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“Portami il tramonto in una tazza”, poesia di Emily Dickinson: dimmi fin dove arriva il mattino

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Ci sembra di vederla, o forse di averla sempre vista.

Emily Dickinson
Emily Dickinson

Emily, nella sua casa, con lo sguardo in costante dialogo con la solitudine, sua compagna di vita.

Ed eccola nel 1859 che scrive i versi de “Portami il tramonto in una tazza”.

 

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Portami il tramonto in una tazza

conta le anfore del mattino

le gocce di rugiada.

Dimmi fin dove arriva il mattino –

quando dorme colui che tesse

d’azzurro gli spazi!

 

Scrivimi quante sono le note

nell’estasi del nuovo pettirosso

tra i rami stupefatti – quanti passetti

fa la tartaruga –

Quante coppe di rugiada beve

l’ape viziosa!

 

E chi gettò i ponti dell’arcobaleno,

chi conduce le docili sfere

con intrecci di tenero azzurro?

Quali dita congiungono le stalattiti,

chi conta le conchiglie della notte

attento che non ne manchi una?

 

Chi costruì questa casetta bianca

e chiuse così bene le finestre

che non riesco a vedere fuori?

Chi mi farà uscire con quanto mi occorre

in un giorno di festa –

per volare via – in pompa magna?

 

Ci sembra di vederla, o forse di averla sempre vista.

Emily, nella sua casa, con lo sguardo in costante dialogo con la solitudine, sua compagna di vita.

A chi si sta rivolgendo in questa sua poesia? Non ci è dato saperlo, e non è escluso che un vero e proprio interlocutore non ci sia.

Non a se stessa si rivolge: la poetessa ha bisogno di un elisir della sublime bellezza della natura, a partire dalle più piccole gocce di rugiada fino ai “ponti dell’arcobaleno” (v. 13), passando per il canto di un pettirosso e i passi di una tartaruga.

Tutto è mistero, che solo un’anima resa profonda dalla solitudine può notare, in una natura che accoglie il silenzio di Emily.

Quale silenzio? La rinuncia volontaria al clamore del mondo, unita ad un mai sopito desiderio di “volare via” (v. 24).

Verso dove? Forse neppure lei lo sapeva.

Oppure verso una dimensione che le donerà la pace, una dimensione così piccola come una goccia di rugiada, così presente ma impalpabile come il canto di un pettirosso.

Una dimensione in cui il divino, mai apertamente nominato, ma evocato con pudore e grazie (“E chi gettò i ponti dell’arcobaleno,/ chi conduce le docili sfere/ con intrecci di tenero azzurro”, vv. 13-15).

Emily non cerca risposte, almeno non nel senso di una narrazione intellettualisticosapienziale.

No, Emily ha sete di mistero, quel mistero che, da piccolo, diviene così grande da avvolgere di meraviglia il suo cuore, per farla volare lontano.

 

Riporto qui la poesia in lingua originale, la traduzione in lingua italiana è libera e non letterale dunque si consiglia la lettura in inglese.

 “Bring Me The Sunset in a Cup” (1859)

Poesie - Emily Dickinson
Poesie – Emily Dickinson

Bring me the sunset in a cup

Reckon the morning’s flagon’s up

And say how many Dew,

Tell me how far the morning leaps –

Tell me what time the weawer sleeps

Who spun the breadths of blue!

 

Write me how many notes there be

In the new Robin’s extasy

Among astonished boughs –

How many trips the Tortoise makes –

How many cups the Bee partakes,

the Dabauchee of Dews!

 

Also, who laid the Rainbow’s piers,

Also, who leads the docile spheres

By withes of supple blue?

Whose fingers string the stalactite –

Who count the wampum of the night

To see that none is due?

 

Who built this little Alban House

and shut the window down so close

My spirit cannot see?

Who’ll let me out some gala day

With implements to fly away

Passing Pomposity?

 

Written by Alberto Rossignoli

 

 

Bibliografia

Emily Dickinson, “Poesie. Testo inglese a fronte”, Newton Compton Editori, Roma, 2015

 

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