Le métier de la critique: Grazia Deledda, la prima donna italiana Premio Nobel
“Per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi”. – Motivazione per l’assegnazione a Grazia Deledda del Premio Nobel per la letteratura per l’anno 1926

Prima donna italiana a ricevere il Premio Nobel per la letteratura, Grazia Deledda vede la luce il 28 settembre del 1871 a Nuoro, luogo a cui rimarrà legata sempre da un sentimento d’affetto, nonostante si trasferisca a Roma dopo essere convolata a nozze con Palmiro Madesani.
Persona versata agli studi, la sua carriera letteraria affonda le radici nella sua adolescenza, durante la quale coltiva, da autodidatta, un’intensa passione per la letteratura: in quanto femmina, le è preclusa un’istruzione superiore da ricevere al di fuori delle mura domestiche.
Ed è proprio da autodidatta che sviluppa un’ampia cultura, la quale va ad alimentare la sua produzione facendone un’autrice intensa e prolifica. Nonostante il contesto storico in cui cresce, che non vede di buon occhio l’evoluzione culturale delle donne, considerate un’appendice del marito, il suo maggior desiderio è affermarsi come scrittrice.
Appassionata dei grandi romantici russi dell’800 ne approfondisce la conoscenza traducendoli, fino a concepire un libro di racconti dedicati a Lev Tolstoj. La Deledda, infatti, non solo è una valida scrittrice, ma si cimenta con successo anche come traduttrice. Che peraltro le è congeniale: esempio ne è la traduzione in italiano di Eugene Grandet di Honorè de Balzac.
“Tutta la notte nevicò, e il mondo, come una grande nave che fa acqua, parve sommergersi piano piano in questo mare bianco. A noi pareva di essere entro la grande nave: si andava giù, nei brutti sogni, sepolti a poco a poco, pieni di paura ma pure cullati dalla speranza in Dio. E la mattina dopo, il buon Dio fece splendere un meraviglioso sole d’inverno sulla terra candida, ove i fusti dei pioppi parevano davvero gli alberi di una nave pavesata di bianco.” – Un dono di Natale
Le sue prime espressioni letterarie nascono sotto l’influenza del verismo verghiano. Tanto che per alcuni aspetti l’opera di Deledda la si può interpretare in chiave verista, corrente letteraria a cui si lega soprattutto per il tipo di ambientazione: quasi del tutto regionale, dove le sue storie sono inserite nella geografia dell’isola che le ha dato i natali. Arrivando in seguito a concepire opere improntate a una profonda soggettività espressiva.
Descrive inoltre il mondo degli umili, delle classi popolari, il tutto tratteggiato con toni veristici, anche se la stagione del verismo sta per esaurire la sua forza narrativa.
A livello formale, dal verismo riprende una narrazione oggettiva, lì dove la scrittrice si allontana dal proprio punto di vista per adottare quello dei suoi personaggi.
“Infanzia! È forse questa una parola magica e misteriosa, un geroglifico orientale, inteso indistintamente dall’anima, dalla mente, dal cuore, nei quali desta ricordi soavi, dolcissimi, benché sfumati tra le nebbie del passato, e sorrisi vagolanti e dolci come quei ricordi, e sussulti di rimpianto e dimenticanze del presente?” – da Memorie Infantili
La Sardegna, isola aspra e di primordiale bellezza, archetipo di tutti i luoghi, è l’ambientazione in cui si collocano quasi tutti i drammi descritti dalla Deledda. Un’isola remota e un mondo millenario, un luogo dove persistono abitudini e tradizioni arcaiche su cui pare aleggiare una sorta di alchimia misteriosa.
Le sue opere sono infatti pregne di un’atmosfera insolita che spira sull’isola, tanto che la stessa, insieme ai personaggi narrativi, plasmati nell’essenza della realtà che appartiene loro, assume il ruolo di protagonista. Perché nel paesaggio, secondo la concezione narrativa della scrittrice, è palpabile la presenza di creature soprannaturali con le quali i soggetti da lei descritti interagiscono grazie a oggetti e riti.
Primitivo è il loro carattere, intenso e passionale, che in alcune circostanze li può portare a commettere atti violenti, accompagnati poi da un inevitabile e cocente senso di colpa. Uno stato d’animo dovuto allo smarrimento delle coscienze, perplesse e ottenebrate, animate dalla consapevolezza dell’inevitabilità del fato, che interviene sulla natura dell’uomo lacerata tra bene e male.

Perché la natura umana è luogo di pulsioni e di trepidazione, ma anche di predestinazione. Impulsi che arrecano angosce perché i personaggi vengono schiacciati dal peso della colpa; ed è solo portandola alla luce che l’uomo prende coscienza del male.
“Io racconto di donne e di uomini” – Grazia Deledda
Interprete dei costumi e della vita della sua gente, la Deledda rappresenta dunque gli istinti primitivi di personaggi ripiegati su se stessi e dominati da credenze popolari, superstizioni e preconcetti generati da un pensiero antico. E dove, nascosti fra le pieghe della vita, abitano sentimenti controversi ragione di disorientamento esistenziale e di subbuglio dell’anima.
“Ci sono molte donne che vivono nel ricordo di un amore fantastico, e l’amore vero è per esse un mistero grande e inafferrabile come quello della divinità” – Cosima, 1936
Poetica del tutto originale quella della Deledda, nella quale convergono elementi ancora tardo-romantici, dove si evince la vocazione a ricomporre un’immagine della natia Sardegna da un punto di vista autobiografico e idealizzante, sia per la religiosità popolare sia per il folclore locale, aspetti questi che manifestano ulteriormente i principi su cui poggia la narrativa della scrittrice.
Dove la religiosità si traduce in una sorta di cristianesimo arcaico, un’immagine esoterica secondo cui la natura selvaggia dell’isola sarebbe pervasa da una misteriosa presenza divina, principio da cui traspare la natura lirica dell’ispirazione creativa della Deledda. Motivo per cui le rappresentazioni ambientali diventano trasfigurazioni di memoria.
“Il mattino d’agosto era purissimo: il giorno prima aveva piovuto, e nel bosco regnava una dolce frescura: le felci, l’erba, i tronchi, le rocce lavate, esalavano un profumo quasi irritante; la brezza dava marezzi argentei alle chiome degli elci; il cielo sorrideva azzurro come un lago negli sfondi sereni” – Mattino d’estate
Le tematiche ricorrenti nelle opere della Deledda sono molteplici: un’etica patriarcale del mondo sardo, la presenza del fato che governa l’esistenza umana, che perciò è preda di forze superiori, dove le fragili vite degli uomini sono come canne al vento.
A questi temi se ne intrecciano altri, tutti di uguale intensità. La dicotomia fra amore e passione, il senso del peccato, il bisogno dell’espiazione in una concezione mistica della vita. A suggellare il tutto un’atmosfera colma di affetti intensi e selvaggi. Perché la speculazione cara alla Deledda, su cui si sofferma spesso, è quella della vita vera: forti vicende d’amore, di dolore e di morte, su cui spirano la percezione del peccato e della colpa in un abisso dell’anima, oltre che la consapevolezza dell’ineluttabilità, antichi e millenari retaggi culturali.
E ancora, la Pietas, intesa come partecipazione compassionevole verso tutto ciò che è mortale, sentimento che induce al perdono e alla redenzione, e condizione emotiva atta ad esorcizzare il male.

È con queste premesse letterarie che nell’opera della Deledda affiora la crisi dell’esistenza nata sul finire dell’800, momento storico in cui si riponeva totale fiducia nel progresso. Principio questo che la avvicina al decadentismo. Se ne può concludere quindi, che l’opera della Deledda, pur assumendo un carattere del tutto personale, è da collocarsi fra verismo e decadentismo.
A proposito delle figure femminili, squisitamente profonde, e tratteggiate con penna particolarmente felice, la scrittrice ne fa dei modelli, degli esemplari accomunati da rimandi che le innalzano a ‘personaggi’ superiori alle figure maschili, in virtù anche del loro ruolo di dispensatrici di forza e vigore, nonché di vita.
Se Luigi Capuana apprezza la scrittrice, Pirandello invece ne critica l’operato letterario, in quanto donna. Così come i suoi conterranei che l’hanno spesso in antipatia. Forse, perché attraverso le sue descrizioni e la forte tensione narrativa impressa alle sue fatiche letterarie ha raccontato di una Sardegna arretrata.
Ma, per cogliere il significato profondo della produzione della Deledda, è d’obbligo citare alcune sue opere, quelle che più di altre la contraddistinguono.
Canne al vento, del 1913, è la sua opera più nota. Romanzo dalla scenografia intensa e dalle descrizioni vivide, il quale identifica la scrittrice come un’intellettuale dall’indubbio valore letterario.
Ne La madre l’autrice pone l’accento su sentimenti forti ed elementari, il cui tema dominante è la corruzione e il pentimento.
Elias Portolu, pubblicato nel 1903, il cui focus è il dramma spirituale, connesso a quello del rimorso e dell’espiazione. Romanzo in cui la scrittrice manifesta uno stile sobrio rispetto ad altre opere, lasciando ampio spazio alla psicologia dei personaggi.
Nonostante appartenga a un tempo ormai distante dal nostro, la scrittura della Deledda è visiva: non solo descrive personaggi e situazioni, ma li fa vedere attraverso una scrittura cinematografica che ben si adatta a questo potente mezzo.
Da ricordare, a questo proposito, il film Cenere, tratto da un suo romanzo e interpretato da Eleonora Duse, non portato a termine a causa dell’approssimarsi della guerra.
“Se vostro figlio vuole fare lo scrittore o il poeta sconsigliatelo fermamente. Se continua minacciatelo di diseredarlo. Oltre queste prove, se resiste, cominciate a ringraziare Dio di avervi dato un figlio ispirato, diverso dagli altri”. – Discorso di Grazia Deledda in occasione della consegna del Premio Nobel per la letteratura
Written by Carolina Colombi
Info
Life After Death – l’incontro tra Grazia Deledda e Luigi Pirandello