I draghi del futuro di William Ospina: in assenza degli dèi regnano i fantasmi
Traduco questo interessante articolo di William Ospina perché affronta tematiche attuali legate all’ambiente e alla pandemia in modo coraggioso e senza fare sconti a nessuno.

Inoltre vorrei far conoscere questo grande autore sudamericano, apprezzato da altri grandi della letteratura sudamericana, come Gabriel García Márquez, Mario Vargas Llosa e Fernando Vallejo.
L’articolo qui sotto riportato è molto critico nei confronti della nostra società, della direzione che ha preso forse fin dall’inizio, ma chiude con una speranza condivisibile verso quello che potrebbe essere un cambiamento alla nostra portata, alla portata dell’uomo.
Di certo, come ben dice Ospina, ci troviamo di fronte a un punto di svolta epocale della storia dell’umanità, sta a noi affrontarla quella svolta – e non altre – e soprattutto, non proseguire sulla strada seguita finora. Perché è ormai palese come essa ci abbia condotto sull’orlo del baratro, e andare avanti, significa precipitare.
I draghi del futuro di William Ospina
Fu Chesterton a dire che la differenza tra il mondo antico e quello moderno è la differenza tra un mondo che lotta contro i draghi e uno che lotta contro i microbi. Una volta in più questa pandemia ci ha rivelato non solo il potere dell’infinitamente piccolo, ma anche il potere della natura, che sempre più spesso la vanità della nostra specie e la pretesa di avere tutto sotto controllo tende a disprezzare.
Una sentenza biblica ci aveva avvertiti che non c’è nulla di nuovo sotto il sole, ma per noi se c’è qualcosa di evidente è che ogni volta ci sono sempre più cose nuove sotto il sole, cose mai viste prima. Non solo città di dieci, venti e trenta milioni di abitanti, la nuova immissione catastrofica di carbonio nell’atmosfera, l’estinzione in massa di specie viventi dovuta all’azione di una sola specie, la nostra; persino un continente di plastica che galleggia nel Pacifico e un’alterazione del clima che forse testimonia la degradazione irreversibile della nostra nicchia ecologica, di questa dimora che per milioni di anni fu così propizia alla vita sulla Terra.
Non sappiamo ancora quanto l’attuale pandemia sia una cattiva notizia, o quanto ci sia di buono: se la sua venuta intenda avvertirci della nostra fragilità o mostrarci la nostra forza, farci vedere come possono peggiorare le cose o insegnarci come potrebbero migliorare. D’improvviso, sulla scia di Darwin e come nei libri di Olaf Stapledon, essa ci fa sentire che di fronte a certe cose noi, cinesi, indios, mongoli, caucasici, zulù, mursi etiopici, sara del Ciad, taini caraibici o guaranì funzioniamo come un solo organismo, un organismo che di fronte alle minacce mette alla prova la propria resistenza, apprende a difendersi; proprio a partire dalla trincea recondita dei tessuti, negli ultimi flussi di sangue pieno di vita. Non sappiamo se da quella lotta verrà il nostro annichilamento o se potrà udirsi di nuovo il salmo di Walt Whitman, il suo inno alla fecondità della vita e la sua promessa per il futuro. Ed è possibile che la risposta a questa domanda dipenda da noi.
Per secoli ci siamo limitati a raggiungere alcune comodità, rendendo un po’ più confortevole la nostra vita quotidiana, abbiamo cercato di rendere più bella e serena la nostra esistenza; ma a partire da un certo momento non è più stato il benessere umano a guidare il cambiamento, ma le forze cieche della smania per l’accumulazione e per il saccheggio, il tentativo di triturare la natura per trasformarla in merce, di fondere in lingotti il mistero del mondo.

Pascal disse una volta che il silenzio eterno degli spazi infiniti lo atterriva; Leon Bloy affermò che se vediamo la Via Lattea è perché essa esiste davvero… nell’anima, e Robert Browning, facendo eco all’affermazione per cui l’ordine inferiore è un riflesso dell’ordine superiore, disse che nella leggenda dei secoli vediamo scritto in grandi caratteri quello che in piccole lettere narra il racconto della nostra stessa vita, poiché entrambi i testi coincidono. La cosa certa è che noi esseri umani abitiamo in una sorprendente frontiera tra l’infinito e l’infinitesimale (come dice anche Roger Penrose, N.d.t.), tra l’abissalmente grande e l’abissalmente piccolo, e già Dante e Husserl insinuarono che un abisso è forse nient’altro che il riflesso dell’altro.
Schopenhauer, invece, scrisse che quando volgiamo lo sguardo verso lo spazio infinito avvertiamo la nostra indescrivibile piccolezza, che quando pensiamo all’eternità del tempo ci rendiamo conto della nostra intollerabile fatuità, ma quando pensiamo che se non fossimo qui per vederlo lo spazio infinito non esisterebbe, e che quel tempo infinito non mostrerebbe il suo caleidoscopio se noi non ne fossimo testimoni, comprendiamo che solo per noi esiste quel contrasto tra l’immenso e il minuscolo, che noi stessi rappresentiamo un contrasto sublime. Eppure, non possiamo pretendere che un’esperienza come questa, che ci lascia quasi senza parole, oltretutto si prolunghi nel tempo. Quell’istante che è la vita, lo potremmo chiamare con un titolo preso in prestito da Borges: Il miracolo segreto.
Poco più di due secoli fa, per burlarsi di Leibniz, Voltaire inventò la parola ottimismo. Tale parola si impossessò del mondo, e rese evidente che ne era la epoca; e pure Leibniz, cullava l’illusione che tutto sarebbe stato ottimo, che tutto sarebbe sempre andato bene. L’ottimismo è diventato la divisa dell’era del progresso, la stessa che il settore industriale ci ha delineato e che la pubblicità ci ha venduto in grandi dosi.
Stavamo migliorando il mondo, conquistando la supremazia, mettendo la natura sotto i nostri piedi; la trasformazione del mondo non avrebbe avuto limiti, e le interminabili dispense della società del benessere avrebbero aperto le loro porte davanti a noi, alla lunga tutto ciò avrebbe reso innecessario qualsiasi sforzo, avrebbe posto l’intero cosmo al nostro servizio, e avrebbe delegato alle macchine il compito di educarci, di farci divertire, di amarci, di lavorare per noi, di ricordare per noi, di pensare per noi.
Lungo quel cammino, in mezzo al quale ci trovavamo, l’unica cosa che avremmo potuto raggiungere era la nostra completa irrilevanza. Un’epoca che rende innecessario lo sforzo, la memoria e il pensiero, intesa a escludere ogni avversità e ogni difficoltà, che cancella le distanze, intesa ad affrancarci dal potere della notte, dalla scomodità della ricerca, dell’applicazione, della lentezza; dal silenzio e dall’assenza, un’epoca che cerca disperatamente l’istantaneo, il subito, la continuità, la comodità, e che nasconde la malattia, la vecchiaia e la morte; che cela i maestri di Buddha nello scantinato della coscienza o dell’oblio, non è un’epoca tale da renderci forti, ma al contrario ci riduce alla totale fragilità. Quell’ideale di inazione non è concepibile ottenerlo, la natura non lo permette, perché esso ci educa alla paura, alla mancanza di progetti che suppongono degli sforzi e a una vera crescita.

Ciò diventa percepibile quando appare l’inatteso, quando un pericolo come questa pandemia ci pone di fronte a un periodo insolito, quando l’inesplicabile ci assale, l’ignoto ci sfida e la nostra esperienza non è sufficiente a proteggerci. Una pandemia come l’attuale non ha certo la gravità di altre succedutesi nella storia: non è la peste di Giustiniano, né la peste nera del medioevo europeo, e neppure l’influenza spagnola del 1918. Ma è bastata a mettere in scacco un’umanità debilitata dalle inquietudini della società del consumo e dall’ottimismo industriale. Diceva bene Novalis a dire che in assenza degli dèi regnano i fantasmi.
Inoltre, l’irruzione di questo virus è capitata nell’era dei contenuti virali; quel che davvero gli ha dato le dimensioni di piaga cosmica e ombra universale non è tanto la sua pericolosità effettiva, che esiste ed è più grave di una normale influenza, quanto il fatto che la globalizzazione ha sincronizzato su di essa gli orologi della Terra. Non è una pandemia peggiore di quelle del passato, ma l’abbiamo vissuta in modo simultaneo in tutto il pianeta: ce l’hanno trasmessa dal vivo, ognuna delle sue vittime è stata conteggiata e comunicata; in realtà, in questo momento della storia, essa è ormai divenuta un diagramma del nostro spirito; viene continuamente annunciata, trasmessa, condivisa, resa virale, e ciò la moltiplica fino alla vertigine e la trasforma non solo in una malattia della carne, ma soprattutto in una malattia dello spirito, una strana infermità fatta di dolore e di paura, di morti e di sofferenze, ma anche di reti sociali, di informazione, di notizie false, di rumori, di allarmi, di spettacolo, di adrenalina e di statistiche. Un’istantanea scattata all’umanità nel momento di maggior allarme della storia e di sua massima fragilità.
Ed eccoci di ritorno nella caverna. In un secolo che ancora vive il fardello degli incubi di Bradbury, eccoci qui davanti alla fantasia di un mondo senza persone, con città vuote; eccoci al cospetto di ciò che ci annunciavano i profeti della letteratura fantascientifica e le storielle della nostra infanzia; davanti a un sogno o incubo a misura della nostra epoca: l’apoteosi delle fantasie postmoderne. E sebbene quanto stia accadendo la dica lunga sulle nostre fragilità e fisime, sulla propensione attuale all’allarmismo mediatico, alla subordinazione politica e alla docilità di fronte ai manipolatori del potere, è anche possibile che questa situazione anomala con il suo arresto planetario ci ponga in una posizione privilegiata per vedere più in là della pandemia e per porci di fronte a un altro orizzonte di riflessione.
Il confinamento, che per prudenza o paura ci rende soggetti all’esperimento platonico, sembra esigere che ognuno di noi vada a vedere cosa c’è fuori dalla caverna, se a quelle ombre corrispondono davvero dei corpi. E un’affermazione shakespeariana ci arriva dalle labbra di un ragazzo offeso: “Io potrei anche trovarmi rinchiuso nel guscio di una noce, eppure mi sentirei comunque re dello spazio infinito”.
Tutti noi, in questi giorni, abbiamo vissuto come dietro un copione prestampato la successione di tappe mentali predefinite. Prima, come ho già detto, la fantasia bradburiana di un mondo senza persone; subito dopo lo stupore un po’ illusorio di un’irruzione della natura da noi da tempo esiliata: i cervi nei templi e nelle spiagge, i grandi uccelli nelle città, i delfini che si avvicinavano ai moli, piccole belle metafore per il nostro senso di colpa. Dopo, la percezione dello sfondo storico: il cambio climatico, le mutazioni dei germi e dei virus, la possibilità di fermarsi di colpo, la meraviglia di un’aria più pulita, la nostalgia della natura, il pericolo rappresentato dalle città e il rischio di un collasso urbano, la pazzia insita nel consumo indiscriminato, l’evidenza di quanto austera potrebbe essere la nostra vita senza ulteriori rinunce, la prova del valore della presenza, i pericoli dell’eccessiva virtualità, la paura che l’economia nella quale confidavamo collassi, perché non abbiamo costruito un modello con il quale rimpiazzarla e, forse, persino l’evidenza che il capitalismo siamo noi.
Allora, convivono nella nostra coscienza il desiderio e il timore di tornare alla normalità, il ricordo delle pentole d’Egitto (riferimento al libro dell’Esodo quando gli ebrei in fuga lungo il deserto rimpiansero le pentole d’Egitto piene di cibo, N.d.t.) e l’eco della proposta di Hölderlin “che tutto cambi in ogni dove”. Il sospetto che siamo disposti a cambiare ogni cosa solo come fanno quegli atei che negli aerei iniziano a credere in Dio sapendo che se ne dimenticheranno appena toccato terra. La convinzione che dobbiamo cambiare perché questa pausa di meditazione ce lo ha dimostrato non basta. La coscienza di quanto sia ottusa l’umanità, il sospetto che a dispetto di tanti allarmi rischiamo di non apprendere nulla, e che l’inerzia dei giorni ci trascini un’altra volta verso la conformità, e quell’essere nuovo che sembrava nascere si sciolga nell’indifferenza.
Perché, come fin qui dimostrato, la realtà virtuale ha preso le redini della nostra vita. Ma speriamo sia per poco tempo. Speriamo cresca in noi la necessità di tornare al mondo reale, e di rincontrarci di nuovo per davvero; a proposito, ben disse San Giovanni della Croce: “Guarda che la sofferenza/ d’amore, non si cura/ se non con la presenza e la figura.”

Speriamo di finire con l’annoiarci di questo auditorium globale e dell’onnipresente virtualità. Che la pandemia e il confinamento ci siano serviti per scoprire quali scarsi sostituti della presenza fisica e della piena unione di vite e di coscienze siano le onde sonore e i pixel. Però ci sono già dei proseliti del supposto progresso e della conversione verso il nulla che propongono che l’educazione diventi definitivamente virtuale, che si avanzi con entusiasmo verso la morte finale del mondo degli dèi, ossia del mondo reale, verso il trionfo totale dei fantasmi.
Perché già prima di questo incidente storico tendevamo a mostrarci solo mediante apparizioni parziali, avanzavamo a ritmo sostenuto verso la disintegrazione del corpo umano, verso una frammentazione della nostra esistenza e una sorta di scomposizione della nostra entità organica, della pienezza corporale e della coscienza degli altri. E quella frammentazione dell’essere individuale è anche un passo nel processo di disintegrazione di ogni comunità: disattivare l’umanità come entità collettiva capace di fare alleanze, ribellioni e grandi cambiamenti.
Abbiamo visto, in Colombia e nel mondo intero, come l’assenza di cittadini nelle strade rafforzi le tentazioni del potere, riempia di energia i predatori della vita e gli opportunisti della corruzione. Questo modello che tenta anche di distruggere la nostra integrità riducendoci alla mera condizione di consumatori, di elettori, di semplici contribuenti e di spettatori, vede con piacere la prospettiva di un mondo senza creatori, senza protagonisti, senza oppositori e senza rivoltosi; e così come pretende di ammanettarci per salvarci da ogni pericolo, ha anche la tentazione di salvarci dal pensiero, dall’azione e dalla libertà.
La strada ci attende, il mondo ci attende. Una nuova città è possibile e deve essere qualcosa di più della realizzazione di vie ordinate, di servizi e di commerci. Il meglio del nostro pensiero, il più alto dei nostri principi e la più bella delle nostre creazioni, sono ciò che possiamo costruire con la grande eredità della civiltà umana.
La mera tentazione di tornare alla normalità non dovrebbe impedirci d’intraprendere un urgente cambiamento storico, di reinventare l’unico mondo possibile a quello attuale. Perché ci sono microbi nel presente ma potrebbero esserci draghi nel futuro. Ed è necessario tornare a parlare della condanna che ci estromise dal paradiso perduto. Non quello che ci dissero che perdemmo molto tempo fa, forse dall’inizio, ma il vero: quello che siamo sul punto di perdere ora.
William Ospina, nato a Padua, Tolima, il 2 marzo1954) è uno scrittore e giornalista colombiano, autore di numerosi libri di poesia: Hilo de arena (1986); El país del viento (1992); ¿Con quién habla Virginia caminando hacía el agua? (1995); Sanzetti (2018); nel 1992 vinse il primo Premio Nazionale di Poesia dell’Istituto Colombiano di Cultura.
I suoi componimenti sono stati raggruppati nell’antologia Poesia 1974-2004; ha scritto inoltre vari numerosi saggi, di cui i più importanti sono: Es tarde para el hombre (1194); ¿Donde está la franja amarilla? (1996); Las auroras de sangre (1999); América mestiza: el país del futuro (2004); La escuela de la noche (2008); La lampara maravillosa (2012); Pa’ que se acabe la vaina (2013); Parar en seco (2016); El taller del tiempo y el hogar (2018). Ha poi scritto diversi romanzi, l’epopea dei conquistadores e della presa delle Americhe, raccontata nei tre libri: Ursúa (2005); El País de la canela (2008); La serpiente sin ojos (2012); e altri due romanzi autoconclusivi di diversa ambientazione geografica e storica: El año del verano que nunca llegó (2015); e ha raccontato una sorta di epopea romanzata della storia della sua famiglia in: Guayacanal (2019); Nel 2009 vinse il Premio Rómulo Gallegos per il suo romanzo El País de la canela.
Nel 2013, essendo un sostenitore della campagna di riconciliazione tra il governo colombiano e le Farc, per porre fine alle decennali mattanze dall’una e dall’altra parte, scrisse una Oración por la paz che venne letta nella piazza di Bogotá dall’ex senatrice Piedad Córdoba.
William Ospina scrive da anni una rubrica periodica nel quotidiano El Espectador dove tratta sia di temi politici che filosofici, ambientali e culturali in generale, senza mai dimenticare la condizione dei popoli oppressi. Viaggia spesso in Europa per partecipare a fiere letterarie e convegni.
Written and translated by Claudio Piras Moreno
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Articolo originale pubblicato il 6 settembre 2020 su El Espectador