“Un eroe del nostro tempo” di Michail Jurevič Lermontov: il tempo altrui ritrovato

Il medico, ubriaco, che si stava occupando della ferita che Bela aveva ricevuto da quel circasso, che più che rapirla, la voleva rubare (quei tipacci sono dei ladri, che “rubano anche senza alcuna necessità”) e che l’accoltellò quando si vide perduto, non azzeccò la previsione che non sarebbe sopravvissuta più di un giorno: “Il medico si sbagliò, perché ella visse ancora due giorni”.

Un eroe del nostro tempo
Un eroe del nostro tempo

Bela è una giovane cecena che Pečorin acquista e sposa, dopo averla scambiata con un cavallo (lei è “alta e sottile”, con due occhi neri “da camoscio di montagna”; il cavallo “era oggetto di invidia” e più di una volta avevano tentato di sottrarglielo), e di cui poco appresso si tedia, come, prima o poi, di ogni altra cosa, preferendo “cacciare la selvaggina” piuttosto che rimanere a casa e guardarla in quegli occhi, sì particolari, ma che rimanevano ogni giorno gli stessi.

Quando ella muore, il marito non mostra particolari segni di dolore. Forse un po’ gli dispiace, ma non lo dà troppo a vedere.

A parziale scusante di tale comportamento è la tendenza di Pečorin a stancarsi inevitabilmente di ogni cosa: “Speravo che sotto i proiettili dei ceceni, non potesse esistere la noia, ma invano…”

L’io narrante della prima parte del romanzo è un viaggiatore come tanti, che s’imbatte in Maksim Maksimyč, che è il secondo io, a cui racconta alcune storie di un certo Pečorin, suo commilitone, il quale poi diventerà il terzo e definitivo io.

Nella successiva parte, era capitato che il viaggiatore aveva incontrato di nuovo Maksim e, per la prima e ultima volta, l’eroe del romanzo, Pečorin, a cui sembra quasi passare il testimone. Anzi: i due sembrano scambiarsi le reciproche funzioni.

Lo scrittore diventa viaggiatore, e viceversa. Pečorin e l’anonimo viaggiatore entrano in collisione orbitale, rimanendo per sempre entangled. E tutto questo senza che se ne accorgano.

Il viaggiatore esibisce poco di sé; se non un malcelato, seppur sobrio, cinismo. Sembra che ogni evento della storia avvenga soltanto perché lui ne possa prendere atto, per consegnare a noi il documento finale, che sto leggendo ora. Egli è un semplice e innocente tramite, e poco più.

Le narrazioni di Maksim e del viaggiatore avvengono in tempi diversi da quella di Pečorin, la quale fu scritta in alcune carte che lo stesso aveva affidato, chissà perché, a Maksimyč, il quale le consegna, chissà per quale motivo, al viaggiatore che, prima o poi le spaccerà come di propria invenzione letteraria, per “mettere il mio nome sotto l’opera di un altro.”

Per questo motivo, la notizia della morte di Pečorin, al ritorno dalla Persia, pare rallegrarlo (così egli dice nella prefazione al diario di quest’ultimo), così nessuno potrà più ostacolargli la pubblicazione.

Egli pare ignorare che un altro, Michail Jurevič, curerà la prefazione di un altro libro, che includerà tutti: viaggiatore, Pečorin e Maksimyč. Si tratta di un continuo ritrovamento di un tempo perduto da altri, che è assolutamente privo di qualunque ricerca, che è perciò casuale, esattamente com’è la vita.

Pečorin-Maksimyč-Viaggiatore-Lermontov-Pioli: è l’equazione che conduce a questa mia incerta scrittura. Una parte dell’anima del primo è scesa sul secondo, poi sul terzo, poi sul quarto e infine su di me. Poi toccherà sempre a qualcun altro, se il gioco funzionerà, come mi auguro, in eterno.

Maksimyč chiede, quasi disperato, a Pečorin cosa debba farsene di quelle certe carte: “Ciò che volete!” rispose Pečorin. “Addio!

Come definire il buon (per modo di dire buon) Pečorin? Se si volesse sintetizzare, viene da dire che è uno che punta l’occhialetto su tutto quello che lo circonda. Acquisisce l’informazione dell’oggetto, lo assaggia e infine lo posa dove capita.

Esco ora un attimo dal romanzo e m’infilo nel racconto Ŝtoss, che è in appendice allo stesso: “Si dice che la curiosità abbia rovinato il genere umano: anche oggigiorno è la nostra passione principale, tanto che tutte le altre possono considerarsi derivate da essa.”

Il protagonista del racconto, Lughin, è un’ipostasi di Pečorin, del viaggiatore e anche, presumibilmente, di Michail.

Di sé, Pečorin dice che non si è mai fatto assoggettare da nessuna donna (a differenza di quel Filippo di Schiavo d’amore, che da poco mi è capitato di conoscere), semmai il contrario, e spesso tutto comincia casualmente, puntando l’occhialetto: “Forse perché io non ho mai tenuto caro nulla…

La sua è una tattica spontanea e ineludibile:Rido di tutto, al mondo, io, in specie dei sentimenti.” Non sa perché lo fa, ma lo fa: “Spesso mi chiedo perché con tanta ostinazione cerco l’amore di una giovane fanciulla che non voglio sedurre e che non sposerò mai. A che scopo, dunque, questa civetteria, tutta femminile?

Perché Pečorin scrive?

Questo diario lo scrivo per me e perciò tutto quanto gli affido mi sarà un giorno prezioso ricordo.”

Si è visto poi che, alla fine, com’era prevedibile, non ci teneva troppo. Anche quei ricordi lo stanno debilitando e devono essere gettati in quel vortice che continuamente si ricrea nella sua turbinosa vita.

Prima ancora di mettere in atto le sue tattiche amorose, ne conosce già l’esito: “Tutto, ormai, lo so a memoria… ed è per questo che lo trovo noioso!

Quale sarà il mirabile fato del nostro valente eroe?

“Morire si deve: non sarà una gran perdita per il mondo e io stesso comincio a essere stufo. Sono come uno che sbadiglia al ballo, ma non va a dormire solo perché non è ancora venuta la sua carrozza. Ma ecco che la carrozza è pronta: addio!”

Più splendide ancora sono le assurde definizioni, che trasmette un non meglio specificato capitano al prossimo morituro di un duello-farsa, che finisce più tragicamente del previsto: “Tutto al mondo è assurdo… La natura è stupida, il destino è un tacchino e la vita non vale un soldo!”

Pečorin non è un nichilista, ché non li hanno ancora inventati, è un nullista, meglio: un quasi nullista, e ‘sto penoso avverbio lo fa ogni tanto fremere un po’.

Sopravvissuto con l’inganno al duello, a Pečorin stramazza il cavallo e lui si mette a frignare come un bambino, l’unica vera emozione che mostra al lettore: “L’anima mia non aveva più forza, la ragione taceva, e se in quel momento qualcuno mi avesse visto avrebbe con disprezzo voltato il capo da un’altra parte.”

Michail Jurevič Lermontov - 1837
Michail Jurevič Lermontov – 1837

Non io, amico bello, non chi mi ha raccomandato il tuo libro. Né chissà quanti altri, immagino.

“Io sono come un marinaio, nato e cresciuto sul ponte di una nave pirata, la cui anima si è familiarizzata con le tempeste e le battaglia, e che lasciato sulla riva si annoia e intristisce…”

Noi, dice, e ci include tutti… “passiamo con indifferenza da un dubbio a un dubbio, come i nostri antenati passavano da un’illusione a un’illusione, e non abbiamo, come essi avevano, né speranze né quel vago ma sincero piacere che l’anima incontra in ogni lotta con l’uomo o col destino.”

Nella sua prima giovinezza egli provava speranza, ma di quel sentimento gli è rimasto solo una vaga stanchezza, “soltanto stanchezza come dopo una lotta notturna contro un fantasma.”

Quando finalmente morì, al termine del suo secondo e ultimo duello, l’autore (torniamo a lui) aveva l’attuale età di mio figlio: 26 anni compiuti.

Non sono riuscito a stabilire con lui un’empatia come con chi scrisse quel romanzo che ho poco sopra citato: la cosa non risulta facile quando l’autore è una parte dolorosa e disgraziata di te.

Lermontov è un giovane ironico e provocatore, e la cosa gli ha recato per tutta la vita una serie di fastidi, fra cui la morte.

Non è granché bello, Michail. Turgenev, che lo incontra a un ballo rimase colpito dal balenio dei suoi occhi e dalla sua espressione fiera e distaccata, nonché dalla sua bassa statura e dalle sue gambe storte.

Così l’autore, anzi, il viaggiatore dice di Pečorin: “Anzitutto erano occhi che non ridevano quand’egli rideva! Questo è un segno o di cattivo carattere o di profonda, costante tristezza.”

La foto che è posta a corredo del profilo storico-critico dell’autore e dell’opera, mostra uno sguardo votato fatalmente al prossimo nulla. Non indifferente, diciamo rassegnato.

L’antagonista amoroso di Pečorin viene da questo ucciso al termine di un duello quasi ridicolo. Quando capiterà a Michail, il suo corpo verrà abbandonato a se stesso per alcune ore, quando una tempesta furiosa farà scappare i secondi alla ricerca affannosa di una carrozza.

Sulla diatriba a proposito del carattere romantico o realistico dell’opera, ho poco da dire se non che non m’interessa. Pochi libri mi sono parsi drammaticamente esistenziali come quello di cui sto redigendo ‘ste misere note. L’unico paragone che mi viene in mente è L’Ėtranger. Peccato che i due fenomeni non siano mai venuti a contatto.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Michail Jurevič Lermontov, Un eroe del nostro tempo, Garzanti, 1977

 

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