Le métier de la critique: Giovanni Camerana #1, paesaggi d’anima malata
È presente, nella poesia di Giovanni Camerana,[1] un continuo tentativo di metaforizzare il rapporto di relazione-opposizione con l’istinto di morte.
Guarda lo stagno livido,
che confusi bagliori e che mistero!
Come nel fondo si spande il crepuscolo
vermiglio e nero!
Le basse nebbie allungansi
come fantasmi e incombono sul denso
stuolo di giunchi e sulla cupa requie
del piano immenso.
E sempre più il crepuscolo
si fa profondo, e la boscaglia è un’ombra
sempre più bieca, e sempre più la tènebra
lo stagno ingombra.
È uno dei “Bozzetti” (1870 – 1874), in cui Camerana intende rifiutare i toni macabri del precedente periodo milanese – scapigliato.
Ora l’istinto di morte è proiettato sul paesaggio, nei colori grigi, nelle atmosfere nebbiose, autunnali, crepuscolari, nelle comparazioni tra paesaggio e oggetti funebri.
Il registro stilistico di “Maremma” (1877) è assai distante da quello caratteristico dei bozzetti di pochi anni prima.
Sotto il fuoco seral pare lo stagno,
il tetro stagno, una gran lastra d’oro.
Classica forma, in su la riva e il cielo,
culmina un bove che contempla, e lento
gira la pompa delle corna immani.
Caldo fu il giorno e greve, or la marina
il bacio suo freschissimo mi manda,
sacra consolatrice. A poco a poco
lo scoppio radïoso ecco si acqueta
e agonizza: lo stagno, il tetro stagno,
è diventato una gran lama bianca,
e le due corna oscure, alte, solenni,
quel deserto di lutto e di miasmi
regnano tuttavia, come il bidente
trionfatore del palustre nume.
Qui Camerana sembra attento a restaurare l’endecasillabo d’impianto tradizionale, si riappropria di formule ritmiche canoniche e di arcaismi («pompa», «greve», «palustre nume»), con prestiti scopertamente carducciani (il «bove») o genericamente classicheggianti («la marina / sacra consolatrice»).
Ma alcune sfumature linguistiche rendono particolarmente significativa questa lirica, che si sviluppa su due indicazioni di successione temporale: il tramonto culminante e il venir meno di questo «fuoco seral» che è «scoppio radioso», immagine di trionfo luministico e coloristico che svanisce.
Parallelamente, muta l’attributo dello stagno, dove al color oro si sostituisce il bianco. Non muta invece la caratteristica orizzontalità dello stagno (a cui è associato costantemente il termine angoscioso «tetro»), definito, al principio come alla fine del componimento, «una gran lastra».
In questo paesaggio orizzontale, metamorfico nelle sue apparenze ma immutato nella sua essenza di tetraggine, viene a trovarsi la figura del bue.
Un’immagine di verticalità, come si arguisce dal verbo «culmina» e soprattutto dalla rilevanza che assumono le corna dell’animale, esprimenti altezza, trionfo e grandezza («un bove lento / gira la pompa delle corna immani», «le due corna oscure, alte, solenni») e dette stabili nel mutamento e nella ribadita desolazione del paesaggio orizzontale (e infatti: «quel deserto di lutto e di miasmi / regnano tuttavia») e associate infine a segni del divino («come il bidente / trionfatore del palustre nume»).
Due immagini, insomma: da una parte, lo stagno (orizzontale, mutevole ed associata al negativo); dall’altra, le corna del bue, connotate dalla verticalità, da idee di trionfo e di grandezza divina.
Verticalità e orizzontalità sono figure della lotta instaurata dal poeta contro l’ossessione autodistruttiva, proiettata e obiettivata nelle immagini di schizzi e di vedute che diventano sempre più paesaggi di un’anima malata, di un poeta insoddisfatto delle sue capacità creative, impotente a rendere i propri mostri interiori con un linguaggio efficace e innovativo (come saprà fare, tra non molto, un poeta di poco più giovane di Camerana: Giovanni Pascoli).
In una lettera a Giuseppe Giacosa Camerana dichiara, come fondamento dell’angoscia in tutte le sue manifestazioni pratiche e psichiche, l’impotenza creativa, metaforizzata nelle ossessioni oniriche della parete altissima e del sepolto vivo:
«… il marchio più spaventoso che segni la fronte di un uomo è quello dei poeti, allorquando insieme all’abbondanza della facoltà creatrice non si ricevette una rispondente virtù di produzione. Il sogno che resta sempre sogno, la visione che si accende e si spegne in una notte invincibile, l’ideale che si consuma in una continua lotta corpo a corpo con lo spettro schifoso dell’inazione, ecco il calvario, ecco il lutto, ecco il martirio, ecco l’immensa ironia. Questa è veramente la strana parete che si sogna – la parete altissima, dritta, liscia, sorgente dal selciato di una piazza buia, e perdentesi nella bruma – la parete lacrimevole, contro la quale galoppano a briglia sciolta tutti i miei desideri e i miei più saldi propositi, – galoppano, salgono un poco e quindi, capovolti, stramazzano sopra il selciato e si sfracellano. […] Sovente mi abbandono a questa poco azzurra fantasticheria, essere sepolto vivo. Mi sveglio entro il feretro […] E mi scaglio all’insù. Ma il coperchio orizzontale mi stringe […] allora mi dibatto con crescente furore… […] Amico, il poeta impotente è il sepolto tra i vivi» – Chiomonte, 30 agosto 1874[2]
Sogni e fantasie che manifestano la condizione dell’impotenza poetica; sintomi dell’istinto di morte rappresentato mediante la metafora spaziale della verticalità («la parete altissima») e dell’orizzontalità (il feretro): contro cui l’Io creatore instaura una lotta tanto drammatica («galoppano a briglia sciolta, salgono»; «…mi scaglio all’insù, mi dibatto ») quanto inutile («i propositi… capovolti, stramazzano e si sfracellano»; «il coperchio orizzontale mi stringe…»); lotta in cui l’unica possibilità (problematica possibilità!) di vittoria pare consistere nell’attività poetica, mediante la quale l’istinto di morte è momentaneamente, instabilmente rimosso o parzialmente sublimato nelle figurazioni di un paesaggio che comunque offre l’impressione di una vitalità agognata ma costantemente avvertita come insufficiente o inefficace.
In “Note morenti” (1882) i dati paesaggistici si affiancano esplicitamente a realtà interiori rivelatrici della nascente autocoscienza della carica analogica e metaforica degli oggetti naturali, selezionati al fine di dare ampio spazio all’impressività mortuaria, come appare fin dal titolo, e poi nei versi iniziali e nella successiva determinazione temporale, quel tramonto che allontana una realtà di rivolta dolorosa e di “sovraumano trionfo” e sfuma gli elementi verticali del paesaggio: la montagna che si dissolve in un’impressione di colore ora acceso e poi più tenue, gli alberi che appaiono “torvi e brulli”.
Tutti gli elementi del paesaggio sono infine connotati dall’orizzontalità della «plumbea palude», ove si specchiano oscure parvenze (la casupola, gli alberi spogli) e dove perfino «l’orgia di brace» del tramonto pare, così riflessa nella palude, quasi diminuita della propria intensità luministica.
Ricorre dunque, in questa come in tante altre poesie degli anni ’80, la relazione-opposizione tra orizzontalità e verticalità, in una dinamica di rapporti fra immagini e metafore riconducibili ai campi semantici dell’orizzontalità (pace, quiete, dissolvenza del reale, morte) e della verticalità (lotta trionfale, esasperata vitalità, ascensione spirituale, aspirazione all’oltreumano):
Il tugurio è lugúbre, la campagna è profonda.
Il tugurio è una tetra macchia meditabonda;
come una grande affranta la campagna sospira.
Bacian le nebbie il prato, le nebbie il prato attira
voluttuoso. È l’ora che si acquetano gli ardenti
uragani dell’anima, e che i chiusi lamenti,
le rivolte, le seti sconfinate, i blasfemi
superbi e rimbalzanti fino ai cerchi supremi
paion volgere in mite preghiera. È l’ora strana
in cui si fa di intenso cobalto la lontana
montagna e di vïola finissimo; e fra i torvi
tronchi, e nei rami brulli, abitati dai corvi,
splende, fornace enorme, tempesta incandescente
d’oro, d’ambra e di sangue, l’autunnale ponente.
E quell’orgia di brace, la campagna profonda,
il tugurio, funerea macchia meditabonda,
e dei tronchi e dei rami le buie forme nude
si specchian capofitte nella plumbea palude.
Riassumono e concludono l’esperienza poetica di Camerana gli otto sonetti Ad Arnoldo Böcklin (scritti tra il 1899 e il 1904), caratterizzati da quell’eccesso di enfasi spesso riscontrabile nei versi del poeta piemontese.
Si infittiscono le ripetizioni di parola e i termini arcaici, inusitati e rari; la frase si fa tortuosa; il ritmo è improntato a monotone cadenze, con endecasillabi a cesure regolari e rime facili o già frequentemente usate.
Il desiderio di morte è proclamato in maniera sempre più esplicita e decisa. Nei primi sonetti Thanatos è obiettivato nella resa poetica del quadro di Böcklin:
IV
Plumbeo mar, sepolcrale isola, cime
lugùbri alto surgenti, alto invocanti
delle rupi, o flegrei canti e compianti
densi di erranti strofe in bieche rime;
porto di tombe pallide, sublime
cattedral di cipressi alto imploranti
sugli eroi, sui poeti e sugli amanti
l’amplesso eterno che ogni duol redime;
voi tra i gorghi e le Sirti del mortale
sogno, al di là degli uragani, voi,
bianche rive di oblio, Tebe ideale,
voi siete come la crescente voce
d’organo, immensa fra il tumulto, a noi,
fascino e calma nel tumulto atroce.
Poi, nelle ultime due composizioni (quelle del 1904, l’anno che precede il suicidio), l’interesse di Camerana s’incentra sul pittore deceduto, che diventa l’artista-eroe, e assume, post (e dunque propter?) mortem, una dimensione quasi divina.
L’arte sublima la morte, la morte sublima l’arte: così Böcklin diventa figura esemplare, mito su cui Camerana proietta il proprio istinto autodistruttivo, ormai non più arginato, bensì acuito, dall’immaginare un “dopo” di eternità gioiosa e di luminosa palingenesi:
VIII
Forse dunque dai gravi spechi, forse
dal fisso tenebror dell’arche, udremo
vaghe obïate voci, e rivedremo
le più dolci al pensier plaghe trascorse.
Di fosche Astarti, sogno che ci morse,
che ci sferzò in desìo chiuso e supremo
forse il fascino ancor noi sentiremo,
non più martirio come in pria ne attorse.
Scintillar calmi, primaverilmente,
vedrem clivi d’eterna gioia; clivi
di secol novo e di trionfal gente
che in larga teodìa esalterà
i santissimi albor. Fra mille rivi
di sole, il verbo atteso eromperà[3].
Written by Vincenzo Moretti
Note
[1] Giovanni Camerana nacque a Casale Monferrato il 14 febbraio 1845 in una famiglia che contava magistrati e generali. Seguì la famiglia a Torino e poi a Milano, dove il padre magistrato era stato trasferito, e studiò diritto nell’università di Pavia. In questi anni, tra il 1863 e il 1865, entrò in contatto col gruppo degli scapigliati milanesi, divenendo amico di Emilio Praga e di Arrigo Boito. Nel 1865, in seguito a un nuovo trasferimento del padre, ritornò a Torino, dove nel 1868 completò gli studi di legge. Entrato in magistratura, non considerando la sua carica compatibile col mestiere di poeta, sempre evitò di pubblicare un proprio libro di versi, ma collaborò dal 1869 al 1873 alla rivista ‘’L’Arte in Italia’’ con articoli di critica d’arte e continuò a scrivere poesie, rimaste inedite o pubblicate su giornali e periodici. Come magistrato, lavorò prevalentemente in Piemonte. Nominato, il 1º febbraio 1905, consigliere di Cassazione, si suicidò il 2 luglio dello stesso anno nella sua casa di Torino.
[2] Fa parte di un gruppo di lettere cameraniane a Giacosa, raccolte e segnalate da G. De Rienzo in “Camerana, Cena e altri studi piemontesi”, Cappelli, Bologna 1972.
[3] Gli scritti di Giovanni Camerana sono stati raccolti postumi: “Versi”, con prefazione di Leonardo Bistolfi, Streglio, Torino 1907, illustrato da disegni del Camerana stesso; “Poesie”, a cura di Francesco Flora, Garzanti, Milano 1956; “Poesie”, a cura di Gilberto Finzi, Einaudi, Torino 1968; “Versi”, Lampi di Stampa, 2003 (ristampa anastatica dell’edizione Streglio). Nel Museo civico di Torino è conservata la raccolta integrale dei suoi disegni.
Info
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