“Lampadari a gocce” di Savina Dolores Massa: navigare nell’inquietudine affabulante
Si apre su un respiro quasi conradiano Lampadari a gocce, ultimo affascinante romanzo di Savina Dolores Massa.
Il ritmo dei passi di un giovane marinaio, “eterno figlio del mare misterioso”, ci avvolge subito in una impenetrabile coltre di amara malinconia.
Reale nella sua consistenza quanto il ventre della “vecchia bestia malata” che lo ha scaricato sul molo. Una nave in rotta, che profuma di marcio e alghe essiccate, ma porta un nome altisonante, retaggio di un passato glorioso: Casta diva.
Sa presentarsi ancora fiera nei moli di mezzo mondo, ma stavolta ha bisogno di essere rappezzata, per continuare a trasportare casse, e rimarrà ormeggiata per un po’. A Gibilterra, che nei secoli è stata sempre una porta per l’altrove.
L’autrice ci conduce lontano, con un viaggio di spola che annoda il vecchio mondo alla linea d’ombra del 31° parallelo 20′ N. Ma in pochi giorni anche Gibilterra, fata Morgana destinata a evaporare, svanirà all’orizzonte. “Casta diva navigherà con il suo carico di sofferenza umana, generosa nell’impregnarne i ferri”, per insegnare ai suoi uomini a essere figli di se stessi. Andrà in acque capaci di far marcire ogni radice e ogni appartenenza.
La nave fa da utero, ventre e bara per il suo equipaggio che ha scelto “di scomparire esistendo” nella certezza che l’unica sopravvivenza possibile sia quella privata dei desideri.
I suoi occupanti, che provengono da ogni parte del mondo, hanno pelli che vanno dallo scuro del messicano Notturno al bianco in tutte le sue sfumature. Sino al rosso Irlanda di Ruben, al color latte pronto a sfaldarsi sotto il sole del norvegese Andreas. Tutte indurite, però, dallo sforzo di negare la fragilità.
“Tra ruoli da ricoprire e da scambiare. Anime cucite e ricucite da aghi senza sosta”. Vite strappate con i denti del coraggio o della viltà. Che si affidano alla farsa per vincere il dolore. Pronte solo a osservare gli occhi della notte nelle città del mondo.
Lingua universale, il silenzio.
Fuggiaschi, tutti, non in balia delle onde ma di se stessi.
“… La vita raccolta in deboli luci a molte miglia di distanza… Replicanti di un’agonia deliberatamente prescelta…”
E la sfida all’ignoto si consuma, non tra le tempeste e le bonacce, ma tra l’incanto e i gorghi della memoria, le inquietudini della coscienza, gli spettri delle ambiguità, i lacci della vergogna; tra melodie di sartiame, aspetti tecnici della navigazione e segnali del mare e del cielo.
Labili e incerti, i confini di bene e male, nel labirinto di un sé dove tutto si aggroviglia e che è reso dalla straordinaria capacità dell’autrice nel trasformare in pensiero libero tutto l’orrore e lo sgomento che solo la vita può offrire.
Il senso di colpa degli innocenti, la torsione che ogni trauma sa imprimere all’anima, la violenza inflitta dagli stereotipi.
La mente come scatola nera, nella consapevolezza che ogni messaggio estetico è politico. E che non sappiamo più immaginare ciò che non rientra nella concettualità, o, meglio ancora, nella funzionalità.
I versi in exergo di Octavio Paz, autentica chiave di interpretazione dell’opera, sono un invito a sfarinare i confini tra realtà e immaginazione.
Savina ci guida nel percorso con la seduttività di una scrittura inarrivabile e la forza abrasiva di una voce capace di produrre feconde sconnessioni nel tracciato imprevedibile del pensiero.
Affiora, in quest’opera, tutto lo stralunamento esistenziale di chi, nato nel fango d’antica palude in Campidano, non intende estetizzare o strumentalizzare alcuna realtà.
Dettagli di geografie interiori, in lei si definiscono attraverso contrasti e frantumazioni le cui asperità sfociano in una musicalità istintiva modulata dalle spirali del suo DNA narrativo, di una genealogia anarchica declinata al femminile.
“Perché sono diventata donna con i racconti di mia nonna, dice sempre.”
I suoi caleidoscopi sanno essere essenziali come bisturi, capaci di dare forma, colore e consistenza all’indicibile. Senza mai farsene travolgere.
In quest’opera lo sguardo universale dell’autrice abbraccia un mondo senza confini, liberando i luoghi da ogni oleografia e colore locale.
In un filo di spola tra Gibilterra e un Messico dove uno straordinario genius loci, con le sue magie, impollina sapori, odori, colori, musiche e parole per creare gorghi inebrianti; dove la miseria si combatte con la preghiera in uno straordinario sincretismo di eredità atzeche e religiosità cristiana.
In questo luogo dove il Carnevale muore “addolorando a colori le strade”, spargendo “le ceneri calde della mezzanotte.” Che può imprigionare un sogno d’amore negli occhi di un cane azzurro.
È in Messico che vive Izta, straordinario motore e radice della storia narrata, donna e divinità ctonia sospesa tra passato e presente, imprigionata in una profezia di tredici no. Porta il nome di un vulcano spento, “cavo contenitore di braci”, e brucia di fiamme roventi, ma è fatta dei colori della vita. È un ricamo di leggende, un groviglio di istinti e di istanti.
Per vivere allestisce e disfa misteriose e suggestive “camere mondi” nella sua minuscola casa senza finestre; per combattere, in una continua spoliazione di se stessa, il tempo e la sua rapina.
Piccola e immensa, implacabile nella ferocia della sua schiettezza, corrosa dall’inquietudine di una pretesa certezza che le ruba la mente e il futuro. Capace di liquefarsi per imprigionare con l’assenza e l’abbandono. Se stessa prima, gli altri di conseguenza.
Come Robert, americano impastato di razionalità pronta a sbriciolarsi, e come Notturno, che prende il nome dal buio di acquarelli marini dove addensa l’angoscia di una traumatica recisione dei legami primari.
A lui il compito di unire, nel romanzo, gli emisferi del mondo. Quelli del pianeta. E quelli della mente.
Vive in un silenzio denso e fitto di parole. Le conserva in bauli capaci. Sono la sua arma e la sua difesa, sono il coltello con il quale si ferisce. E con esse tiene a bada il proprio daimon interiore.
Porta le stigmate dolorose del dio della scrittura, il peso e la responsabilità di chi è destinato a disegnare il mondo perché in collegamento diretto con le viscere del suo caos universale.
Tra monologhi e dialoghi che si alternano senza virgolettature, come autentiche acrobazie dell’anima, alla David Foster Wallace; e con trascrizioni del parlato (quali sfumature e incrocio di mondi e diversità); vertigini evocative capaci di trasformarsi in teoremi dell’esistenza. E mille domande senza risposta.
“Dove invecchiano i padri?
E le voci dei morti dove scompaiono?”
Come ribattere alle lettere d’amore postume?
Possono, la grazia, l’innocenza, i piccoli desideri di una felicità spicciola rinverginare la vita?
“Sono più importanti le giornate già fatte o quelle che devono venire per poter dire che si è vivi?”
È sua la voce che illumina i protagonisti, immersi nel buio per dire la terribile meraviglia della vita. Si può andare fino al fondo di una verità inseguita, o si possono costruire alibi alla vita e innalzarvi sopra un fastello di giustificazioni mentre le imperfezioni della memoria producono una certezza bugiarda.
L’autrice denuda, nella sua pietas crudele, l’idea letteraria che l’uomo si costruisce il proprio destino. Tra briciole pretese di eroismo, macerie accumulate nell’accadere dei giorni. E danze della morte private di ogni sacralità.
L’ossatura di questo romanzo, di carne e sangue come tutti quelli regalatici da una scrittrice dalla voce unica e autentica, quanto ineguagliata e ineguagliabile, è la vita che scorre tra le corde tese dell’amore e della morte. In tutte le sfumature possibili. Ogni volta con un tassello nuovo. E nuove parole per dirlo.
In un inarrestabile climax di grande potenza. Da bruxa del sud del mondo intessuta di oralità, l’autrice invoca il ruolo essenziale della gioia e del dolore. Ma anche della solitudine, dell’abbandono. E quello dell’amore, centro del mondo nella consapevolezza che nessun centro può farsi dimora.
E ancora il nodo insondabile e inestricabile tra rabbia e tenerezza, la tortura dell’inquietudine di chi non ha il coraggio di alzare le vele e prendere i venti della vita. L’esclusione che nasce da dentro, il vuoto che spinge alla ricerca dell’altro, gli autoinganni che ci rubano l’esistenza.
Un fluire di attimi ciechi o consapevoli, tra eventi capaci di consistere in se stessi o di polverizzarsi in interrogativi, indizi minimi, pulsioni.
Perché, “Y apena digo es real, se disipa”.
Cosa è dunque il reale per Savina Dolores Massa?
È vita che si incarna sulla pagina e innerva vortici di poesia purissima, è sogno che smaschera le bugie degli stereotipi e produce infinite, diverse verità.
“Le verità sono mille”, imparava col passare dei giorni il bimbo di Izta.
Se la vita non ha un senso è solo perché li possiede tutti.
Così l’avventura dell’invenzione si fa percorso di conoscenza. Perché si inoltra nel labirinto del mondo.
Rabdomante dell’alterità, l’autrice mozza il fiato con una prosa acrobatica che contende lo spazio alla poesia, intessuta di una coerenza interna in cui il salto logico spariglia le carte e rende misteriosa ogni immagine.
Quella di Savina Dolores Massa è una voce in cui le parole, non incarnano il pensiero, ma tutto ciò che dà vita al pensiero. In un passo mentale capace di acrobatiche piroette tra riso e pianto, leggerezza e profondità – autentico sismografo dell’anima – Savina distrugge con i suoi orizzonti obliqui e sbilenchi i codici che hanno sclerotizzato la parola e costruisce un universo poetico di galassie in espansione, di fuoco che illumina e ustiona, sangue caldo che sgorga dalle ferite della vita e dalla vivisezione dei sogni; in quel surrealismo tutto e solo suo che dispone la realtà in modo sempre nuovo e diverso, senza mai smarrire la strada di casa; con le sole coordinate del senso di vertigine, della cecità e del disorientamento.
Perché è dal caos delle tenebre che nasce la luce.
Copertina flessibile: 330 pagine
Editore: Il Maestrale (28 luglio 2020)
Collana: Narrativa
Lingua: Italiano
ISBN-10: 8864292233
ISBN-13: 978-8864292236
Written by Anna Maria Capraro