comparsa della specie umana fu l’ennesimo evento unico, accidentale e improbabile nella biosfera.” Per cui ci è andata abbastanza bene, se non benissimo.
A proposito del linguaggio umano, Raffaele Simone, ne Il software del linguaggio, afferma che i cosiddetti discontinuisti “ritengono che tra i sistemi di comunicazione umani e quelli animali ci sia un gap incolmabile” e che noi siamo come quel Binda che fu invitato a non partecipare a un Giro d’Italia, per la sua manifesta superiorità. Peccato che noi partecipiamo e inquiniamo tutti i giri del pianeta che però potrebbe un giorno vendicarsi. Alla natura poco importa se un pianeta sia abitabile oppure no: essa continua a essere se stessa, anche dove non vi sia traccia di vita di qualsiasi specie. Per essa, le tragedie di Hiroshima e Nagasaki sono eventi come un altro; anche l’eventuale e tragicamente inevitabile trasformazione del sole in gigante rossa, con la rovina che comporta, le sembrerà un atto dovuto, imprescindibile dalle sue leggi.
È la scienza sacrilega? No, poiché il sacro non può essere attestato con i suoi metodi. Solo chi crede nella metafisica, può abiurarne le conclusioni.
“Questo uomo del disincanto ora sa che, come un nomade errante, si trova ai margini di un universo in cui, tuttavia, deve vivere.” In questo desolato Caucaso non v’è rispetto per la sua musica, la sua speranza e sofferenza. Nel testo i tre sostantivi sono al plurale. La forma singolare dà maggiormente l’idea della mancanza: è meglio perdere una cosa alla volta, perché in al modo il relativo cordoglio è reso più semplice da esternare. Pensa al povero Alcide Cervi che, in un 28 dicembre qualsiasi, ha perso i suoi sette figli. Se viene a mancare un genitore, muore un pezzo di te. Per la scomparsa di un figlio, si dice che svanisca con lui la tua maggior parte. Però, se ne hai un altro… almeno ti distrarrà da quel senso di asfissia che è proprio della tragedia. Dico questi, cari amici, per angustiarti più di quel che sei già. La sofferenza è il più patente attestato di sopravvivenza.
“La bestia umana è ambivalente e contraddittoria. E la guerra fa esplodere questa crisi umana.
In ogni guerra giusta ci fu l’esecuzione folle di un tiranno. In ognuna un eroe si è macchiato della peggiore delle onte.”
Interessante la storia che Monod fa di quei batteri appassionati di glucosio, a cui vien proposto del lattosio. Questi fetenti ignorano il secondo, fino a che ce n’è del primo alimento. Poi, affamati, e geneticamente modificati, si gettano su quello che rimane, pur, forse, anche loro, obtorto collo. Se ne trae una lezione, per evitare che il popolo si nutra di alcune cose, basta negargliele. Finisce che si adatta.
Cito Pievani, che cita il suo Camus (chissà se anche quello reale?), che cita Tolstoj: “dobbiamo trasformare la nostra vita in modo da darle un senso che la morte non può rapirle.”
Ora parlerò di volta in volta a ognuno di voi, perché avete sviluppato tre psiche, anime, atman a dir si voglia. Io credo, ma non ne sono certo, che il testo di Finitudine sia scritto da Telmo, anche il dialogo fra te, Albert, e te, Jacques, lo è. Ma poco conta.
Telmo, tu dici che si può fuggire da questa Terra infetta, per recarsi Altrove, che poi diventerà fatalmente una Terra-bis.
“Semmai si propone, con il rischio psicologico che questi tentativi di fuga diventino un colossale diversivo per rimandare la cura della terra.”
Telmo, in questo assurdo 2020 dici di attendere quello che pareva imminente nel 1960: “In attesa che una delle due superpotenze sbarchi sulla Luna e che gli astronomi indaghino più in fondo sulla Natura di alcuni interessanti satelliti di Giove e di Saturno, nel nostro sistema provarci provare con Marte.”
Nella Bozza del capitolo secondo, ipotizzi che, per terrizzare Marte, si potrebbe inondare lo stesso con una miriade di batteri. Questa è una tipica soluzione umana, devastare la natura per agevolare i suoi comodi. Occhio, però. E se si mutano geneticamente? Se vengono inseriti dei batteri che si mutano in marziani stafilococchi, streptococchi, meningococchi? Quanti neo immigrati giunti con delle chiatte galattiche morirebbero prima di creare in un angusto laboratorio il provvidenziale antibiotico?
Altre soluzioni per difendere la bestia uomo dalla fatale rovina, per rimandarla un po’, ipotizzi la possibilità di ibernare le classi più abbienti, pratica che “non è materia per poveracci.”
Sull’immortalità digitale, ti propongo due soluzioni. Una è quasi impossibile, ma è il quasi è sempre il fine su cui val la pena di puntare. Frank J. Tipler, docente di fisica in uno sperduto ateneo della Louisiana negli anni ’90 ebbe un’intuizione. Secondo i suoi calcoli e vaneggiamenti, nel punto Omega, dove tutto andrà a finire, ci saranno le memorie di tutti gli stati delle particelle del cosmo, purché ad ognuno di essi sia abbinata un’informazione che, insieme a tutte le altre, potrà ricreare tutto quanto, compreso quei due miei episodi testé narrati. Si tratta della Fisica dell’immortalità, in cui la rappresentazione sarà la realtà, tutte le possibili e quindi quantisticamente reali realtà. Una specie di “macchina di Turing”.
C’è poi l’idea di Hilary Putnam in Ragione, verità e storia, si chiede quali prove abbiamo di non essere cervelli immersi in una vasca, che credono di essere vivi (allegoria che fu resa popolare dalla serie della serie cinematografica di Matrix). Possiamo capovolgere l’idea. Se è vero che ce ne frega poco della “mera sopravvivenza biologica del nostro involucro”, perché non sviluppiamo una tecnologia che ci permetta di salvare quel latteo liquidino che corrisponde alla nostra memoria? Ecco che un pur fragile in vitro ci garantirebbe un’ipotetica, se non l’eternità, almeno una millenarità. E se poi Le cose crollano, come nel libro di Achebe, questi flaconcini potrebbero essere salvare mentre si va colà.
“Il clone non è identico” avverti. Anche tu non lo sei. Nulla è identico a sé in modo imperituro. Ce ne faremo mai una ragione?
Monod critica Camus: “All’inizio del Mito di Sisifo tu hai scritto che Galileo ha fatto bene ad abiurare. È uno dei pochi punti della tua opera su cui dissento totalmente.” Secondo il biologo è più importante una vita umana, in modo analogo la pensava Napoleone o un dirigente dell’Ilva. Io sono d’accordo con Albert.
Secondo la Arendt, Socrate era destruens più che costruens. Ma da qui a ucciderlo! Sicuramente la sua fu un’età instabile, e lui vi era profondamente immerso. Non riesco, per quanto mi sforzi, a giudicare razionale il suo martirio, che è, come disse Nietzsche, un suicidio. Assai più di Cristo, il quale è un altro mistero per me insolubile. E se fosse stupido egoismo e folle mania di grandezza? Socrate mi ha insegnato a dubitare di tutto, ma non ad accettare l’irrimediabile destino d’ignoranza a cui egli ci ha condannati. Mi ribello, caro mio, alla tua maledizione, mentre piango la tua morte.
Albert si difende come può: “Senti, non avevo ancora trent’anni quando ho scritto quell’introduzione…”
Che bello avere sempre ventinove anni!
Galileo e Darwin valevano più delle loro teorie. Io ammiro tanto loro come il disgraziato Giordano Bruno, ma quest’ultimo aveva tutto il diritto e il dovere di fuggire, davanti all’ignoranza della classe dominante. Maimonide non era geniale come Giordano, ma era notevolmente più accorto.
“Sai che io preferisco le rivolte alle rivoluzioni? Secondo me c’è una vena di follia in chi difende spiegazioni deterministiche, figlie di una ragione cieca che ha pretesa di chiarezza.”
Io non amo né le una né le altre, qualora prevedano l’uccisione fisica di nemici, e non la loro istruzione. Io preferisco una posizione media, come quella che usò Prezzolini, coi suoi immoti apoti. Non bere la verità di nessuno, nemmeno la propria. Ma sempre tendere verso di lei, quest’ineffabile e assurda signorina.
Però… è morto Maradona, precisamente un quarto di secolo dopo la di-partita di George Best, il quale disse che aveva sprecato gran parte del suo patrimonio in donne, motori e alcol, e che il resto se l’era sputtanato. Maradona aveva detto, oppresso dalla coca, che voleva passare alla storia. Per quanto sia impossibile pensarlo, c’è stato, c’è e ci sarà almeno un luogo del cosmo in cui nessuno ha visto i gol con cui Diego Armando affossò l’Inghilterra di Lineker e quelli con cui George annullò il Benfica di Eusebio. M’immagino talvolta Hugo e Tolstoj in una qualche Osteria da padreterno a litigare sulla figura del piccolo caporale italiano. Similmente, fantastico i due funamboli organizzare dei tornei di calcetto coi Santi Pietro e Paolo. Non so perché dico questo, ma se c’è una necessità di eterno ritorno, mi auguro di ritrovare entrambi, l’uno obnubilato dalla coca e l’altro annebbiato dal whiskey. Fino a che c’è trasgressione c’è speranza.
“La funzione più alta dell’intelligenza umana è la simulazione: attingiamo all’esperienza, ma attraverso schemi cognitivi geneticamente fondati, quindi basati a loro volta sull’esperienza accumulata nel corso dell’evoluzione. Solo noi immaginiamo, prevediamo, proiettiamo, anticipiamo la trama del mondo.”
L’esperienza codifica, istruisce, deposita: noi avremmo, secondo Jung, l’anima del mondo, che a volte appare e a volte no, ma è sempre presente.
Siamo tutti dei pelosi cani di Pavlov, anche noi saliviamo o restiamo a bocca secca, a seconda degli indizi che andiamo raccogliendo nella nostra esistenza e che andremo a trasmettere alla nostra prole. Una di queste è l’immaginazione.
Leopardi afferma che l’immaginazione è la funzione che maggiormente serve e concepire, creare, formare, perfezionare un sistema filosofico, metafisico, politico che abbia il meno possibile di falso.
È la dea che ci permette di creare ogni cosa, anche l’idea di qualsiasi divinità, anche se stessa.
“I romanzi non sono esercizi di evasione dalla realtà. Sono la fabbricazione di universi alternativi, chiusi e compiuti. Non rappresentano e non copiano, costruiscono una storia mediante composizione di fatti veri.”
La scuola di Copenaghen guidata da Bohr afferma che, a seconda del caso (o della necessità? Si ignora!) la particella seguiva un tragitto anziché un altro, ma ovunque vada, ovunque decida d’interagire col resto del mondo (o che sia un tutt’uno altro mistero), crea il mondo. Schrödinger gli attribuisce facoltà e responsabilità, oltre che della vita del suo gatto virtuale, che vive solo se la particella così ha deciso.
Hugh Everett III va oltre: tutti i tragitti sono possibili, nulla è improbabile, per cui tutto è reale. Ognuno di loro creava il suo universo. Giordano Bruno, che è Altrove, pare annuire.
La particella Camus, ovunque sia andata, ha recato anche me e anch’io sto con lui a mutare il mondo (che forse sono io stesso e non lo so). Forse si muta noi stessi, perché interagiamo con i noi stessi del passato, creando gli io futuri. Jorge Borges, seduto di fianco a Bruno, col suo sguardo silente sembra assentire.
“Nel romanzo correggiamo questo mondo secondo i nostri desideri…” Ti interrompo, Albert. Crediamo di seguire i nostri desideri. Anche noi seguiamo le inclinazioni e i desideri dei nostri personaggi, anche quelli che non saranno mai fuggiti sulla carta (o sul monitor). Si tratta di creature virtuali, grazie alle quali esistono quelle reali (lo stesso accade per le omonime particelle).
“In pratica, scopriamo che il mondo non ha una realtà definibile se non alla scala di quelle grandezze medie che ci sono proprie. Il resto sfugge.”
Che medie non sono affatto, Albert. Così soltanto ci appaiono. Tutto è illusione, almeno dal punto di vista della grandezza e della posizione. Della quantità di massa e del nostro rapporto con esso. Tutto è come dici tu, incerto.
“… la scienza che ho in mente io è al servizio dell’uomo e della sua emancipazione, sia dai gioghi della natura che dai gioghi del potere. La scienza è libertà.” È percorrere un sentiero che conduce all’ombra di una verità che non sarà mai colta. In questo senso, la nostra scienza è libertà di seguire le regole che ci siamo imposti. Sei d’accordo, Jacques?
E la cultura, la scienza, l’arte conduce alla discussione civile. Ed è per questo che è incompatibile con la radicalizzazione politica, che prevede di coltivare solo quel fusto, che distrugge gli altri e che, per quanto bello sia, diventa ossessivo, come accade a certe piante, come il carciofo o la menta, che tende a divorare l’intero orto. Quando tu, Jacques, difendesti il libero pensiero dall’oppressione del comunismo sovietico, “Molti ex compagni della resistenza mi voltarono le spalle.” – tu non l’hai mai fatto?
“Jacques, ti sei è ringiovanito il viso mentre parli di questa pazzia: hai ritrovato lo spirito della resistenza?”, “Ma no, è solo una questione di dignità umana e di democrazia.”
Una frase terribile, Telmo: “La natura presa alla lettera è fascista.”; e, peggio ancora: “In generale, rompere le catene della nature è di sinistra.”
Questi due appellativi sono illusori. Ma intendi che salvare tutti significa agire contro natura.
“Siamo mortali, d’accordo, irrimediabilmente, ma almeno facciamo parte di una storia più grande, di un’impresa collettiva, dentro la quale il nostro contributo non andrà perduto.” Speròm, possiamo persino crederci. “Il singolo muore per sempre, ma ha in qualche modo scalfito la morte (e sfidato la natura), se ha contribuito a questa marcia dell’umanità…”
Illusioni anche queste?
“L’azione politica ha questo di unico: l’uomo può creare da sé i propri valori, senza soccorsi dall’esterno.”
Per quanto legga e rilegga questa frase, caro Telmo, non la capisco. L’hai scritta quest’anno o quello passato, ma essa risulta redatta a quattro mani da Jacques e Albert nel 1960. Questa finzione l’hai creata tu, in piena libertà. Ma te l’avrebbero mai concessa in ambito politico?
Riesco maggiormente a seguirti, quando descrivi la diade: progresso e natura, con tutti gli accidenti del primo e la conseguente rovina della seconda. E la Storia? Non è “un paravento dietro il quale dissimulare i nostri delitti.” Non dovrebbe essere, ma spesso lo è, inevitabilmente. “Contro la tirannia della storia, dobbiamo trovare una ragion d’essere anche nelle trame della natura, rivendicare una parte intatta del reale che abbia la sua bellezza, dacché si può rifiutare tutta la storia e tuttavia essere in sintonia con il mondo delle stelle e del mare.”
Quindi, progresso versus natura: Storia. This is the problem!
“Si disobbedisce alla storia restandovi dentro.”
Non se ne esce facilmente, nemmeno in un convento o in un’isola deserta puoi evadere dal mondo degli Altri.
Né si può fare a meno “della storia, con la minuscola, la storia come possibilità e non come necessità.”
Come il poter sopravvivere nonostante tutto gli obbrobri della Storia.
Come anche: “spostando la bilancia da una parte, anziché, facendo con onestà il nostro dovere?” È una salvezza di tipo schizofrenico: l’unica che abbiamo.
“Non arrendersi mai al male umano e naturale non è progresso: è dignità nella rivolta. Non ci salva dalla finitudine, non ci consegna alla storia, ma ci nobilita.”
I virus ci possono aiutare, non a vivere (assassini come spesso sono), ma a capire. Attaccano, tu dici, la bestia che è in noi e la fanno morire solo dopo che essa è stata causa di contagio. Furbi, perché puntano all’eternità genetica. Quella che si può rinvenire in questo mondo: finché esso, per i motivi già detti, non finirà. Però ci consentono di fare un passo in avanti nella consapevolezza. Grazie killers!
Una considerazione, penso, sgradita. Il testo è inquietante, ma nella sua irrequietezza è scorrevole. Il dialogo fra i due ragazzi, che tu riporti è sovraccarico di cortesie che non sono granché naturali: “È corretto, ma non capisco dove vuoi andare a parare?” “Ah, vedi? Allora la necessità della tua selezione non è così onnipotente” “Allora, io dico che il processo evolutivo è irreversibile.” Due, pur esimi, amici direbbero: “E allora?”. “La tua selezione non è poi così onnipotente!” “Allora ti dico che il processo evolutivo è irreversibile.” Minuzie, forse. Tieni presente che il dialogo avviene tra un politraumatizzato da poco ricoverato dopo un pauroso incidente e un suo amico, entrambi fratelli di resistenza.
Rettifico e forse peggioro il tiro: è un dialogo filosofico, non narrativo.
Propongo le tue considerazioni, senza pormi il problema se siano o no riportate dall’opera di Jacques.
“Il messaggio è generato a caso, ma acquisisce un significato in virtù delle sue funzioni. Il cieco caso viene in somma captato, conservato e riprodotto dal meccanismo dell’invarianza e trasformato in ordine, regola, necessità.”
“Si realizza, dunque, la situazione paradossale per cui l’evoluzione, per le sue buone ragioni adattive ci ha reso predisposti a spiegazioni finalistiche che, tuttavia, la scienza ha destituito di ogni fondamento.”
“Quel progetto non c’è, e in ogni caso non ne abbiamo bisogno per spiegare la natura.”
“L’invarianza è perennemente perturbata. Ecco la magnifica ambivalenza del DNA: essere invariante e mutevole allo stesso tempo. Il DNA tiene insieme Platone ed Eraclito.”
“Il caso puro, il solo caso, libertà assoluta ma cieca, è alla radice del prodigioso edificio dell’evoluzione sulla terra.”
“Nell’evoluzione, dunque, non esiste alcun slancio vitale interno. L’evoluzione non obbedisce a un programma già scritto, non è rivelazione di un progetto, come lo è invece lo sviluppo di un organismo. L’evoluzione ha radice proprio nell’imperfezione del meccanismo di conservazione molecolare, nell’imperfezione della replicazione, nella capacità di cibarsi del rumore, delle perturbazioni, per generare strutture ordinate.”
I viventi sono “isole di ordine, energivore, dispendiose, perché scambiano energia con l’esterno e ne aumentano l’entropia, e comunque temporanee. Prima o poi restituiscono all’universo tutto l’ordine che hanno sottratto. Sono tentativi di rivolta al secondo principio, disperati e a termine.”
“L’invecchiamento è un processo di lenta sconfitta dei meccanismi biologici…”
Le mie confutazioni:
Ignoro se il messaggio è generato a caso, né se quel suo significato è preteso dal caso stesso, cioè dalla Natura. Sempre che sia essa sia realmente determinato dal caso. Il termine segno deriva dalla radice europea di sak: dire. Le cose si dicono, emettendo segnali che tramite i segni in essi presenti assumono dei significati. Fra uomo e Natura? Fra Natura e uomo? Fra Natura e Natura? O fra uomo e uomo?
Il DNA non è invariante e mutevole allo stesso tempo: è quasi invariante, la mutevolezza è in quell’ormai mitico quasi e fa parte dell’invarianza. Anche Platone ed Eraclito fanno parte di quella quasi invarianza, e quel che hanno intuito è falsificabile, quindi, si presuppone, falsum in itinere: non è panta rei; perché il moto, lo scorrimento, è solo un’ipotesi, come l’anima.
Né il caso né la necessità è alla base di ciò che siamo: noi ignoriamo chi siamo, né quale sia la logica di tutto questo, né se via una logica: logos, discorso fra due esistenti. Non sappiamo nemmeno se vi sia un logos della Natura, dopo ti dico quello che mi è venuto in mente. Non conosciamo il primo sak, il Verbo.
Anche lo sviluppo di un organismo non è lo sviluppo di un progetto: accade, forse, accade, probabilmente accade.., non certamente. Qualcuno disse che di sicuro c’è solo la morte e poi aggiunge qualcos’altro, e poi qualcun altro aggiunge qualcos’altro ancora e via… alla fine si accumulano certezze. Per me di sicuro non c’è nulla, nemmeno che in me non vi sia la risposta per il Tutto. Qualcuno che nel frattempo dicono sia morto, tentava una Teoria del Tutto ed ora sono i suoi eredi a continuare il suo vagheggiare.
Tu parli di imperfezione del meccanismo di conservazione molecolare, di replicazione: forse il termine imperfetto ha un senso qui: non è ancora perfetto, finito, il discorso. Come quello che precede. Anch’esso è un vaneggiare (a volte basta cambiare qualche consonante).
Scrive Anthony Aguirre in Zen e multiversi: “l’osservatore crea entropia quando osserva un sistema, con l’intenzione, così facendo, di ridurre il disordine o la casualità del sistema osservato.” L’osservatore causa una parte del disordine del sistema in cui entra, diminuendo in sé il disordine procurando al cosmo una nuova in-formazione.
In tal senso apprezzo quello che scrivi su quella che si può definire una partita doppia dell’organismo vivente: è ordine che crea disordine, e tornerà tale.
C’è poi l’enigma del buco nero, per cui una stella, fra i miliardi di miliardi presenti nel cosmo, purché abbia una massa doppia a quella del sole, prima o poi imploderà fino a diventare un buco nero. E c’è chi ipotizza che come nel mare i buchi neri più attrattivi si nutriranno degli altri, finché non ne rimarrà uno, il Vincitore, che si riprodurrà, Altrove.
Ecco che si può ipotizzare un universo del tutto ordinato che sconfessa quello che è soltanto un principio non dimostrato, come tutti e tre quelli della termodinamica. Chi vivrà, forse vedrà. Difficile, però: sarà compreso in un ordine privo di occhi. Orbo, privo! Orbis: cerchio, che si chiude?
Chi vincerà: il Fiat Lux, oppure L’Orbum?
La molteplicità dei corpi è un effetto dell’interazione elettromagnetica. Senza di essi, tu, Albert, Jacques non sareste lì, e io non sarei qui a mirarvi.
Il dialogo che segue è sempre meno Albert (ridotto ora quasi a un primo lettore, se non a un correttore di bozze), sempre più Jacques, sempre più Telmo.
La Bozza del capitolo quinto mi fa reagire sempre di più. Questo forse è il comito primario della filosofia, dare energia al discorso, al logos, non trovare la verità, ma cercarla.
Lucrezio, perdonami che non t’ho mai letto, e ancor di più perché ti contraddico: “… ho dimostrato che nulla può crearsi dal nulla…” Io non credo sia possibile farlo. Almeno finché non scopriremo qualcosa, non tutto, in relazione all’inconoscibile e non ipotizzabile, ad esempio quello che accade/non accade all’interno dello spazio di Planck, dove non valgono le leggi che alcuni valenti nostri simili pare che abbiano scoperto. Il mio non è uno scetticismo assoluto, ma relativo. Io non so se so. Non so nemmeno se e perché E = mc2.
“Eccoci dunque sospesi tra due interminabili nulla”: la vita è un ponte fra due nulla, affermava Nietzsche. E poi? Chi gliel’ha detto? Dio? Qualche uomo? Nessuno conosce quello che c’è qui, lo spazio minimo di cui sopra, e qualcuno pretende di sapere cosa c’è che ci sospende (nel vuoto?). Il vuoto fisico è pieno di particelle virtuali che sguazzano come tane mezze anitre e noi osiamo parlare di Nulla? È giusto farlo, si chiama filosofia, amare, provare passione per il sapere. Ignorando se anch’essa sia una forma di follia.
“Il nulla del passato è la somma di tutte le vite del passato che non era la nostra”.
Nulla di quel che fu il tuo corpo nel ventre materno è uguale a quello che c’è ora (cosa significa questo avverbio di tempo?), sono diversi gli stati, le varianze, i gradi di libertà delle tue particelle. La vita è un Mescaa Francesca, dicono a Rione Sanità, anche la morte e la non vita. Ogni cosa decade e si trasforma. Il noi non esiste, e nemmeno l’io. Se esisteva, si tratta solo di un attuale ricordo che fra poco si trasformerà anch’esso.
“… nulla può impedirci di essere esistiti.” Nulla? Di essere esistiti? Se ne può parlare, sì, come si fa in un pubblico esercizio la domenica sera, dove si discetta sulle partite di calcio. Chiacchiere da bar. Le uniche che abbiamo e che dobbiamo tenerci ben strette.
“… l’eternità del DNA ci consola un po’ di più…”: tutto è relativo, diceva Albert, anche ogni concetto di eternità.
“C’è infatti un limite allo scindersi, al distruggere e al disgregarsi, perché altrimenti tutto finirebbe nel nulla e nulla potrebbe più rifarsi.” – altra frase assoluta, che si può condividere soltanto in modo relativo.
“Vagiti e ultimi respiri: la morte non è mai assoluta, non è onnipotente, non è sola. Bisogna pure che qualcosa resti immutabile affinché la realtà delle cose non degeneri ben presto nel nulla.” – decidiamo noi?
“… ci viene restituito un senso di appartenenza al mondo. O almeno un riverbero.”
Non so se hai notato che sono un provocatore (di tipo intellettuale, spero). Perché nella seconda edizione della tua opera, non la intitoli: Un quasi riverbero di un’ipotetica (in)finitudine? La tua filosofia potrebbe essere chiamata riverberale.
“Ha ragione Lucrezio, la fine degli atomi, a differenza della nostra, non è mai irrevocabile.” Quien sabe?, direbbe Tex Willer.
“Noi, però, non riusciamo a essere indifferenti all’universo. Esso lo è nei nostri confronti, ma noi non possiamo fare altrettanto, perché ne siamo parte?” – altra convinzione ancora da legittimare. Ātman, dicono che sia parte di Brahman. È l’anima di un uomo parte di Dio? Sono concetti religiosi o scientifici? O filosofici?
Se due particelle vengono a contatto, esse saranno sempre entangled, correlate. Anche quando saranno distanti più di quanto sia possibile percorrere in un secondo da parte di un fotone, oltre 300.000 km, al mutare dell’una, anche l’altra varierà. Si tratta di una teoria religiosa. Prima del presunto big bang, tutto era Uno. Tutto era correlato a se stesso.
“La morte, per noi, non esiste”: se ci siamo noi, non c’è. Chissà se Thích Nhâth Hanh e Lucrezio si sono mai conosciuti!?
Ancora: “non possiamo negare la nostra intrinseca dipendenza dal tempo.” – No! Dopo Tipler, l’entanglement, mi tocca ri-parlare per la milionesima volta di Julian Barbour!
Ricorderò sempre la sua allegoria del tempo, ridotto ormai ad un insieme di cartoline stese e appese a un ciapèt, ‘na molletta, una cannucciedda, come dicono a Elea: tante configurazioni di stati fisici che formavano una specie di unità. Julian era uno studioso valente, ma non accademico, e quindi si poteva permettere questo ed altro. Il suo libro, The end of time, m’appassionò tantissimo. Il tempo è un mistero che non conosce tempo!
“Le leggi della natura, non intenzionali, sanno essere ancora più implacabili di quelle degli dèi di una volta.” – beate chi le conosce.
“… la doppia libertà che sovverte l’ordine del mondo religioso: la libertà della natura da ogni provvidenza; e la libertà umana di scegliersi la propria strada in quella natura indifferente.” – la libertà o non esiste o è una, anzi: UNO. La libertà, che secondo vari aspiranti filosofi storicamente hanno detto finire dove comincia quella altrui, non può essere assoluta, se non è condivisa: dove? In entrambi? Come? Nell’unità?
“L’uomo, però, ha bisogno di superamento, di una trascendenza laica, e l’etica della conoscenza gli offre proprio questo: una rivolta contro i retaggi dell’evoluzione (che lo rendono istintivamente animista), una rivolta che costruisce il regno delle idee, una rivolta che rimane pur sempre all’interno delle potenzialità dell’evoluzione stessa.”
Mi riconosco in queste parole, pur reputandole fallaci. Sono illusioni inammissibili, a cui io tengo tantissimo!
“L’etica della conoscenza si basa su valori di umanesimo, perché si tratta di rispettare l’uomo come creatore della norma…”
Non esiste norma che valga l’uomo che l’ha creata. Essa serve all’uomo e finisce per comandare.
“Assoluto significa sciolto da ogni vincolo, incondizionato.” – cosa significa se non che è da folli credersi unici?
Eppure: “Ogni uomo, dunque, è sempre il primo uomo. In ciascun uomo è racchiusa, ogni volta, una singola particella dell’intera umanità.” – l’uomo è unico ed è un pur disgraziatissimo dio.
“La morte trasforma la vita in destino e consente un giudizio. Dà una cornice al tragitto terreno.” – quindi è un quadro, un’opera d’arte, un romanzo dostoevskiano. Un delitto, il vivere, che si trasforma in castigo, la morte. Senza ipotesi di resurrezione.
Credere nella finitudine “ci dona che la compassione per tutti gli altri che, come noi, sono mortali, e in cerca di un senso.” – morte comune, mezzo gaudio.
Se difendo la mia dignità, difendo la dignità che ho in comune con tutti gli altri. Io, io, io, e tutti gli altri.
“Ognuno è mortale a modo suo.” – una bella soddisfazione.
“Solo la morte, a pensarci bene, è noiosamente immortale.” – è un meccanismo automatico, che non cessa, perché si nutre della nostra energia.
“Del resto, ribaltando la prospettiva, la finitudine è necessaria, perché in sua assenza saremmo catapultati nel bel mezzo di un incubo antropologico.” – la morte è ecologica, e ricicla di Tutto e di più.
Tutti gli uomini geniali sono frenetici, perché consci “di avere una sola vita a disposizione, troppo breve.” – riuscirò mai a leggere tutti i libri del mondo? No! E a scriverne? No!
“E allora succede che, mentre lo scienziato ribelle cerca qualcosa, la natura, più ribelle di lui, gli mostra tutt’altro, lo svia su una strada inaspettata in fondo alla quale c’è la scoperta di qualcosa che lui nemmeno sapeva di non sapere.” – che assurdo credere, senza attestarlo scientificamente, che la natura sia dispettosa e irridente. La natura non ha denti, non ha bocca e non può ribellarsi: è lei che comanda.
Mentre riverso sul mio monitor l’eroico tuo pensiero che “in un angolo marginale del cosmo, è esistita una specie in grado di comprendere la propria finitudine e di sentirsi libera di sfidarla”, Albert senza manco salutare, se ne va.
La tua opera è di ri-costruire quel che non fu, utilizzando quel che fu senz’ombra di dubbio, l’opera immensa di due geni, che si sono ficcati nel mistero del cosmo e in quello del più piccolo (e frattale) umarèin: così viene chiamato per celia l’omarino che, ormai disincantato titolare di pensione di vecchiaia, con la mani dietro la schiena, osserva con occhio esperto i lavori di un cantiere edile che sta nelle vicinanza di casa: così passa il tempo, osservando e criticando.
Da umarèin a umarèin: et ringrasi ed tótt!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Telmo Pievani, Finitudine, Raffaello Cortina Editore, 2020