“Dal profondo dei nostri sospiri” di Francesco Paolo Catanzaro: sentirsi luce e spirito, alito e fuoco
“E si smarrisce il tempo/ dopo aver contato le stelle” – Francesco Paolo Catanzaro

Dal Profondo dei nostri sospiri di Francesco Paolo Catanzaro costituisce, già di per sé, un ottimo biglietto da visita per la Tomarchio Editore. Risultata vincitrice in seguito al Contest nazionale di poesia Free Poetry organizzato la scorsa primavera dalla neonata casa editrice siciliana, la raccolta è stata pubblicata lo scorso luglio.
Anche il curriculum letterario di Catanzaro, insegnante palermitano di Lettere nella scuola media, costituisce una garanzia per la quantità e per la qualità che si evincono dai vari titoli riportati alla fine del libello.
Quest’ultimo consta di ottantadue liriche, diverse per contenuto e struttura, ma tutte accomunate da alcune caratteristiche comuni quali l’assenza di titolo, l’uso parsimonioso della punteggiatura, in particolare delle virgole che, quando mancano, producono l’asindeto e tutti gli effetti ad esso correlati, quando invece sono presenti assumono, proprio in virtù della loro rarità, particolare rilievo, la coabitazione di scelte lessicali più studiate e termini di uso più comune.
In tal senso, un lemma abbastanza ricorrente è “equoreo”, aggettivo dal latino aequor che, per il Vocabolario della Lingua latina Castiglioni-Mariotti, significa ‘superficie piana fatta di terra, d’acqua o d’altra sostanza’, e quindi ‘pianura’, ma anche ‘mare’, o semplicemente ‘acqua’.
Equoreo in italiano è detto ‘del mare’ (Dizionario Zingarelli) e Catanzaro lo impiega accanto alla parola “emozione” nella lirica numero 23 per connotare lo stato d’animo cangiante e mutevole di chi si trova in un paesaggio marino (per Omero il mare è cangiante tout-court); lo adopera ancora accostato a “tavola” (nella lirica 67) a designare il mare, specchio ideale in cui cercare, con nostalgia, l’orizzonte nel tempo in cui “un virus dimostra la nostra fragilità”; lo riprende, infine, nella lirica 69, accanto al sostantivo “pianura” vista come luogo metaforico dove si trovano “frammenti” di esistenza umana.
Co-protagonisti dei componimenti del poeta siciliano sono la natura e l’uomo, parti inscindibili di un Tutto sicché si può parlare, a buon ragione, di Panismo. Un esempio è dato dalla poesia numero 26 che, dopo due strofe caratterizzate dalla presenza incipitaria di due verbi all’infinito seguiti da complementi oggetti evocativi di elementi della natura (“Vedere un albero”; “Guardare le nuvole”), dalla terza in poi fino alla fine prosegue così: “Osservare il proprio cuore/ e scoprirsi cielo e soffio/ nuvola e profumo/ in questa immensità che conforta/ e prega per il futuro che si volge.// Ecco la nostra missione:/ sentirsi luce e spirito/ alito e fuoco.// E scoprirsi ogni giorno/ corpo che s’emoziona”.

All’interno di questa possibile chiave di lettura, va comunque evidenziato che i testi presenti all’interno della prima metà del volume mettono a tema soprattutto la Natura (in cui è immerso coralmente l’io-lirico), mentre in quelli presenti nella seconda metà prevale uno stile più narrativo, atto a fare la cronaca dei drammi dell’attualità, primo fra tutti, quello degli sbarchi di migranti innocenti, che non può passare inosservato agli occhi di un testimone quale può essere il nostro poeta.
A questa tematica se ne accostano altre pure di grande attualità, ad esempio nella lirica 44: “perché soffia un vento che è polvere/ ed innesta razzismo ed egoismo, business e gioco/ d’azzardo/ … come cardini sacrali della società degli smartphone”, oppure nella 48 mediante il ricorso a vari asindeti accumulativi: “Diedero voce ai barboni agli esclusi ai migranti”.
La cronaca è narrazione e la narrazione presuppone la parola, proprio come la lirica. Entrambe sono espressione della parola umana: quest’ultima implica il respiro perché l’atto del parlare necessita della voce e la voce, in quanto suono, è emissione di aria.
Per questo “sospiri”, incluso nel titolo della silloge, è un termine-chiave, ricorrente, non a caso, nella poesia che chiude la raccolta: “I sospiri sono frammenti d’amore,/ che ricomposti non sono più gli stessi/ di quando li aveva prodotti l’emozione.// Dal profondo dei nostri sospiri/ emergono le nostre speranze”. Come dire che dall’oscurità viene la luce.
A conclusione, infine, non posso non far notare che uno dei paesaggi più cari all’autore è quello lunare, molto frequente nei versi. Sarebbe impossibile dar conto di tutte le volte in cui essa viene evocata; mi limito a segnalare l’incipit della lirica preposta ad apertura del volume: “Nel buio che profuma/ di assenza/ rispolvero le stelle ed i passi della luna,/ inargentandomi con essenze d’oriente”.

Questo passaggio risulta, a mio avviso, esemplificativo sia dell’accostamento con le stelle, anche questo reiterato nei testi successivi, sia dell’impreziosimento lessicale conferito dal verbo “inargentandomi”, metamorfosi possibile solo in virtù di Selene.
Il seguito di questa poesia analogamente alle successive conferma quella costante ricerca di composizione fra i vari elementi del Tutto, gli abissi e i vertici, “il fango” e “il verderame del cielo”, cifra portante, del resto, degli ottantadue componimenti ospitati nel grazioso libello.
Buona lettura di speranza e ad maiora, semper!
Written by Filomena Gagliardi
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