Intervista di Alessia Mocci a Beatrice Benet: vi presentiamo il libro “Donne che ci raccontano”
“In montagna eravamo finalmente liberi senza l’occhio vigile delle nostre madri a controllarci, con la certezza che lì “comandava il nonno” e che questo ci consentiva di tirare tardi la sera, di bere innumerevoli tazze di cappuccino piene di savoiardi nel bar dell’albergo o altre cose strane come il selz che ci pizzicava in bocca e ci gonfiava lo stomaco.”

“Donne che ci raccontano” è stato pubblicato nell’aprile del 2020 dalla casa editrice Rupe Mutevole nella collana editoriale Trasfigurazioni.
L’autrice, Beatrice Benet, nata ad Udine e laureata in Logopedia, vive a Moricone (Roma) dove si dedica all’assistenza ai malati di Alzheimer come coordinatrice del centro diurno dell’Italian Hospital Group.
Ha iniziato la sua carriera letteraria nel 2007 con una raccolta di quattro racconti al femminile “Più lontano del mare e del cielo” per La SBC edizioni, nel 2009 ha partecipato ad una raccolta di racconti edita da Einaudi con l’opera “Giulia” e segue nello stesso anno con Rupe Mutevole “L’amante, colei che ama”. Nel 2011 pubblica tre sue poesie con Editore Croce nel volume “Poesie d’amore – poeti italiani del terzo millennio”, e nell’agosto del 2013 è la volta di “C’ero una volta… e altri racconti” con la casa editrice Edizioni DrawUp.
Ora la ritroviamo con un libro che racconta di sé, della propria infanzia, della propria vita, della difficoltà che ha incontrato, della rivoluzione che ha conosciuto, delle donne di ieri e delle donne che hanno voluto un futuro diverso e che hanno lottato per ottenerlo.
“Erano gli anni della contestazione, dell’autunno caldo, dei volantinaggi davanti alle fabbriche per cercare quell’unione fra studenti ed operai che avrebbe dovuto ribaltare il sistema. Gli studenti del liceo utilizzavano i minuti della ricreazione per informare noi del ginnasio della necessità di uscire dal nozionismo imperante, quello che faceva porre come domanda di interrogazione da quante stecche fosse formato il copricapo di Lucia nei Promessi Sposi mentre non veniva sprecata una parola per spiegare il significato storico di alcuni avvenimenti trattati dall’Autore, per non parlare poi della monaca di Monza la cui storia sarebbe stata significativa per discutere il ruolo della Chiesa all’interno della società di allora e di oggi.”
A.M.: Beatrice, io ti conosco come autrice da una decina di anni oramai, ma i nostri nuovi lettori potrebbero non aver mai letto un tuo libro… eppure son certa che tanti resterebbero folgorati da “L’amante, colei che ama” proprio come è accaduto a me: “Credo non ci sia un tempo giusto per cambiare la propria vita, credo invece che ci debba essere un tempo per prendere coscienza e ti dirò di più, sono fermamente convinta che sacrifici di questo tipo non portino a nulla, nessuno dirà mai grazie perché tutti sono stati comunque infelici.”
Beatrice Benet: È vero Alessia, ormai ci conosciamo da tanto tempo e mi hai sempre sostenuta in questa passione che ho di scrivere storie, quasi sempre di donne.
Ne “L’Amante, colei che ama”, che hai citato, avevo voluto guardare le cose dalla parte dell’altra, della rovina famiglie che spesso, come molte mie lettrici mi hanno scritto, è solo una donna innamorata dell’uomo sbagliato. Ho voluto mettere l’accento su due modi di vivere l’amore completamente diversi, lei disposta a molte rinunce, al silenzio, alla solitudine, lui fragile, insicuro, incapace di prendere decisioni importanti, propenso a non lasciare la rassicurante routine pur mantenendo un rapporto che lo fa sentire vivo. Alla fine sarà proprio lei che deciderà per entrambi.
Già nel mio primo romanzo di cui vorrei scrivere il seguito, “Più lontano del mare e del cielo”, racconto storie di donne di Paesi, età ed epoche diverse. Tutte combattenti come le donne sanno essere.
Solo nel racconto lungo di “C’ero una volta” il protagonista è un uomo che ha voluto scrivessi la sua storia affinché non si ripetesse.
A.M.: Questa tua nuova pubblicazione “Donne che ci raccontano” è un libro scritto e ragionato in un lungo arco di tempo. È stato complesso scriverlo?

Beatrice Benet: In effetti ho avuto un periodo piuttosto lungo di riflessione prima di pubblicare “Donne che ci raccontano”, forse perché all’interno c’è un lungo racconto autobiografico e ho scoperto che non mi è facile parlare di me. Sono stata confortata dal consenso che ha avuto fra gli altri protagonisti come mia sorella e i nostri cugini. Mi sento soddisfatta del risultato raggiunto perché siamo tutti veri con i nostri pregi, i difetti, le difficoltà affrontate e le gioie vissute. Rileggendo il tutto mi sono resa conto che sono stata fortunata perché questa famiglia comunque ha fatto tutto quello che poteva in quegli anni, in quel contesto e mi sento pacificata anche se non dimentico le mie insoddisfazioni, la mia sete di libertà, la ribellione che mi ha accompagnata sempre.
Negli altri due racconti parlo di donne mature. Sarà perché mi sono vicine per età? Probabilmente, ma anche perché sono veramente stanca degli stereotipi che vedono la donna diventare ogni anno che passa sempre più moglie, madre, nonna e sempre meno donna. Nell’immaginario collettivo una donna dopo una certa età non ha più necessità affettive che non siano quelle familiari, non ha più desiderio sessuale mentre l’uomo continua ad essere un gran figo mentre cerca di stare al passo con la compagna di 20 e più anni di meno. Questo vederci sempre come l’angelo del focolare mi disturba più oggi di quando, negli anni ‘70, combattevo le mie battaglie per la parità dei diritti.
L’ultimissimo racconto di questo libro è di mia nipote Marta, scritto l’anno scorso, di 13 anni e merita di essere ascoltata anche lei perché il suo è un grido per la pace, contro ogni guerra.
A.M.: Nel primo capitolo intitolato “La confessione” troviamo questo dialogo: “Per cercare di capire, dottore, da sola non ce la faccio, è una vita che mi metto in discussione e non succede niente… il periodo passa, io respiro e poi si ricomincia” – “Lei crede all’analisi? Mi spiego, lei è arrivata qui per disperazione, ma pensa che ne trarrà beneficio?”. Oltre a presentare ai nostri lettori i due interlocutori, sai rispondere a questa domanda: il tuo pensiero tende più verso Sigmund Freud oppure verso Carl Gustav Jung?
Beatrice Benet: Ne “La confessione” mi sono addentrata in un campo che mi ha sempre affascinata, quello della ricerca interiore, dell’analisi. A 14 anni avevo letto “L’interpretazione dei sogni” ed ero rimasta folgorata da quel poco che ero riuscita a comprendere, poi per passione, per gli studi che ho fatto, il discorso l’ho approfondito. Mi chiedi se mi sento più vicina al pensiero di Freud o a quello di Jung… dopo aver letto, giovanissima, “la rivoluzione sessuale” di W. Reich ho sentito che il suo pensiero era il mio, solo che lui era in grado di esprimerlo.
Reich era vicino alla gente, contestava gli stereotipi sociali, le convenzioni, parlava di unità fra corpo e mente, insomma dava la giusta importanza alla psicosomatica.
A.M.: “Mia madre ha sempre detto che avrebbe dovuto capire già da allora che non sarei stata facile, da quando all’improvviso, dopo un tuono poderoso, la luce se ne andò mentre la levatrice le diceva: “sburte, sburte, fuarce, si viod il čhav, a l’è un frut di sigûr…” alimentando le speranze di mia madre che, avendo già una figlia, anelava a fare questo maschio che si sarebbe chiamato Oscar.” Ed invece?
Beatrice Benet: Che cosa ha significato non essere il tanto atteso Oscar figlio maschio? Per anni, a sentire questo racconto e quello delle lacrime di delusione o forse di liberazione di mia madre, mi sono arrabbiata e, anche, sentita un po’ un’intrusa. Poi ci sono arrivata a comprendere che erano racconti degli anni ‘50 dove un figlio maschio era benedetto in quanto creava meno problemi, costava di meno, ereditava tutto e portava avanti il nome di famiglia. E mia madre avrà pure versato quelle lacrime ma poi io ero Sissi, la sua principessa, anche quando la contestavo per la sua remissività e quel suo rimanere ancorata ai ruoli assegnati da una società profondamente maschilista. E sono stata Sissi fino all’ultimo giorno.
A.M.: Da piccola eri un’accanita lettrice tanto che in giovanissima età, se non ricordo male intorno ai 14 anni, eri entrata in contatto con la letteratura russa, che ha la fama di essere davvero tosta (e posso confermarlo). “Ricordo ancora l’odore della carta mista a polvere quando sfogliavo libri che nessuno aveva più aperto da anni e la gioia provata nel sedermi a terra a leggere tutti quei titoli: da una parte i classici della letteratura russa, da Tolstoj a Checov passando per Dostoevskij, […]” In età adulta hai ripreso in mano questi autori che ti hanno accompagnato nella crescita?

Beatrice Benet: Da ragazza ero compulsiva nel leggere, soprattutto nella soffitta/biblioteca di zia Nives di cui parlo nel libro dove non c’erano censori e io potevo leggere anche quello che allora veniva ritenuto poco opportuno come “L’amante di lady Chatterley” di Lawrence o “Scandalo al sole” di Wilson. Raramente ho riletto libri letti anche molti anni prima forse perché tutt’ora ho la frenesia di leggere autori nuovi e la consapevolezza che c’è sempre troppo poco tempo per farlo. Uno dei pochi libri che ho riletto fino a consumarlo è stato “On the road”, ma questa è un’altra storia.
A.M.: “Poteva essere il ‘64 quando apparve la minigonna e tutti gridarono allo scandalo perché era veramente mini; rigorosamente in bianco e nero non riusciva a coprire i ganci dei reggicalze o degli elastici delle autoreggenti, per chi se le poteva permettere.” In “Ribellione” racconti di quando a Londra apparve per la prima volta la minigonna, da allora c’è stata una vera e propria doverosa rivoluzione nel look delle donne. Però, pensi che siamo andati oltre? Intendo: oggi siamo ossessionati dal culto dell’immagine?
Beatrice Benet: Intorno ai miei 14/15 anni il massimo della trasgressione, almeno in provincia dove vivevo, era la minigonna e l’apparire era cercare di vestirsi alla moda con pantaloni a zampa d’elefante, improponibili magliette a costine colorate, sbracciate ma con collo alto e qualche anno dopo nel periodo di Woodstock gonne lunghe ricavate dai jeans, fermagli di cuoio per i capelli, bluse indiane… ma ricordo molto altro. Io non guardavo la televisione, se non qualche notiziario, il mio mondo era fuori dove c’erano persone come me con cui condividere la musica, le letture, i viaggi, il cinema, la politica, i sogni. Questa necessità di conformarsi a dei modelli proposti dalla televisione non c’era, o per lo meno io non l’ho avvertita. Con il passare degli anni si è data un’importanza sempre maggiore all’apparire e non all’essere. La cultura non viene presa in considerazione, se non da una minoranza, quello che importa sono i 10 minuti di notorietà in televisione, perdere tempo a fare nulla dentro una casa dove la convivenza fa emergere spesso il peggio delle persone. I social, per me, hanno perso il fascino iniziale di poter comunicare con il mondo ritrovando persone che non si sentono da tempo. Ormai sono un mezzo fuori controllo dove si può insultare chiunque o rovinare chiunque con esiti a volte catastrofici. Si scarica in rete la propria frustrazione aggredendo qualcuno con una leggerezza spaventosa, dimostrando che, ancora una volta, non siamo stati capaci di fare buon uso di un mezzo di comunicazione straordinario.
A.M.: Causa pandemia le presentazioni letterarie non sono praticabili ma ho notato che diversi autori hanno ben pensato di utilizzare i social network ed il video come alternativa.
Beatrice Benet: La pandemia ci ha segnato sotto molti aspetti: la paura, la mancanza di socialità, le difficoltà economiche, l’impossibilità di vedere i propri cari, di lavorare senza rischiare la salute e anche la vita. Ci ha portato via piccole grandi gioie come quella di presentare al proprio pubblico l’ultima fatica. Ma sfrutterò i potenti mezzi di comunicazione che abbiamo per presentare il mio libro al più presto online raccontando al mio pubblico e a tutti quelli che lo vedranno come mai finisco sempre per parlare di donne e delle loro storie.
A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Beatrice Benet: Ti saluto con le parole di un’altra grande donna:
“Signorina, lei vuole ammettere le donne alla magistratura! Ma sa che in certi giorni del mese le donne non ragionano?”
“No, ma so che moltissimi uomini, come lei, non ragionano tutti i giorni del mese!”
Teresa Mattei, partigiana/madre costituente
A.M.: Ah! cara Beatrice anche io ho perso l’entusiasmo iniziale per i social network, certamente ci permettono di stare in contatto, di affrontare la nostra amicizia a distanza, ma dal 2007 un social come Facebook è notevolmente cambiato. Anni fa gli account erano di persone interessate a socializzare, scambiarsi pareri, informazioni, riflessioni sulla vita e sull’arte. Oggi, con la grande affluenza è diventato ciò da cui ci si allontana, così come tu descrivi. Ti ringrazio per la bellissima citazione e ti saluto con le parole di Ida von Miaskowski, un’amica di Friedrich Nietzsche e moglie dell’economista August von Miaskowski che insegnava assieme al famoso filosofo all’Università di Basilea: “Durante una seduta di facoltà, mio marito e Nietzsche votarono a favore dell’amissione delle donne all’insegnamento universitario – il 10 luglio 1874 – ma vennero messi in minoranza.”
Written by Alessia Mocci
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