“Aprire Venere” di Georges Didi-Huberman: nudità, sogno, crudeltà
“La Venere di Botticelli è bella. E nuda. E per quanto è bella è anche solitaria, e impenetrabile.”

Così inizia il saggio del filosofo francese sulla nudità nell’arte in generale e in quella della più celebre opera del più prezioso artista italiano in particolare. L’aggettivo mi viene spontaneo quando lo stesso viene definito pittore-orefice.
Ma andiamo con ordine. L’ultima parola della citazione, impenetrabile, è la più significativa. Cercherò di dare un senso a questa mia affermazione, pur non sapendo se mai ci riuscirò.
“Eppure il cuore di questo corpo resta per noi impenetrabile, benché offerto ai nostri sguardi nella sua più integrale nudità. Una specie di assorta solitudine lo allontana da noi come pure dalla sua esistenza sessuale.”
Io non mi sento allontanato, ma chiuso fuori da quella Divinità. Se m’avvicino al quadro, la distanza fra Venere e me, pare variare, mentre in realtà non muta per nulla: ero e rimango ugualmente esterno alla Sua Essenza.
Didi definisce la sua nudità quasi minerale che, almeno nella traduzione italiana, è una sola parola, con due tipi di formato. Il termine è irregolare, ma dà perfettamente l’idea.
“Il mondo estetico si costituisce solo nella separazione di forma e desiderio, anche se la forma in questione raccoglie espressamente l’evocazione dei nostri più forti desideri.”
Occorre, per partecipare al miracolo artistico, “mantenere il simbolo e dimenticare l’immagine, mantenere il disegno e dimenticare la carne.”
Didi afferma questo, ma subito lo nega, perché in tal senso “la Venere di Botticelli non sarebbe altro, in fondo, che un nudo ‘celeste’ e chiuso, libero dalla sua nudità, dai suoi (nostri) desideri, dal suo (nostro) pudore; libero, insomma, dalla sua (nostra) colpa, da quella maniera essenziale fondamentalmente imposta da ogni desiderio.”
Il cammino dell’investigatore è ancora lungo da percorrere: tra l’altro non occorre cercare l’assassino (che è palesemente il signor Alessandro Filipepi), bensì il movente che l’ha spinto all’insano gesto.
“Il nudo di Botticelli appare solo alla fine come la conseguenza figurativa, ritradotta e disincarnata, di tutta questa catena discorsiva”, come se Alessandro fosse un semplice illustratore di opere letterarie. Altri tentativi “di separare il nudo dalla sua nudità” servono soltanto per schivare la problematica principale.
Alessandro cela il sesso della Dea con l’estremità dei suoi assurdi capelli. Masaccio “al Carmine rappresenta Eva con un sesso da bambina.” Probabilmente in quest’organo foriero di funzioni riproduttive (e non) qualcosa spaventa qualcuno. Ma cosa? Troppo facile è la prima risposta. Quasi mistica, l’ultima.
“L’oggetto di una storia dell’arte non è affatto l’unità del periodo descritto, ma al contrario la sua dinamica, che presuppone movimenti in ogni senso, tensioni, rizomi di determinismo, anacronismo in atto, contraddizioni inestinguibili. Nietzsche chiamava tutto questo ‘la forza plastica della vita’.”
L’arte è un fenomeno vitale. Oppure no?
“… le opere del pittore sono attraversate da una contraddizione al tempo stesso inusitata e straordinaria: i soggetti – i corpi, i volti, gli sguardi – restano interiormente impassibili, mentre tutta la passione relativa alle scene rappresentate si sposta all’esterno, molto spesso vicinissimo, sul limitare dei corpi.”
Il pathos è descritto, quasi circoscritto, da “un semplice vento che agita i capelli“. Un segno emerge inatteso, recando con sé un’informazione, pur incerta, che si deve cogliere immediatamente, prima che essa svanisca dal mondo in cui era emersa. Didi lo chiama sintomo. Del male di vivere?

Leon Battista Alberti afferma: “Solo studia il pittore finger quello che si vede“, l’involucro esterno, togliendolo immediatamente dalla natura. L’osservazione successiva non può che “aprire i corpi”, o meglio ri-aprirli, rimettendo la natura in gioco. E riaprendo ogni sorta di collegamenti mortali col resto del mondo.
“… dipingere un nudo è di conseguenza assimilabile a un’operazione di progressivo rivestimento: ossa subterlocare – quindi disporre i muscoli, la carne e infine la pelle.” Fatto ciò, occorre richiudere il tutto, puntando a… tutt’altro.
Goethe risponde a Diderot: “Sì, l’artista deve rappresentare solo l’esterno! Ma l’esterno di una natura organica cos’altro è se non l’apparenza eternamente mutevole dell’interno?”
In questa teoria dei frattali, regolari ma instabili, logici ma imperfetti, si cela un pericolo mortale: trascorso quell’attimo indicibile e illusoriamente eterno, l’esterno si evolve, cresce, si espande, aulente, si riproduce e finalmente muore.
Esistono varie nudità (naturalis, temporalis, criminalis, eccetera eccetera, di cui non m’interessa parlare perché esulano dalla mia reazione al lavoro di Didi). Più mi emoziona quest’affermazione: “È la nudità inquieta (ma altrettanto inquietante), è la nudità minacciata (ma altrettanto minacciante) a investire l’apparente neutralità delle belle figure botticelliane.” Esistono altre nudità, che poco m’interessano: adamitica, rituale, del lutto, di umiliazione (del Cristo), su cui preferisco sorvolare, perché mi allontanano dal centro della mia ricerca.
Meglio citare l’orrido Ottone di Cluny: “la grazia femminile è solo suburra, sangue umore fiele.” Tale atrocità s’innesta su quel che penso anch’io: gli orifizi della donna, che tanto risvegliano gli amorosi sensi, sono anche quelli che riversano sulla terra ogni sorta di nefandezze, similmente ai corrispettivi maschili, non meno putridi e osceni. Occorre molto amore, kam’a, la passione amorosa, per vincere la ripugnanza che a un tratto ne deriva.
“… come se si vedesse San Giorgio accanirsi sulla povera principessa invece di uccidere il drago. A meno che, insensibile alla contraddizione, il corpo nudo della giovane rappresentasse ciò da cui era necessario estirpare tutti i draghi dei nostri desideri…”
Didi esamina i vari pannelli di Storia di Nastagio degli Onesti, in cui Alessandro ricrea una novella di Giovanni Boccaccio. La donna rincorsa dal cavaliere “è nuda perché è l’oggetto del desiderio, vale a dire un oggetto psichico. Dirò che è nuda perché la sua funzione principale è quella di levarsi, di apparire, di investire lo sguardo; nulla è più appariscente della nudità in un contesto pubblico”.
Questo non può durare nel tempo. “I sogni di nudità sono tesi, immobilizzati fra piacere e divieto, due movimenti contrastanti che producono una paralisi del corpo nudo quando il piacere dell’esibizione si trasforma in angoscia.” E si manifesta il blocco, che non è un fenomeno spazio-temporale, bensì la sua negazione.
“E al centro di tutto questo troviamo nudità. Nudità che appare, nudità aperta, uccisa, nudità che fugge e torna sovrana sotto i nostri occhi.”
Grandissimo pericolo esistenziale!
Sic transit gloria mundi!
“Vi sarà una sorta di caccia, con uccisioni ed eviscerazioni, e il continuo ritornello infernale del movimento si assisterà all’irruzione della donna nuda nel bel mezzo di un banchetto…” con tutti quei mefitici umori bestiali.
Quest’infernale creatura va eliminata, privata delle sue viscere, e il resto gettato ai cani, perché salvino il mondo da tanta turpitudine. Che tornerà ogni sera a inquietare la nostra tremebonda esistenza!
La nudità sarà “percepita come scivolamento verso qualcosa che si sottrae senza posa a una rappresentazione distinta”: indefinibile e indefinita in quanto eccessiva, ridondante, foriera di collegamenti in entrata e in uscita: “essa mette l’essere in movimento, in desiderio, in ‘scivolamento’, e perché fa dello scivolamento stesso una dinamica di esuberanza ontologica, una dinamica di apertura che la rappresentazione non riesce generalmente a ‘distinguere’. La nudità è la cosa meno definita al mondo per la fondamentale ragione che essa apre il nostro mondo.” Essa sempre risulterà mossa, instabile, caduca. In altre parole, maternamente mondana.

Tralascio di commentare il sesto e ultimo capitolo (che va letto d’un fiato e che impreziosisce l’opera di Didi), perché ho urgenza di giungere al finale della mia reazione. Mi basta dire che tratta della nudità che più aperta non si può: quella della Venere dei Medici, variamente e riccamente squadrate.
Sento che la verità è quell’immonda creatura, di cui occorre liberarsi al più presto, perché ti impedisce di volare.
L’essere umano nudo rende palese il fatto che egli è nato in quanto altri due esseri diversamente omogenei, dalla natura complementare, si sono presi, uniti, collegati, compenetrati. E come sancì per sempre la signora Angelina d’Amalfi, quando vide il mio amato neonato: da nu poco ‘e schifezza nasce ‘a creatura!
Vorrei rammentare, en passant, si fa per dire, che Alessandro, nel finire della sua opera, dimenticò all’improvviso la prospettiva predicata dall’Alberti: essa gli impediva di rappresentare compiutamente l’Assurda e Divina Natività.
La Natura è stupenda, ma impedisce la sacralità, cioè quel non tempo-non spazio in cui, secondo Mircea Eliade, il Divino s’innesta, per quell’attimo indivisibile, con l’umano, impedendo, in una sospensione magica, la fuga inarrestabile verso l’ignoto, il Caos, il disordine entropico, così com’è previsto dal secondo principio della termodinamica.
Quello è il reale problema, che rende così tragicamente necessaria, e cogente, l’esistenza di Dio.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Georges Didi-Huberman, Aprire Venere, Einaudi, 2001