“I quaderni di Malte Laurids Brigge” di Rainer Maria Rilke: disagio mentale e caos immaginativo
A circa un terzo del romanzo “I quaderni di Malte Laurids Brigge”, decido di iniziare a reagire per iscritto, entrando definitivamente in circolo, avendo superato finalmente la linea dell’orizzonte degli eventi.
Per chi mi osservasse dall’esterno io figurerei come immobile, impietrito, inerte, congelato, fissato per sempre nella Storia, invece sto ruzzolando sempre più inevitabilmente e rapidamente nell’Orrido Buco.
Il rientro è ormai assolutamente non ipotizzabile. I ricordi sono stati cancellati, anzi, unificati nella Singolarità. Adieu, Mondo Personale. Ora esiste solo il Mondo Altrui.
Le parti sottolineate fino a questo punto erano tante, troppo, eccessive: tutto fu tanto, troppo, eccessivo in questo libro.
“Non voglio più scrivere neppure una lettera. Perché devo dire a qualcuno che sto mutando in me?”
Anch’io mi pongo di sovente questo penoso interrogativo. Poi qualcuno, o qualcosa, decide per me (e, immagino, anche per Malte Maria).
“L’ho già detto? Io imparo a vedere. Sì, incomincio. Va ancora male. Ma voglio mettere a profitto il mio tempo.”
Il tempo è un’illusione fra le più angoscianti.
Mi pare di rimembrare (o un falso ricordo?) che sulla scrivania mi sta aspettando un tomo intitolato Neurobiologia del tempo vergato a mano da un certo Arnaldo.
Da qualche parte della libreria giace insepolto, The end of time di Julian. Poco più oltre, mummificato, ostacola il cammino del viandante Breve storia del tempo di Stephen e, poco appresso, sta forse ancora agonizzando Che cos’è il tempo? Che cos’è lo spazio?, mentre ha appena finito di singultare il suo non meno misero fratellino L’ordine del tempo, i due ameni virgulti di un certo Carlo.
Il tenero consanguineo Christoph Detlev Brigge “là, giaceva ora”.
Ora!
Poi si ode una voce.
“Non era Christoph Detlev la cosa cui apparteneva quella voce, era la morte di Christoph Detlev.”
“… gridava, gridava e gemeva forte, mugghiava così a lungo e incessantemente che i cani, i quali avevano cominciato a farle coro ululando, ammutolivano e non osavano accucciarsi…”
La morte di C. D. “non si lasciava far fretta. Era venuta per dieci settimane, e dieci settimane restò”.
Era “la morte cattiva e principesca che per tutta la vita il ciambellano aveva portato dentro di sé e nutrito di sé.” Quasi fosse una figlia…
“Egli morì la sua pesante morte.”
“Tutti avevano una propria morte.”
“Perfino i bambini, i più piccoli anche, non avevano una qualsiasi morte infantile, ma si raccoglievano in sé e morivano quel che già erano e qual che già erano divenuti.”
Vorrei citare ogni singolo passo ma sento che ciò non è consentito dalla normativa vigente.
“Ho fatto qualcosa contro la paura. Sono rimasto l’intera notte a sedere scrivendo…”
“È il poeta che io sarei voluto divenire…”
“Falsifico la verità, quando dico questo…”
“Ancora per un poco posso scrivere e dire tutto…”
“Ma questa volta io sarò scritto. Io sono l’impressione che si trasformerà.”
“Non riesco a ricordarmi…”
“Era sera e mi smarrii…”
“… c’erano nomi che non conoscevo…”
“Non sapevo in quale città mi trovassi…”
“L’angoscia che un piccolo filo di lana…”
“… l’angoscia che questo bottoncino…”
“… l’angoscia che questa briciola di pane…”
“Ho pregato per avere la mia infanzia, ed essa è tornata, e sento che è ancora sempre dura come un tempo e che non è servito nulla invecchiare.”
“Cerco di scriverti, sebbene in realtà non ci sia nulla da aggiungere dopo un addio necessario.”
“… tutto è troppo nuovo. Sono un principiante anche nell’essere me stesso.”
“L’esistenza del terribile in ogni particella nell’aria…”
“O notte senza oggetti…”
Malte Rainer, avverte il traduttore, il per sempre sconvolto Furio Jesi, omette sempre i normalmente necessari punti esclamativi. Per lui sono pleonastici. Quel che pare normale a lui è abnorme per gli altri. E viceversa.
“Accendi un lume, e già il rumore sei tu. E tieni il lume dinanzi a te e dici: sono io, non aver paura.”
“Tu, il più solitario, il più appartato…”
Tu, caro amico, il più norvegese di tutti i miei io.
Fra gli oggetti e i soggetti esterni si crea una comunicazione magica rivolta a tutti gli oggetti e i soggetti interni, che crea una confusione che permette all’io narrante di sentirsi vivo, anche se sofferente. Oppure: angosciato, sebbene sopravvissuto in quel magico marasma.
“Appena avevo indossato uno di quegli abiti, dovevo riconoscere che ero in suo potere; che mi prescrivere i gesti, l’espressione del viso, persino le idee; la mia mano, sui continua a cadere il polsino di pizzo, non era affatto la mia solita mano; si muoveva come un attore, sì, si può dire che osservava se stessa, per quanto esagerato sembri.”
“… davanti allo specchio. Il volto che mi misi aveva un odore stranamente vuoto…” e che dava perciò un’impressione tattile, perché i sensi sono ora semplicemente confusi.
“Fu davvero grandioso, oltre ogni aspettativa. Lo specchio rimandò istantaneamente l’immagine, era troppo convincente.” Molto emozionante, cosa da non tutti i giorni, specchiarsi e vedere qualcun altro.
“… cercai di vedere attraverso la maschera il lavorio delle mie mani…”
Etimologia di maschera: dal latino medievale masca, strega. Poi con il significato annesso di fantasma, aspetto camuffato al fine di incutere paura.
Maschera in latino si dice persona: per sonar, risuonare attraverso la maschera di legno.
Per quanto Malte Marie fugga non potrà svincolarsi da quella persona a cui è correlato dalla nascita.
La sua immagine esterna entra in relazione e in reazione con quella che è interna: simboli, figure, icone, il cui movimento crea interazione, che diventa conflitto in quanto fenomeno oscuro, imprecisato e che conduce a uno spostamento di effetti e di affetti di cui di possono cogliere incerte sensazioni, senza che sia permessa un’indagine che rechi risultati corretti e definitivi, bensì indeterminati. Quest’angustiante impossibilità di certezza crea immane disagio mentale e caos immaginativo.
Che l’immagine conti più della storia della persona emerge quando: “il mio interesse cambiò e, in seguito a certi avvenimenti, si fissò continuamente su Christine Brahe, stranamente non mi sforzai di conoscere della vita di lei.”
Assai curioso sarebbe parso l’accadimento contrario.
“Mi preoccupava invece si sapere se nella galleria ci fosse il suo ritratto. E il desiderio di accertarmene crebbe così esclusivo e tormentoso che per più notti non dormii, finché, completamente inaspettata, giunse quella in cui io, Dio sa perché, mi alzai e salii con il mo lume, che mi sembrava avere paura.”
Solo Dio lo sa chi e in che misura avesse paura. Il problema è proprio la misura, che non è più possibile quando l’evento è unico e irripetibile. Se a tutto il cosmo sottrai tutto il cosmo il risultato è nullo. Anche questo è un problema mica piccolo.
I quaderni di Malte sono appunti esistenziali in cui si annotano gli eventi che lo turbano ogni qual volta egli viene a contatto, interagisce con qualche Oggetto. La forza gravitazionale ne turba gli equilibri e lo pone in un susseguirsi frastornato di piani differenti da quelli precedenti.
È quello che scorre abitualmente nella vita di tutti noi. La differenza rimane solo nell’incapacità che ormai abbiamo di stupirci davanti al miracolo.
Malte Marie non riesce a non farlo, né in stato di veglia, né mentre dorme.
“Seppi immediatamente che l’immagine che mi ero fatta era senza valore.”
Capisce ogni volta di essere scombussolato dalla descrizione della particella osservata. Il solito, miserabile, principio di indeterminazione di Werner Karl.
Quel che è rilevabile, quindi quel che esiste, è soltanto la mutua osservazione.
“Non avevo colto né l’angolo di inclinazione del suo portamento né l’orrore con cui il lato interno delle sue palpebre sembrava riempirlo di continuo.”
Si può giungere, con quel che si ha, a conclusioni inaspettate (e molto dubbie).
“Dio mio, pensai d’impeto, dunque tu sei così! Ci sono testimonianze della tua esistenza. Le ho dimenticate tutte e non ne ho preteso mai nessuna, perché quale impegno mostruoso sarebbe implicito nella certezza che tu sei!”
È una ricerca che non si può evitare, ma a cui non ci si riesce a rassegnare.
Come succede a chi ha bisogno di un lavoro per vivere, eppure sa che questo lo destabilizzerà, gettandolo in strada, mischiato a tutti gli altri. E quello, obtorto collo, si dovrà adeguare alla cosiddetta normalità, con quanto ne consegue.
Malte Marie dice di essere angosciato dalla morte. “Mi sorprendeva in piena città, in mezzo alla gente, spesso senza alcun motivo.” Esso era ammucciato dentro quella città, quella gente, in quel suo sentirsi immerso dentro di essa. Nella solitudine ci si immagina a talvolta di essere immortale, ma quel sogno idiota rivela delle crepe profonde quando ti senti uno, nessuno e centomila al contempo.
Egli ri-evoca, ri-corda e ri-crea taluni eventi storici che coinvolgono personaggi Carlo il Temerario, Carlo VI l’Insensato, Marina Mnišek, un falso Demetrio, anzi due, improbabili figli di Ivan il terribile, il conte von Bernstorff, quello di Saint-Germain e mille altri impostori della Storia, e questa è la parte che meno mi appassiona dei Quaderni.
È colpa mia, esclusivamente mia, lo ammetto. Non del disgraziato Malte Marie, che anzi di sicuro compie un ottimo lavoro di ri-costruzione, reificazione ri-stravolgimento dei fatti, eccetera eccetera.
Più affine è quando avvicina la sua (e la mia) anima a quella di Louise Labbé.
Difficile è rivelare come i quaderni finiscano, quando è un mistero insondabile il perché siano cominciati e perché a metà cammino al lettore non pare di essere giunto da alcuna parte.
Oltretutto, e poi non mi si dica che non ho avvertito, in questa ignobile avventura non è consentito volgere indietro né lo sguardo, né compiere qualsiasi altro rimembramento sensuale.
Quel che è stato è stato, in quanto il tempo, con tutti i suoi afrori, è deceduto anch’esso, assieme al padre di Malte Marie.
Se poi lo si vuol fare c’è una chance: scrivere un altro tomo.
Questo è il libro dell’entanglement, della correlazione, fra autore e io narrante, fra quest’ultimo e io lettore, e fra questi tre e le cose che continuamente esercitano potere attrattivo (olfattivo e tattile per lo più) e repulsivo fra di loro.
A questi soggetti si insinua a un certo punto un quarto, appunto quel drammaturgo norvegese che di nome fa Henrik, che è la goccia che fa traboccare il suddetto entanglement.
Dopo di cui si affacciano nella Storia numerose nuove misteriose particelle, sorte d’incanto, una delle quali si chiama Robert (Musil) e l’altra, mi pare, Georges (Batailles).
E infinite altre, non qui citabili, in un flusso energetico ormai incontrollabile.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, Garzanti, 1974
Sono a pagina 33. Pur amando molto il poeta, queste poche pagine melanconiche mi appaiono come generate dal pensiero, dalla coscienza che fluisce, in ordine sparso. La scena della cena nella dimora padronale del nonno, tuttavia mi ha sorpreso. Io credo di averla già vista, ricordo perfettamente la sala, il ragazzino e il fantasma della donna morta che si muove attraverso lo spazio. Chissà in quale film si trova, se di film si tratta. Bella recensione, complimenti. Spero di arrivare alla fine.
P.s. scusa il pasticcio
I pasticci sono sempre indice di varietà e fantasia. Grazie a te