“Sabbia nera” di Cristina Cassar Scalia: un giallo color arancino
“La montagna s’era svegliata quella mattina. Una nube nera densa di cenere incombeva sulla città, avvolgendola…”
Lo scrittore, più spesso del maggiordomo, è l’assassino, perché è colui che ammazza il tuo tempo con la sua storia, dopo averti rapito e costretto a un’attenzione che sfocia talvolta in una sindrome di Stendhal.
Un giorno, a Firenze, l’autore della Certosa ebbe quasi un mancamento: “Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminando tenendo di cadere.” (Roma, Napoli e Firenze, 1817).
Questo suggerisce due tattiche per la sopravvivenza: mai leggere in piedi, mai farlo a stomaco vuoto. Una carenza di zuccheri può essere fatale, quindi meglio farlo in casa, dove provvidenziali acini d’uva o caramelle alla nutella possono fare la differenza fra un lettore attento e scrupoloso, e un altro esanime e vinto da quella fatica esistenziale che è l’analisi di un’opera letteraria.
La domanda che vorrei porti, cara Cristina, è forse la meno originale: quanti libri di Camilleri hai letto? Spero non te la prenda per tanta invadenza, perché mi rendo conto che la risposta è implicita: tantissimi, se non tutti. Io invece due o tre, eppure, quei pochi mi hanno fissato alcuni cardini operativi utilizzati dal Grande Vecchio.
Commissario o vicequestore che sia (come nel caso della tua Giovanna Guarrasi, Vanina per la mamma, in seguito alla lettura, del solo titolo, di Vanina Vanini, guarda caso, di Stendhal), chi investiga su un caso non deve mai rimanere, come il lettore, a digiuno.
La differenza fra Vanina e Montalbano è la misura degli approvvigionamenti. L’eroe di Camilleri si piglia una pausa di riflessione, in cui non bada ad altro che al cibo che sta divorando, mentre Vanina non stacca mai, almeno mentalmente.
Non quando mangia cibi good but fast e non quando cerca di addormentarsi e le prendono certi brutti pensieri, causati dal timore di far condannare un innocente, in seguito a indizi o a prove mal interpretate.
Quando si siede a tavola con l’ispettore Spanò, e quest’ultimo rimane “con il cucchiaino in mano e il tuppo della brioche nell’altra”, per poi lanciarsi “sulla granita con un pezzo di brioche pronto a essere inzuppato”, tu, Cristina, fimmina di Noto, Siracusa, lo definisci un “gesto, inconfondibilmente targato Catania.” Anche se “Giuli le aveva raccontato che il catanese vero, quello purosangue, la zuppetta non la faceva neppure con la brioche. La faceva col pane. La mafalda, possibilmente calda.”
Poi ti scappa detto che in quel momento magico, la mente dell’ipercinetico vicequestore fimmina, pensa che una brioche così, se non migliore (dico io, che conosco tutta una serie eterogenea, d’entrambe le genie intendo, di siciliani), l’aveva azzannata solo, guarda caso, a Noto.
Può darsi, sottolineo può darsi, che l’io dei siculi non sia più grande di chi, mischinu, è nato nel continente. L’ho riscontrato solo per il 67% dei miei conoscenti della Trinacria. Certamente, l’IO siculo è ontologicamente, geneticamente e strutturalmente diverso da quello degli altri abitanti del nostro incommensurabile e variegato pianeta terracqueo. E quello di Vanina non fa eccezione. Il fatto curioso è che non sono in grado di definirlo, questo IO siculo, ma posso solo dire che saprei riconoscerlo fra mille.
Ma sbaglio o stavo cianciando del tuo libro? Torno a botta sull’argomento.
Vanina/Cristina è un’appassionata di vecchi film. Ogni qualvolta che s’imbatte in un nuovo personaggio, cerca e sempre trova il suo algoritmo cinematografico e/o nazionalpopolare: Bettina, grassa e animosa, “è un incrocio tra Tina Pica e Sora Lella”; Alfio è “la versione sicula di Simon Baker” (citato ancora, in maniera subliminale, a pagina 317); Valentina Vozza ha “non più di ventotto anni, fisico perfetto inguainato in un jeans che si possono permettere in poche, e un caré di capelli lisci e scuri che la facevano assomigliare alla sua omonima del fumetto di Crepax.”; Patanè Biagio è invece un “Lando Buzzanca in versione anziana”; Tito Macchia è un “incrocio tra Bud Spencer e Kabir Bedi”, così, almeno “l’aveva catalogato Vanina la prima volta che l’aveva visto.”; Nicola Renna porta gli “occhiali all’Oliviero Toscani”; mentre il novantenne padre è “La brutta copia di Marlon Brando versione Padrino”; Calascibetta, “il sorriso sbilenco e lo sguardo storto negli occhi piccoli e scaltri” ricorda “Toni Sperandeo nella parte di Tano Badalamenti ne I centopassi”. Una ricerca di un deja vu filmico riguarda anche le banconote ritrovate accanto al cadavere, che sono “di un formato che Vanina non aveva mai visto se non in mano a Rossano Brazzi o ad Amedeo Nazzari”.
Si vocifera che Vanina sia nata in Sicilia come Minerva, nel cervello di un Dio (della scrittura), nella tua mente cioè, Cristina, non solo col tuo DNA, ma anche col tuo imprinting, esattamente come Calì che dice: “… fossimo in un film, direi che non ci potrebbe essere location più azzeccata per il ritrovamento di un cadavere, per lo più mummificato…”.
Vanina ha capito fîn a meşdé, dicono dalle mie parti, fino a mezzogiorno, e chiede: “Una scena alla Dario Argento?”; no, cara Vanina: “Non proprio. Direi più da Giallo napoletano, l’avrai visto, Mastroianni, la Muti giovanissima. Sono sicuro che l’hai nella tua collezione.” Purtroppo, non ce l’ha, e la cosa non va giù alla palermitana Vanina.
Molti si sono sorpresi che, in un DPCM d’emergenza di Conte, la Sicilia sia stata definita zona arancione: lo è, di fatto, da alcuni millenni, per via delle arancine (nel versante occidentale) o arancini (in quello orientale), che crearono fin dalla notte dei tempi un’ulteriore divisione fra i siculi. Infatti, poche pagine prima, Vanina forse esagera, quando: “– Ma vero dici? – ironizzò il vicequestore, calcando apposta l’inflessione palermitana che Calì, catanese fino alle unghie dei piedi, non sopportava.”
E qui s’innesta l’eterna, multiforme e paturniesca diatrìba (o diàtriba; secondo me c’è una questione fra le due etnie anche per questa questione) fra palermitani e catanesi, che è stata parzialmente risolta da un irascibile trabiano di nome Giuseppe che, alla domanda di quale fosse la più bella fra le due (meravigliose) città della Trinacria, rispose, ineffabile e distruttivo come sempre: Le brucerei tutte e due!
A me risulta arduo capire se i tanti termini disseminati nell’opera siano catanesi o palermitani, se siano a corna tisi o chiane. Devo dire che, a differenza di Camilleri, quando li riporti, tu non sei mai ricreata e inventata e che tutti risultano nel vocabolario italiano – siculo e viceversa, accattato a € 5,00 in via Roma, a Palermo. A parte un ammazzarato, colto come un ambiguo tarassaco a pagina 232. Il vocabolo è stato definito da un informatore racalmutese, confermato da un augustiano: significa bagnato, ma anche rinfrescato.
Sto pazientemente raccogliendo questi indizi perché, pur essendo pienamente consapevole che l’assassina sei tu, Cristina cara, quale mandante, mio dovere è di cercare l’esecutore che, come d’incanto, a pagina 196 scopro che è, diciamo che sento che probabilmente è…
Di solito un indizio non basta, ce ne vogliono almeno due per metter in da sacca na mezza prova, poi l’altra metà si può anche creare mentalmente, magari chiamandola intimo convincimento.
A pagina 204 de Sabbia nera, un altro forte indizio: “Sensazioni, vaghe, che uno non sa spiegare. Ma quante volte ci azzeccano, eh, commissario?”.
A pagina 216 qualcuno santifica come certo assassino qualcuno che già è stato in galera per tre decenni. Questo non m’inquieta, mi dà però da pensare. Gli assassini devono essere più di uno e legati in un qualche modo fra di loro.
A pagina 217 de Sabbia nera una sospettata parla di un sospettato, che può tranquillamente confermare una sua tesi.
Cristina, la tua prosa non è densa, è incalzante. Non incombe, induce spesso al sorriso. Ed è soprattutto scorrevole, molto ben scritta e mai banale. Eccone alcuni esempi:
“… la sua testa non aveva mai smesso di lavorare neppure nella fase più profonda del sonno, che in questo caso, dato il suo fuso perennemente sfasato, non poteva essere durata più di un paio d’ore…”
“Infreddolita, s’infilò una camicia sul pigiama e si diresse verso la Nespresso. Unì due Ristretto in una sola tazza, una dose di caffeina da far drizzare i capelli in testa per tutta la giornata. Si accese una sigaretta e se la fumò sul terrazzino della cucina, vista agrumi.”
“– … la guardi bene, perché quello che sta affermando potrebbe influenzare le indagini per due omicidi.
Quello s’avvicinò e la riguardò.
– Lei è.” – dove lei è un oggetto che la sa lunga, a proposito della verità che viene normalmente sepolta in fondo al pozzo, o in un’ala abbandonata di un’antica villa.
Più avanti:
“– Quindi potrebbe essere stato… a uccidere Burrano?
Vanina sputò il fumo dalla finestra.
– No, ispettore.
– Perché?”
Si torna infine, necessariamente, sulla Montagna Sacra, dove sono covati mille segreti.
“S’infilarono nella jeep di servizio e presero a seguire l’auto di…”
“– Ma dove minchia stiamo andando? Sbottò il vicequestore?”
Alla fine, tutto si risolve (si fa per dire):
“– Diciamo che ho cercato di immaginare come potrebbe essere andata. Immaginare, Tito, intendiamoci, perché sono solo ipotesi al momento indimostrabili. Favolette.”
Poco tempo passa e il sospettato numero uno (di Vanina e mio) confessa.
Particolare curioso: né lei né il sottoscritto c’avevamo preso.
Ma lei, minchia!, le occorre una botta di… fortuna e…
Tutto è male quel finisce male, per qualcuno.
Vi sono fondamentalmente due tipi di autori di thriller (fra quelli che prediligo, ma in realtà ce ne sono tanti quante sono le loro teste), il christiano (da Agatha Christie) e il woolriciano (da Cornell Woolrich).
Al primo scappa un qualcosa per cui il lettore, a pagina 16, intuisce chi è l’assassino; a pagina 70 scopre di aver preso un abbaglio grande come una casa. Nelle ultime cinque pagine del romanzo, l’incommensurabile investigatore (che può assumere varie forme, dal tappetto barilotto all’arzilla vecchietta che fa la calzina) scopre che tu avevi indovinato a pagina 16. È un gioco stupendo che funziona le prime dieci volte, poi il lettore si disincanta.
Allorché viene individuato senza più alcun dubbio l’assassino, si ha l’impressione che l’investigatore avesse aspettato, fin dall’inizio, un suo passo falso, che ogni volta fatalmente occorre.
Al woolrichiano, invece, importa picca o nenti che il lettore indovini l’assassino, quanto di terrorizzarlo. Il corrispettivo regista cinematografico è Hitchcock (che utilizzò un racconto di Cornell per il mitico La finestra sul cortile).
Ora, con te, gentile autrice, ho scoperto che ve n’è una terza, in cui l’investigatore prende qualche abbaglio, ma, essendo per sua natura un tanticchia instabile, a quattro pagine dalla fine una luce finale illumina il suo cammino. E poi?
Ovviamente nel weekend il vicequestore torna a Noto, dove la vita forse le ricomincia per l’ennesima volta.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Cristina Cassar Scalia, Sabbia nera, Einaudi, 2018
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