Meditazioni Metafisiche #21: il simbolo è necessario ed essenziale

Dopo la letteratura greca e la latina, le più antiche d’Europa sono quella scozzese e quella gallese. Si tratta di due letterature derivate dalla celtica, antichissima con svariati punti di contatto con quella vedica e quella omerica per via della comune origine indoeuropea.

Beowulf - British library scan
Beowulf – British library scan

Oggi si parla di letteratura celtica in riferimento anche a quella dell’Irlanda. I Celti abitavano un largo spazio in Europa fino a che, stretti dai Germani a nord e dai Romani a Sud, non cominciarono a ridimensionarsi. I Germani si spingeranno anche nell’attuale Gran Bretagna e a poco a poco soppianteranno politicamente i Celti autoctoni (l’inglese antico sarà la lingua unita di questi Germani, la cui prima testimonianza letteraria la abbiamo nel VII secolo con il Beowulf).

Ma ciò che ci è rimasto della letteratura celtica è vastissimo e assai importante, anche se non sempre molto conosciuto. Tutti però sanno di Re Artù e Mago Merlino, topos della letteratura gallese. La letteratura scozzese tramanda prima di tutto il Lebor Bretnach, anche se alcuni lo fanno risalire a un poeta irlandese.

Della letteratura irlandese abbiamo il Tain Bo Cuailnge, il Ciclo della Dea Dana, il Ciclo dell’Ulster, quello dell’eroe Finn, e così via. Graves è stato un autore contemporaneo il quale ha indagato a fondo la letteratura celtica e ha ipotizzato, similmente alle tesi del matriarcato (Bachofen) e della Dea Madre (Gimbutas), che dalla figura di una divinità femminile primordiale si sia evoluta tutta la mitologia europea successiva nonché il concetto variegato di verità.

Egli, studiando l’alfabeto irlandese, ha ipotizzato alquanto liberamente, nella successione delle lettere, l’esistenza di una sorta di indovinello che celerebbe il nome ebraico di Dio Geova[1].

Le opere corali dell’antichità e del Medioevo non erano frutto di solito di un solo autore, bensì vengono dette “opere tradizionali”, cioè si formano con il passare del tempo per l’apporto continuo dei vari cantori. Quindi abbiamo i bardi celtici, ma anche i trovatori provenzali, i trovieri francesi, i Minnesinger della Germania, i trovatori cortesi penetrati in Italia, poi dal popolino italico nacquero liberamente le Laudi, mentre da quello spagnolo le Cantigas de Sancta Maria.

In Grecia ancor prima vi erano aedi e rapsodi. Opere come l’Iliade e l’Odissea hanno anche linguisticamente indubbie stratificazioni, per esempio i tardi atticismi forse dovuti alla redazione pisitratea del VI secolo a. C. (per esempio l’attico aēr al posto dello ionico ēēr: “la lingua omerica doveva dunque in origine essere ancora più nettamente definita rispetto a quella attica[2]).

Nei poeti lirici greci molto probabilmente non compare nessun io individuale, in quanto creatori di una poesia simposiale che rispecchiava quei valori collettivi e proprio nei simposi si modificava nel tempo. Pensiamo a Tirteo, il cui greco forse era all’inizio dorico per poi essere cambiato in ionico, fatta eccezione per quei casi in cui la metrica non permetteva la sostituzione della parola originale dorica in ionico (come un futuro alla persona prima plurale aloiēseumen, che però West corregge in aloiēseomen).

Qui si pone non solo il problema della intertestualità (quando un testo si richiama ad un altro testo) ma anche del valore di un’opera letteraria. In un’opera scritta da una sola persona è particolarmente rilevante la intentio auctoris (quello che un autore ha voluto realmente dire, anche se non è mai determinabile al cento per cento), mentre in un’opera tradizionale è particolarmente rilevante la intentio operis (quello che l’opera stessa vuole dire, anche se non totalmente).

Ogni testo letterario artistico è “opera aperta” (Eco), cioè polisemica, perché la funzione principale è centrata sul messaggio in quanto tale: tale autoreferenzialità permette quella “magia” per la quale il classico non smette mai di dire quello che ha da dire. Ma soprattutto un’opera tradizionale, carica dell’apporto di molte voci, si apre a livelli ermeneutici vertiginosi.  Ancora oggi i poemi omerici sono oggetto di dibattito e di nuove letture: la “questione omerica” non è per nulla conclusa!

Ma possiamo anche dire che ogni testo, anche non artistico, come una legge, si apre a più letture, quindi oltre alla interpretazione del giurista teorico (dottrina) e del giurista pratico (il giudice nella giurisprudenza, cioè l’insieme delle sentenze), a volte è necessaria la interpretazione autentica (fatta dall’organo che ha emanato quella norma giuridica oggetto di discussione. Questo perché ogni parola ha almeno un significato base (generico) e un significato ulteriore (geografico, tecnico, oppure riconducibile a differenza di registro).

Martin Heidegger
Martin Heidegger

La parola “operazione” ha un significato base riconducibile a qualcosa che si fa, ma ha svariati significati ulteriori, dall’opera del chirurgo alla operazione matematica. La scelta tra i vari significati della singola parola e quelli derivanti dal livello sintagmatico (frasi) spetta al lettore. La semiotica del codice studia la parola in sé: il collegamento tra significante (suono) e significato (contenuto). Invece la semiotica del testo (Greimas) studia come le parole che formano un testo possano comunicare il senso. La prima si occupa della catena semiotica binaria, la seconda del quadrato semiotico, cioè l’evoluzione logica della prima. Per Genette il significante di un racconto è il testo in quanto tale, il significato è la storia raccontata, mentre l’atto narrativo è la storia reale o fittizia che sta alla base del racconto (narrazione).

Pertanto “ogni interpretazione, che è promotrice di nuova comprensione, deve avere già compreso l’interpretando […] Il circolo della comprensione non è un cerchio nel quale si muova ogni forma di conoscere, ma l’espressione della pre-struttura esistenziale” dell’uomo (che Heidegger chiamava Esserci)[3].

Gadamer parlava di “fusione degli orizzonti” (Horizontverschmeltzung) tra l’opera e il soggetto. È quanto viene chiamato da altri intentio lectoris. Non esiste alcun testo di qualsivoglia natura prima che sia stato letto dal singolo o dalla comunità. Per Fish la letterarietà di un testo esiste soltanto entro il contesto interpretativo. Per Dickie un’opera d’arte è un artefatto creato per essere presentato a un pubblico.

Il lettore empirico è colui che legge materialmente un testo, invece il lettore modello è colui al quale si rivolge l’autore che scrive in quella maniera per farsi capire in quella maniera. Questo lettore modello può essere semantico (quando legge che “il gatto è sul tappeto” capisce solo quello) e critico (cerca le ragioni strutturali per cui vi è l’interpretazione semantica, per esempio cerca di capire quale rima tra due parole ne esalta la associazione voluta dall’autore). Ma un testo nasconde molti livelli di lettura anche non voluti dall’autore, è ciò che si chiama intentio operis, la quale può sussistere solamente se sembra plausibile e viene riconfermata o non viene messa in discussione.

Esiste anche un autore reale (quello che materialmente scrivere un’opera), un narratore (la finzione letteraria che presenta al lettore la storia, quel personaggio bonario dei Promessi Sposi che accompagna il lettore è molto diverso dal Manzoni storico) e un autore implicito (quello che il lettore immagina dell’autore reale leggendo l’opera ma che l’autore reale non ha voluto rivelare). A questo proposito si distingue tra interpretazione (ciò che traspare dal testo, per intenzione dell’autore o dell’opera o del lettore) e uso del testo (ciò che il testo non vuole dire, per esempio quando Maria Bonaparte traeva inferenze sulla vita di Poe partendo dal testo)[4].

Nel testo letterario artistico l’autore reale crea addirittura nuovi significati, cosa che aumenta il ventaglio delle interpretazioni possibili. È questa la caratteristica fondamentale della lingua letteraria artistica. “Al centro della creazione linguistica sta il linguaggio dell’artista, che attua il maggior numero di virtualità della lingua al punto che dal legame sintagmatico, transfrastico del testo si produce una semantica seconda di grado superiore, quindi una superfunzione segnica[5].

L’autoreferenzialità del linguaggio artistico permette la connotazione, cioè il senso ulteriore rispetto alla denotazione della lingua quotidiana. Se Montale con una allitterazione collega due parole, crea un iper-significato concentrando il suo intento sul messaggio fine a sé stesso. Dire “cigola la carrucola” crea un impasto sonoro tra le due parole: il collegamento semantico tra le due che ne risulta non serve a informare il lettore circa la carrucola ma è autoreferenziale al messaggio stesso, è il Bello in sé di ogni creazione artistica. Il Bello è la pura fruizione del messaggio per scopo di diletto estetico.

Bisogna fare una precisazione. Il genere letterario della commedia è nato in Grecia, similmente al teatro latino, da spiriti popolani e per scopo di piacere: Aristotele (Poetica III) diceva che il nome “commedia” deriva dal dorico comai, “villaggi”, cioè dal vagabondare per villaggi, scacciati dalla città, cosa che si addice solo a popolani malvisti dalla classe dominante. Ma ancora agli esordi la commedia non era arte, restando unicamente faceta, ludica, solamente volgare nel senso peggiore del termine.

Il diletto estetico o esperienza estetica non coincide con il semplice piacere o dispiacere che l’opera può suscitare. Una poesia può piacere per via delle rime o può non piacere per via delle metafore belliche, come per alcuni accade con la produzione di Apollinaire. Un quadro può piacere per i colori sgargianti o non piacere per i toni cupi. Il piacere e il dispiacere derivano dalle risorse letterarie come le figure retoriche o dai materiali come la tela, e così via. Ma il diletto estetico viene sì preparato dalle risorse e dal materiale producendosi però per una sorta di superamento di questi elementi. L’allitterazione di Montale è un elemento autoreferenziale che prepara sì il diletto estetico: ma per ottenerlo occorre una intuizione che vada al di là della mera sensazione.

L’estetica indiana è molto chiara in merito. Piacere e dispiacere non coincidono con il “succo” dell’opera d’arte, in sanscrito rasa. Viśvanātha diceva che anche alcuni dei più appassionati studiosi di poesia potrebbero non avere una corretta percezione del rasa. L’esperienza estetica dipende in ultima analisi dalla sensibilità d’animo di chi fruisce l’opera. Non ogni frase è poesia. È poetica quella frase che abbia determinate caratteristiche tecniche (come quelle emozioni determinate dalle figure retoriche con scopo autoreferenziale), cui si aggiunge la gustazione di questo succo, rasāsvādana, attraverso l’empatia, da parte di colui che possiede la sensibilità adeguata[6].

Nella riflessione indiana compare anche il concetto di dhvani. La poesia ha un lato espresso (vācya), costituito dalle parole, dal testo, dalle metafore e dalle altre figure retoriche, e ha anche un lato non espresso, allusivo (pratīyamāna). Per alcuni teorici questo non espresso coinciderebbe con il dhvani, da considerare quale prolungamento del rasa. Il rasa è tradizionalmente inteso come l’essenza della poesia, che è per natura non espressa, solo suggeribile. Il coglimento (pratīti) del rasa non è che la manifestazione (abhivyakti) di qualche cosa che esisteva già, cioè il dhvani[7].

Viktor Borisovič Šklovskij
Viktor Borisovič Šklovskij

Figure retoriche vengono usate anche nella recitazione della retorica antica, l’arte della persuasione, nata in Sicilia nel V secolo a. C. per vincere nei tribunali. Ma “poiché l’intera attività della retorica riguarda la persuasione si deve prestare attenzione alla recitazione non perché sia giusto, ma perché è necessario […] la recitazione possiede grande efficacia a causa della persuasione dell’uditorio” (Aristotele, Retorica III, 1). La persuasione è una funzione linguistica diversa da quella concentrata sul messaggio in quanto tale tipica dell’arte letteraria.

Šklovskij osservava che lo scopo dell’arte è trasmettere l’impressione dell’oggetto come visione e non come riconoscimento, cioè l’oggetto viene estraniato dai significati consueti e visto per la prima volta nel nuovo significato voluto dallo scrittore.[8]

L’arte non è da meno della filosofia logica nella storia della civiltà. Anche se il Bello è fruito in sé, esso a posteriori crea forme simboliche che influenzano il singolo e quindi la collettività. Il pensiero in ogni sua forma è rivelante. L’idea dell’amore romantico del teatro e della poesia ha foggiato generazioni di giovani. “Il simbolo non è un rivestimento meramente accidentale del pensiero, ma il suo organo necessario ed essenziale. Esso non serve solamente allo scopo di comunicare un contenuto concettuale già pronto, ma è lo strumento in virtù del quale si costituisce questo stesso contenuto e in virtù del quale esso acquista la sua compiuta determinazione”.[9] Zhok osservava che “il segno attivo senza comportamento immaginativo (comprensione mimetica) è vuoto, e che il comportamento immaginativo senza segno attivo è cieco”. [10]

L’esclamazione segna un limite, ed è come l’ambizione suprema della poesia. Costituisce sia un punto di partenza sia un esito”. Essa necessita dello sviluppo sintattico che la prepara o l’amplifica per farla esprimere adeguatamente[11].  Esclamazioni come “Oh”, “Aiuto!”, “Dio mio!” sono presenti nelle letterature poetiche di tutto il mondo. Addirittura la poesia lirica viene vista come lo sviluppo di una esclamazione attraverso il corpo del testo successivo. Questo è particolarmente evidente nei Salmi, il massimo esempio della poesia biblica e ottimo esempio di grande poesia a livello mondiale. Molti dei verbi ebraici tipici dei Salmi sono alla forma piel, che esprime una azione discorsiva ripetuta, mantenuta, prolungata. La poesia biblica è meravigliosamente capace di prolungare l’esclamazione iniziale approfondendola senza dissiparla.

A questo punto bisogna citare la riflessione di Merleau-Ponty, per il quale la poesia è una modulazione dell’esistenza: mentre il grido fatto con il corpo lo impiega così come la natura lo ha fatto, il dolore o la supplica espressa nella poesia si avvale del linguaggio e anche di un linguaggio particolare, quindi non si dissipa nell’istante stesso in cui si esprime, ma trova il modo di prolungarsi, anzi di eternarsi[12].

Abbiamo da una parte lo scrittore che cerca di eternarsi nell’arte – topos vetusto che parte dalla Grecia fino a Foscolo – e il lettore che cerca di capire ciò che lo scrittore vuol dire. Anche il critico è un lettore, come abbiamo visto. Abbiamo quindi sia la pratica della scrittura (quando si scrivono opere d’arte) sia la teoria della letteratura. La pratica della scrittura poggia su premesse teoriche diverse da quelle della teoria della letteratura. Platone e Aristotele facevano teoria della letteratura quando classificavano i generi letterari, cioè pensavano all’arte in senso universale, invece lo scrittore e il teorico della pratica della scrittura la pensano in senso particolare. Mentre la teoria della letteratura ha un intento analitico o topico (scompone il testo per ricercarne i meccanismi base onde classificarlo), la filosofia della letteratura è speculativa e astratta[13]. La filosofia contempla anche l’estetica e l’estetica della letteratura ricerca nella scrittura creativa il Bello in quanto tale[14].

Esiste una letteratura non artistica (epigrafi politiche, religiose, commemorative, storia, diritto, filosofia, scienza) e una letteratura artistica (poesia, prosa, teatro). Auerbach riconosceva due soli stili fondamentali nella letteratura occidentale: quello omerico e quello biblico[15].

Frye sosteneva che il mito sta alla base dell’intera civiltà ed ha un aspetto rituale, uno epifanico e uno enciclopedico: dal primo sorge il teatro, dal secondo la poesia lirica, dal terzo quella epica[16]. Santillana e Dechend postulavano un “idioma del mito”, cioè un linguaggio e un insieme di tipi e immagini ben delineati: questo “idioma del mito” fu agli inizi e continuò ad essere usato per millenni e in parte c’è ancora oggi (nei giochi dei bambini, nelle figure degli scacchi, dei tarocchi). Immagini come la croce sono antichissime, storie come l’amore tra due giovani sono inveterate. Ora, da questo “idioma del mito” ci fu il passaggio naturale alla poesia, la quale è sempre la prima forma della parola nelle varie civiltà[17].

René Girard
René Girard

Girard presentava una sorta di ipotesi di lavoro che ha riscosso molta fortuna. All’inizio della civiltà l’aggressività delle persone era libera e quindi era destrutturante contro la stessa organizzazione. La civiltà ha pertanto potuto sorgere quando si è incanalata questa aggressività in sostituti rituali, come avveniva nei rituali religiosi dei sacrifici umani e poi animali. A questo punto l’aggressività collettiva poteva sfogarsi senza effetti deleteri per l’ordine sociale. Ora, per Girard c’è una “crisi sacrificale” quando il valore simbolico della aggressività rituale religiosa viene meno, quindi l’aggressività comincia a perpetrarsi di nuovo liberamente nella società. La tragedia greca deve essere nata entro una crisi sacrificale, nella quale l’aggressività drammatizzata nella tragedia circola liberamente. “L’ispirazione tragica […] dissolve i valori mitici e rituali nella violenza reciproca[18].

Del resto, da più parti si postula che l’inizio della letteratura artistica e di ogni altra forma di arte sia stato in gran parte teologico. “C’è un impegno esplicito con la trascendenza in un Eschilo, in un Dante, in un Bach o in un Dostoevskij. È all’opera con una forza indeterminata in un ritratto di Rembrandt o nella notte della morte di Bergotte nella Recherche di Proust. Il colpo d’ala dell’ignoto è sempre stato al cuore” della creazione artistica[19]. Probabilmente ogni grande opera dell’uomo ha origine dal divino religioso ma anche dalla trascendenza in genere, detta numinoso, ignoto, mistero, senso del sacro, e così via. Non sorprende quindi che per Platone la metafisica abbia un buon elemento mistico per via della implosione generata nell’anima del Filosofo dalla visione delle Forme. Non dimentichiamo che la teologia nasce con Platone (nel X libro delle Leggi). Per Platone il divino è il mediatore tra la natura e il mondo delle Idee[20].

Il fatto storico esiste solo nell’hic et nunc, dopo di che, da un secondo in poi, esiste solo l’evento storico, cioè la sua interpretazione. Noi conosciamo la scrittura e la letteratura e tutti gli usi e i costumi di un popolo sia del passato sia del presente in base a documenti scritti e a dati materiali. Il testo in sé e il dato in sé non dicono nulla: da essi possiamo ipotizzare qualcosa solo mediante la loro coordinazione, la quale in quanto tale è una interpretazione, cioè una congettura.

Il passato è perso per sempre e il presente deve essere capito.

Canfora e Vidal Naquet mettevano in luce molte ideologie che si sono avute sul mondo classico[21]. L’interpretazione del passato spesso è più arbitraria di quella del presente, ma non sempre: pensiamo solo alla grande aberrazione che tuttora si ha dicendo la parola “Oriente”, che per molti in sé non esisterebbe, in quanto non c’è nulla che possa unire popoli talmente diversi[22].

Un altro problema è costituito dalla extratestualità, cioè da tutti quegli elementi non prettamente linguistici, che concorrono a gettare una luce particolare sul testo. Pensiamo a particolari significati di parole che esse assumono in certi periodi storici (dare del “borghese” era tempo fa una offesa perché legato alla lotta comunista), a seconda di certe prassi (un “casino” una volta non era sinonimo di confusione ma di bordello), a seconda dei cosiddetti realia, cioè elementi materiali che possono dare indizi circa una migliore interpretazione.

Il frammento 44 Page di Saffo presenta una parola problematica: katautmena, che non si sa bene cosa significhi. Alcuni leggono kat autmena, “al soffio” (Saffo scriveva in eolico, dialetto greco nel quale quando katà sta davanti a vocale perde la a ma non mette il segno diacritico). Altri risolvono la questione con un dato materiale. La parola katautmena sarebbe il participio perfetto passivo del verbo greco non attestato *katauteō, che indicherebbe la gloria come “soffio dei vestiti”, in quanto quelli assai pregiati di porpora, dato che puzzavano, venivano profumati.

Il frammento 123 DK di Eraclito recita: phusis kruptesthai filei, che tradotto alla lettera sarebbe “la natura ama nascondersi”. Cosa è questa natura? Aristotele riferiva vari significati del termine greco (Metafisica V, 4), ma Eraclito li aveva già? Il verbo greco phuō significa “nascere” come “venire all’essere” (in sanscrito la radice indoeuropea ha dato il verbo essere), quindi tale phusis sarebbe il “nascimento” di tutte le cose (secondo la riflessione orfica il sostantivo phusis ha la u breve al contrario del verbo per indicare lo sgorgare della vita). È vero che il greco antico si allaccia molto spesso alla etimologia di una parola per veicolare il suo significato, ma non sempre. Quindi per altri phusis indicherebbe l’essere, inteso alla maniera parmenidea: questo essere “ama”, philei, cioè etimologicamente “a esso appartiene” il nascondersi, vale a dire che la caratteristica propria dell’essere sarebbe il celarsi, e proprio al medio, l’azione dell’essere rivolta a sé stesso perché oltre l’essere non c’è nulla. Ma altri obiettano che l’essere che si nasconde avrebbe molto a che fare con il non essere. Allora si pensa che tale phusis possa essere come “tutte le cose” (che sono esistenti) del frammento di Eraclito 64 DK (ta de panta oiakizei keraunos, “il fulmine governa tutte le cose”). Ma se le cose esistono perché sono nascoste? Per sanare anche questa contraddizione si dice che il verbo greco “nascondersi”, kruptesthai, voglia allacciarsi al significato della krupteia, un rito iniziatico per il quale il giovane spartano doveva vivere nascosto nella foresta e lì sopravvivere con le proprie forze prima di essere riammesso nella comunità. Allora questa phusis potrebbe alludere alla nuova vita dell’iniziato (che da giovane è diventato adulto) dopo la prova della krupteia? Vediamo come da questo dato materiale potrebbe sbocciare un nuovo significato con dono di ulteriore luce per tutto il frammento.

Nel IV libro dell’Eneide di Virgilio Didone è innamorata di Enea e chiede alla sorella Anna come fare per non farlo salpare da Cartagine. Al verso 51 Anna dice: indulge hospitio causasque innecte morandi, “indulgi nell’ospitalità e intreccia pretesti di indugio”. Quali pretesti? … quassataeque rates, dum non tractabile caelum, “… finché son malconce le navi, non affrontabile il cielo” (v. 53). Quindi Anna spera che Didone, trattenendo Enea e indugiando nell’ospitalità presso Cartagine, con la scusa che arriva l’inverno e che bisogna ricostruire la flotta, questi non parta: egli stando ancora vicino a Didone potrà finalmente amarla. Tuttavia, il consiglio di Anna verrà dai fatti disatteso, perché noi sappiamo che all’inizio del V libro, quando Enea ha ormai deciso di partire, veleggia via da Cartagine in un mare sferzato dall’Aquilone, vento del nord, che spira in inverno, quando il mare è clausum. La conoscenza di questo dato ci permette di intendere il consiglio di Anna ancor più sbagliato: esso è il vento più contrario per partire da Cartagine, perché spirando da nord, sospinge le navi verso la costa africana, anziché farle salire verso le coste del Lazio.

Tutte le opere, specie antiche, possono essere rilette mediante i realia e la extratestualità in genere, ma soprattutto la Bibbia. La Bibbia è stata scritta da un’altra civiltà che aveva usi e costumi molto differenti dai nostri, aveva una mentalità molto particolare e un modo di vedere le cose che a noi appare alquanto strano. In un racconto della creazione della Genesi Dio crea prima la luce e solo dopo i corpi celesti. Come mai? Per alcuni questo dipenderebbe dalla mentalità semitica, per la quale il contesto viene prima dei particolari.

Meditazioni Metafisiche #21 - il simbolo
Meditazioni Metafisiche #21 – il simbolo

Nel Salmo 139, 16 la CEI traduce:Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi”, in ebraico golmi ra’u henech. Gli occhi del Signore hanno visto golmi: si tratta di una parola ebraica che ricorre una sola volta nella Bibbia e non si sa cosa significhi (probabilmente entro la tradizione ebraica sta alla base della importante figura del Golem). È stata variamente interpretata, per esempio la traduzione siriaca Peshitta, operando la metatesi delle consonanti, ha letto gemulaj, “la mia ricompensa”, quindi “le mie azioni”. Per altri golmi richiama un verbo ebraico che significa “arrotolare”, “avvolgere”, quindi questa misteriosa parola indicherebbe qualcosa che è avvolto, probabilmente l’embrione, che era visto anticamente dagli ebrei come una sorta di bolla o cilindro. Come se lo sperma coagulasse alla stregua del latte per dare il formaggio[23].

In Gioele 2, 13 si dice:Lacerate il vostro cuore e non le vostre vesti”: si tratta di una espressione che si riferisce alla tradizione religiosa ebraica: dato che lo stracciare le vesti era un gesto penitenziale per chiedere il perdono dei peccati, Gioele invita non a fare gesti esteriori ma a provare coscienza della propria iniquità e quindi a cambiare vita, un po’ come Osea 6, 6:Amore voglio e non sacrificio”, che nell’originale ebraico suona hesed hafasti velò sabach. Nel Vangelo di Giovanni 13, 26-27 Gesù dà il “boccone” a Giuda, il traditore: in greco psōmion, parola più sbiadita e meno frequente del termine nobile “pane”, artos. Perché? Probabilmente il sostantivo greco indicava un uso semitico e beduino, quello di dare all’ospite il pasto migliore della casa: quindi Gesù darebbe al traditore tutto il proprio amore, segno del suo cuore puro e senza macchia.

Dall’insieme delle fonti epigrafiche e letterarie e dei dati materiali risulta che la religiosità greca fosse molto sincretistica. I suoi caratteri stranieri principali erano:

  1. Semitico: come la dottrina dei sette pianeti (introdotta in Grecia da Pitagora), che trova espressione nella consacrazione delle porte della città di pietra a divinità collegate ai pianeti, per cui “attraverso la consacrazione delle porte si faceva dell’intera città un tempio dedicato agli dèi dei pianeti”;
  2. Tracio: come il culto delle Muse e di Dioniso;
  3. Greco-italico: come la coincidenza di molte divinità greche con quelle italiche, per esempio Zeus-Giove, Era-Giunone;
  4. Indigeno: i Greci conquistarono delle popolazioni alle quali si sovrapposero, ma i culti degli indigeni continuarono a influenzare usi e costumi greci, come quello degli alberi[24].

 

Written by Marco Calzoli

 

Note

[1] R. Graves, La Dea Bianca, Milano 1992.

[2] G. Devoto, La lingua omerica, Firenze 1947.

[3] M. Heidegger, Essere e tempo, Torino 1969.

[4] U. Eco, I limiti dell’interpretazione, Milano 2004.

[5] M. Corti, Principi della comunicazione letteraria, Milano 1997.

[6] A. K. Coomaraswamy, La danza di Śiva, Milano 2011.

[7] E. Magno, Introduzione all’estetica indiana, Milano 2009.

[8] V. Šklovskij, L’arte come procedimento, in T. Todorov (a cura di), I formalisti russi, Torino 1968.

[9] E. Cassirer, Filosofia delle forme simboliche, vol. 1, Milano 2015.

[10] A. Zhok, Fenomenologia e genealogia della verità, Milano 1998.

[11] J. M. Maulpoix, Exclamation et développement, in Littérature 72 (1988) pp. 55-61.

[12] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano 2003.

[13] A. Compagnon, Il demone della teoria, Torino 2000.

[14] M. Fusillo, Estetica della letteratura, Bologna 2009.

[15] E. Auerbach, Mimesis, Torino 2000.

[16] N. Frye, Anatomia della critica, Torino 2000.

[17] G. de Santillana, H. von Dechend, Il mulino di Amleto, Milano 2018.

[18] R. Girard, La violenza e il sacro, Milano 1980.

[19] G. Steiner, Grammatiche della creazione, Milano 2001.

[20] H. Bloom, La saggezza dei libri, Milano 2004.

[21] L. Canfora, Ideologie del classicismo, Torino 1980. P. Vidal Naquet, La democrazia greca nell’immaginario dei moderni, Milano 1996.

[22] E. W. Said, Orientalismo, Milano 2013.

[23] G. Ravasi, Il libro dei Salmi, vol. 3, Bologna 2015.

[24] F. Nietzsche, Il servizio divino dei Greci, Milano 2012.

 

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