Le métier de la critique: Giovanni Camerana #2, la donna, la Madonna, l’Idolo

Nelle poesie degli anni ’70 di Giovanni Camerana[1] c’è una continua oscillazione (e a volte la compresenza) di due opposti modi di concepire la donna.

Giovanni Camerana
Giovanni Camerana

Sei la dea, sei la stella e sei l’azzurro,

sei la terra promessa e l’orizzonte

che si starebbe sempre a contemplar;

sei la dea, sei la stella e sei l’azzurro,

penso all’aurora se ti guardo in fronte,

penso, se guardo i tuoi grandi occhi, al mar.

      Sei la dea, sei l’azzurro e sei la stella,

sogno una selva e le tue nude forme,

fiori e baci, erba folta e voluttà;

sei la dea, sei l’azzurro e sei la stella,

ma il sogno è un sogno, ma la selva dorme,

la tonda luna beffando mi va.”

Ci sono versi in cui la figura femminile è caratterizzata da alcuni tratti ascrivibili a ben noti archetipi (chiome bionde, occhi azzurri, pallore) e associata a nomi di pittura e letteratura, al paesaggio nebbioso o crepuscolare, all’idea del convento come placido «rifugio», a scene di idillio borghese, al «sogno» e alla «visione» che sublimano il «desiderio» erotico. Altrove, la figura muliebre è assimilata a una divinità pagana, è associata al color nero e a paesaggi voluttuosi, a interni raffinati, a figurazioni funebri più o meno alluse.

Si tratta di fantasie ironicamente lontane dalla realtàMa il sogno è un sogno, ma la selva dorme,/ la tonda luna beffando mi va»): sicché il sogno erotico risulta inappagato, e inappagante si rivela la parola innamorata.

Risale alla metà degli anni ’80 la prima serie delle “Oropee”[2], poesie ad alto grado di sublimazione; contemporaneamente, Camerana scrive versi in cui la pulsione erotica si manifesta e si complica in forme di masochismo, di feticismo e di sublimazione estetizzante, com’è rilevabile in “Velo nero” (1884):

Sogno e medito e invidio il velo nero,

il vel che avvolge la tua faccia pallida,

che recinge la tua testa ineffabile;

sogno e medito e invidio il velo nero!

     Felice il vel, perché ti bacia e tocca,

perché freme del tuo fiato al tepore;

felice il vel, beato il tenebrore,

felice il velo che ti bacia e tocca!

     Felice l’ora che non verrà mai

di sentir fra le mie convulse mani

il vel, il viso ed i capelli strani!

Ora infinita che non verrà mai!

     Il velo, il viso e gli strani capelli,

i capelli d’abisso e di fuliggine

negri cotanto da parer cerulei!

Il velo, il viso e gli strani capelli!

     Ora infinita e grigia dei tramonti

d’autunno! Il velo soffuso di stille

di nebbia, e gli occhi vibranti faville,

tigre fatal nel grigio dei tramonti,

      io, più raggiante che un levar di sole,

ti coprirei di baci e di carezze,

ti morderei nelle più estreme ebbrezze,

io più raggiante che un levar di sole!

      Gli occhi, la testa bella, il velo nero,

i capelli d’abisso e di fuliggine,

tutte del corpo tuo le arcane tenebre!

Sogno e medito e invidio il velo nero.”

Santuario di Oropa
Santuario di Oropa

La poesia procede per iterazioni sistematiche, che definiscono e ribadiscono, mediante leggere ma estremamente significative aggiunzioni e variazioni lessicali, le presenze ossessive del velo e della capigliatura.

Pare che Camerana, attraverso l’espediente stilistico della ripetizione, intenda raggiungere una consapevolezza il più possibile definitiva del significato profondo degli oggetti assunti ad espressione del proprio mito personale[3].

Il desiderio suscitato dalla vista del velo, detto con verbi che indicano con progressiva precisione il contatto erotico, feticisticamente si fissa sul copricapo e sui capelli definiti «strani» in quanto essi, come il velo nero, evocano immagini angosciose: l’abisso, i tramonti d’autunno, la nebbia – tutte metafore che esprimono un latente istinto di morte.

Così Eros si trasforma in Thanatos, l’attrazione  per la donna diventa problematica, la femmina si fa oggetto pericoloso, ostile («gli occhi vibranti faville,/ tigre fatal…») in quanto allettamento al masochismo, da combattere e vincere con una vitalità erotica che quasi rasenta il sadismo («Ti coprirei di baci e di carezze,/ ti morderei nelle più estreme ebbrezze…»), ma che ulteriormente si presenta, negli ultimi versi, con la solita, insuperabile connotazione di morte, sebbene soltanto lessicalmente allusa nelle sue derivate di oscurità, di profondità, di arcano: «i capelli d’abisso e di fuliggine,/ tutte del corpo tuo le arcane tenebre!».

Al polo negativo sta dunque l’istinto di morte, evocato da oggetti quali il velo nero e la capigliatura «di fuliggine»; al polo opposto si colloca l’intenzione, ancora abbastanza ferma e convinta, di reagire alle tendenze autodistruttive mediante la sensualità vitalistica, che peraltro rischia di esasperare e di consolidare la pulsione di morte.

L’ossessione del “nero”, già rilevata a proposito della figura femminile, ricompare nelle “Oropee” scritte tra il 1891 e il 1898. Nero è il volto della Madonna di Oropa, «fosca Etiope dalle fulve chiome», che  dovrebbe essere «ideal porto» di salvezza, dal poeta disperatamente implorata, essendo ormai i sogni dissolti, caduti gli ideali, falliti o abbandonati i tentativi di lotta o di ribellione, e l’anima tormentata dalla colpa e dalla nevrosi: «Ed è il peccato mio che insurge, questa/ tenebra senza scampo e senza traccia,/ questo incùbo di spettri e di tempesta».

Il mondo esterno si manifesta (soprattutto in seguito a una tragedia occorsa nei tempi dell’avventura coloniale italiana[4]) in tutta la sua funerea fenomenologia, cui Camerana prova a contrapporre immagini di serenità personale e di speranza sociale, di divina possanza e di Chiesa orante:

Per il quadro “Spes nostra salve” (1896)

di Lorenzo Delleani

Noi siam gli umili, al suol curvati; e il canto

nostro, la buia pastoral preghiera,

spesso ai venti frammista e al truce schianto

delle folgori, allor che la bufera

      scrolla gli abissi; noi, dannati al pianto

e alla gleba fatal, noi, per la nera

valle, innalziamo al propugnacol santo

del tuo arcano poter, Madonna nera.

     Pietà, Vergine, adunque, or che procombe

tanta sui conculcati ombra di morte;

pietà per noi, pei figli, e per le tombe

      lontane; atterra i vïolenti, segna

la grande aurora della nova sorte

e nei secoli eterni eterna regna.”

Ma la negatività, né scompare, né si attenua in grazia della Fede. La tanto invocata Madonna nera non concede la grazia della vittoria sul Male. Rimane impassibile, alla stregua degli idoli pagani che, come afferma il biblico salmo 115, “os habent et non loquentur, oculos habent et non videbunt, aures habent et non audient”.

Donde lo spostarsi, e il fissarsi, del proprio discorso poetico sui caratteri preziosi, barbarici e funerari a cui la statua è associata. Dispare così quell’aura di convinta e ingenua invocazione, quel tono di umile preghiera che talvolta è presente nelle liriche oropee.

Domina ormai le figura ossessiva della donna-Idolo, e la confusione tra misticismo cattolico e sensualità decadente deviata sul sacro si risolverà a favore della più decisa mistione di arte e vita. Così nei sonetti raccolti sotto il titolo “La femme” (1895 – 1898); così in “Strofe all’Idolo” (1900).

La femme II

“Le parole scendean possenti e gravi

dall’alta sua serenità ieratica.

Poi seguìa: “La gran Sfìnge io son; l’estatica

Sfìnge non tocca dai tumulti pravi.

     E dal mio trono d’èbano, voi schiavi

ai piedi miei, plebea folla ed asmatica

disdegnando io contemplo. Io son la estatica

superba Iddia che in tuo pensier sognavi.

     E mi risognerai sempre. Io col terreo

pallor del corpo mio, con la nerezza

dei miei capelli di egizia, col ferreo

     sguardo, ti avvinghierò sempre. Destino

tuo il prosternarti a questa mia bellezza

implacata. Chi mai sfugge al Destino?”

 

La femme VI

“Or sia il tuo carme come un trionfale

squillar di trombe d’oro dagli aperti

cieli, dai sacri eterei deserti!

Sia la infinita gioia ultramortale!

       Or sui plinti del mio trono aurorale

piovan le strofe, come larghi serti;

gitta le strofe tue, nembo di serti,

a me eretta in sul mio trono ideale.

        A me altiera nel bieco evo, tra i grandi

lampi e gli squilli, a me sovrana, il canto

che il nembo e l’ombra varca e i dì nefandi,

        e giunge agli astri, e si sperde nel coro

delle falangi prosternate al Santo,

fra i cento squilli delle trombe d’oro”.

Poesie in cui è largamente documentabile la commistione tra donna fatalelo col terreo/ pallor del corpo mio, con la nerezza/ dei miei capelli d’egizia...»), Vergine cattolicaGuardami! anch’io conobbi il duol, ma salda/ la tempesta io sfidai…»: così nel sonetto III), idolo impassibile e incontaminatoMa io son la Sfinge alta, la Sfinge/ che ti guarda sovrana ed impassibile»).

Le tre figure, riferibili a un subdolo mito personale, perdono le loro caratteristiche distintive e il loro concreto aggancio con i dati del reale (le donne amate, la statua nera della Vergine) e si fondono in un’unica visione. La “femme” parla al poeta, gli rivela che lo tiene in suo potere, che non può fare a meno di lei, che l’ha sempre sognata e continuerà a rimanergli nel pensiero, che adorarla è un destino cui non può sottrarsi.

È, insomma, una presenza ossessiva, un fantasma che produce sgomento, a causa della sua potenza incontrollabile, fatale, imprescindibile. Si vorrebbe respingere l’Idolo perché rappresenta la capitolazione, lo sprofondarsi nel sogno, nella confusione tra donna, dea pagana e Vergine cattolica, nella non distinzione tra realtà e mostri dell’inconscio; ma la pulsione autodistruttiva è così radicata nella propria psiche che il poeta non può e non vuole prescinderne.

Giovanni Camerana #2
Giovanni Camerana #2

La realtà esterna è rifiutata sdegnosamente, avvertita come «plebea folla ed asmatica», «bieco evo», «tumulto pravo». L’Io sociale, ritenuto essenzialmente negativo, è obliterato e rimosso per mezzo e a favore della «visione» e del «sogno», a cui Camerana si affida ormai completamente e che intende esprimere in forma poetica.

Di qui la stretta connessione tra il fantasma femminile (realtà psichica) e la dizione dell’Idolo (realtà poetica); di qui l’insistenza sull’Idolo come figura di lotta, di vittoria e di trionfo, come teofania che offre il dono di versi ritenuti sublimi e adatti a superare la limitante, rifiutata contingenza: «Or sia il tuo carme come un trionfale/ squillar di trombe d’oro dagli aperti/ cieli, dai sacri eterei deserti!/ Sia la infinita gioia ultramortale!».

Combattimento e trionfo, dunque, sulla realtà esterna, da parte di una poiesi che assume forma e sostanza di sublime preghiera. Ma anche auspicio e speranza di trionfo all’interno dell’azione poetica stessa: quasi che l’Idolo, scaturigine di alti pensieri e di profonde emozioni, sia l’ossessione che deve restare a garanzia della creatività, sia l’arma adatta per combattere e vincere la sempre temuta impotenza poetica[5].

Strofe all’Idolo (1900)

     “Ove si abbarbica e propaga, l’edera,

la fosca e solitaria edera muor;

così, selvaggiamente, appiè dell’Idolo

freme in silenzio il solitario amor.

       Freme in silenzio e sogna; irremeabile

passa il gran vol degli anni, e il sogno sta;

l’Idolo regna, gli splendor dell’Idolo

niuna tempesta mai soffocherà. […]

      … dall’imo tutta la montagna squassano

i tuoni; e trema nel clangore il suol;

scroscia immane la pioggia, ergonsi e clamano

dai torrenti e dai boschi urla di duol;

ma nel tuo nimbo d’oro e di topazi,

      ma dalla gemmea nicchia secolar,

tu ascolti, o nera e scintillante vergine,

imperturbata, il pio litaniar;

      il pio litaniar dei supplichevoli

che dai monti e dal pian traggono a te;

a te, Figlia del tuo Figlio, che hai balsami

per il cor dei mendìci e il cor dei re; […]

      a te, idolo, il canto, il grave, l’intimo,

che nessuno udrà mai, nessuno udì;

vibrante come cento arpe, dolcissimo

quale mai da terrestre labbro uscì.”

«A te, Idolo, il canto, il grave, l’intimo,/ che nessuno udrà mai, nessuno udì;/ vibrante come cento arpe, dolcissimo/ quale mai da terrestre labbro uscì»: ecco ricomparire le ormai note connotazioni del fantasma femminile. Alla sempre più vitale ed esplicita esigenza di essere il cantore di oscure presenze interiori, si contrappone la comprovata incapacità di esprimere con un innovativo linguaggio poetico le proprie ossessioni.

Camerana continua ad adottare formule tradizionali che non possono, per loro intrinseca natura e per incapacità di chi le usa, rispondere all’esigenza di significare le ossessioni inconsce, e ricorre ai temi e agli stilemi di un decadentismo che il più delle volte resta esteriore, né totalmente assimilato, né rettamente inteso nella sua portata innovativa ed eversiva.

 

Written by Vincenzo Moretti

 

Note

[1] Giovanni Camerana nacque a Casale Monferrato il 14 febbraio 1845 in una famiglia che contava magistrati e generali. Trasferitosi il padre magistrato a Torino e poi a Milano, tra il 1863 e il 1865 il giovane Camerana entrò in contatto col gruppo degli scapigliati milanesi, divenendo amico di Emilio Praga e di Arrigo Boito. Nel 1865, in seguito a un nuovo trasferimento del padre, ritornò a Torino, dove nel 1868 completò gli studi di Legge iniziati all’università di Pavia. Entrato in magistratura, non considerando la sua carica compatibile col mestiere di poeta, sempre evitò di pubblicare un proprio libro di versi, ma collaborò dal 1869 al 1873 alla rivista ‘’L’Arte in Italia’’ con articoli di critica d’arte e continuò a scrivere poesie, rimaste inedite o comparse su giornali e periodici. Come magistrato, lavorò quasi sempre in Piemonte. Celibe, si suicidò il 2 luglio 1905 nella sua casa di Torino. I suoi scritti furono raccolti postumi: “Versi”, con prefazione di Leonardo Bistolfi, Torino 1907, illustrato da disegni del Camerana stesso; “Poesie”, a cura di Francesco Flora, Milano 1956; “Poesie”, a cura di Gilberto Finzi, Torino 1968. Il Museo civico di Torino custodisce la raccolta integrale dei suoi disegni.

[2] Si tratta di versi dedicati alla “Madonna nera”, statua custodita nella Basilica Antica del santuario di Oropa, sul Sacro Monte nei pressi di Biella: una scultura in legno di cirmolo, opera di un anonimo artista valdostano del XIII secolo. Il manto blu, l’abito e i capelli color oro fanno da cornice al volto dipinto di nero, il cui sorriso dolce e austero ha accolto i pellegrini nei secoli (URL [data di accesso: 05/11/2020]).

[3] Nella sua opera fondamentale (“Des métaphores obsédantes au mythe personnel. Introduction à la psychocritique”, Paris, Librairie José Corti, 1963) Charles Mauron (1899-1966) concepì un metodo strutturato per interpretare le opere letterarie tramite la psicoanalisi. Secondo lui, il processo creativo è simile al sognare da svegli: come tale, è la rappresentazione mimetica e catartica di un impulso o desiderio inconscio che è meglio espresso e rivelato da metafore ossessive, raggruppabili in “reti associative”, significative di una realtà interiore latente. La presenza di queste relazioni costituirà il “mito personale”, espressione della personalità inconscia dello scrittore e della sua evoluzione nei suoi testi. In altre parole, il mito personale è l’immagine che lo scrittore inconsciamente si costruisce nella sua opera, e che ci permette di cogliere la sua personalità. Per arrivare al mito personale di un autore è necessario cercare in un testo (o attraverso l’intera sua opera) come si ripetono e si modificano le reti associative, anche in relazione alle sue vicende biografiche.

[4] “Degne di particolare interesse le terzine, per un probabile riferimento alla guerra d’Africa e soprattutto alla recente (1° marzo 1896) battaglia di Adua («le tombe lontane») e per una sorta di insolito, vago profetismo etico-sociale («la grande aurora della nova sorte») – verso che difficilmente si può interpretare in senso religioso, sia conoscendo il pacifismo di Camerana, sia per tutto quanto precede, principalmente per quel polemico pregare («atterra i vïolenti»),di sapore (non sarà una forzatura?) anticrispino”. (“Nota” di Gilberto Finzi, in Giovanni Camerana, “Poesie”, cit., pag. 300).

[5]Si legga: «… il marchio più spaventoso che segni la fronte di un uomo è quello dei poeti, allorquando insieme all’abbondanza della facoltà creatrice non si ricevette una rispondente virtù di produzione. Il sogno che resta sempre sogno, la visione che si accende e si spegne in una notte invincibile, l’ideale che si consuma in una continua lotta corpo a corpo con lo spettro schifoso dell’inazione, ecco il calvario, ecco il lutto, ecco il martirio, ecco l’immensa ironia. Questa è veramente la strana parete che si sogna – la parete altissima, dritta, liscia, sorgente dal selciato di una piazza buia, e perdentesi nella bruma – la parete lacrimevole, contro la quale galoppano a briglia sciolta tutti i miei desideri e i miei più saldi propositi, – galoppano, salgono un poco e quindi, capovolti, stramazzano sopra il selciato e si sfracellano. […] Sovente mi abbandono a questa poco azzurra fantasticheria, essere sepolto vivo. Mi sveglio entro il feretro […] E mi scaglio all’insù. Ma il coperchio orizzontale mi stringe […] allora mi dibatto con crescente furore… […] Amico, il poeta impotente è il sepolto tra i vivi» (lettera a Giuseppe Giacosa, da Chiomonte, 30 agosto 1874).

 

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Le métier de la critique: Giovanni Camerana #1, paesaggi d’anima malata

Rubrica Le métier de la critique

 

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