Intervista di Alessia Mocci ad Ernesto Venturini: vi presentiamo “Il sale e gli alberi”
“Detestava i luoghi comuni, il pensiero fatto di stereotipe, d’ideologie, di falso cameratismo. Lui amava la dialettica, gli piaceva il confronto, persino il conflitto; ricercava le idee come risultato di uno scambio, non pretendeva l’originalità a tutti i costi, richiedeva, però, l’autenticità. “Sartrianamente” parlando, cercava l’essenzialità come derivato dall’esperienza.” – Ernesto Venturini
Un ritratto inedito dello psichiatra, neurologo e docente italiano Franco Basaglia (Venezia, 11 marzo 1924 – Venezia, 29 agosto 1980) conosciuto, soprattutto, per la Legge 180 del 1978, da cui per l’appunto prende il nome. A raccontarci di questo grande innovatore nel campo della salute mentale un altro altrettanto grande: il medico psichiatra Ernesto Venturini.
L’occasione è la prossima uscita del nuovo libro di Venturini, “Il sale e gli alberi – La linea curva della deistituzionalizzazione”, disponibile in libreria da settembre 2020 e pubblicato dalla casa editrice mantovana Negretto Editore.
“Il sale e gli alberi” è un saggio sul processo di liberazione promosso nel campo della salute mentale in Italia e nel mondo con particolare attenzione per la lotta al manicomio e la deistituzionalizzazione; con postfazione della studiosa, storica, scrittrice e coordinatrice del Centro di servizi per il volontariato bolognese Cinzia Migani, dello psicologo del Dipartimento di salute mentale di Imola Ennio Sergio; del giornalista Valerio Zanotti; e dall’attuale rappresentante della Unione Regionale Associazioni per la Salute Mentale Emilia-Romagna Valter Galavotti.
Ernesto Venturini, dopo aver conseguito la laurea in psichiatria a Roma, conobbe Franco Basaglia ed iniziò una durevole collaborazione ed amicizia. Nel 1979 per Einaudi ha curato una lunga intervista-riflessione con Basaglia sull’allora recente Legge 180 pubblicata in “Il giardino dei gelsi”. Ha concorso alla chiusura dell’ospedale psichiatrico di Imola e ha condotto una significativa esperienza sulla salute mentale in vita comunitaria.
Nel 2010, per Franco Angeli Edizioni pubblica “Il folle reato. Il rapporto tra la responsabilità dello psichiatra e la imputabilità del paziente”, un saggio redatto con Domenico Casagrande e Lorenzo Toresini, un volume che prende spunto da uno scritto di Franco Basaglia e la moglie, la psichiatra Franca Ongaro, “Il problema dell’incidente”, che mette a confronto le sentenze e le perizie di alcuni casi delittuosi nei quali il medico è stato imputato di omicidio colposo per il crimine commesso dal proprio paziente.
Inoltre, l’autore in qualità di esperto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha accompagnato il processo di riforma psichiatrica in Brasile dal 1991 al 2006, riportando i processi ed i risultati dell’esperienza italiana.
A.M.: Ernesto, sono lusingata di poter dialogare con lei quale esponente di una grande riforma sociale che ha portato la società a comportarsi in modo più “civile” e al contempo più “sociale”. Il suo curriculum presenta una vita di importanti amicizie e collaborazioni. Potendo permettermi un salto nel passato, la mia prima domanda riguarda l’incontro che portò al sodalizio con lo psichiatra Franco Basaglia.
Ernesto Venturini: Incontrai personalmente Franco in casa di Michele Risso, a Roma. Eravamo, mi pare, alla fine del 1967 o all’inizio del 1968. Mi ero da poco laureato in medicina all’Università Cattolica ed ero il responsabile anziano di un gruppo di medici e studenti che frequentavano il reparto psichiatrico dell’università. Michele era uno psicanalista junghiano, che, lavorando in Svizzera, aveva realizzato degli studi pionieri in etnopsichiatria. Periodicamente ci invitava nella sua casa per incontrare i suoi amici – personaggi famosi della cultura e della scienza. Quel giorno avremmo incontrato il suo amico Franco Basaglia. E Basaglia era già un mito. In quegli anni noi volevamo conoscere tutto quanto stava accadendo nel mondo in campo psichiatrico: ci raccontavamo quanto stava accadendo in Francia, in Canada, in Inghilterra. Eravamo stati a Perugia e a Città di Castello per incontrare Carlo Manuali, che promuoveva un interessante coinvolgimento comunitario sulla salute mentale, ma le notizie che venivano da Gorizia erano quelle che più ci affascinavano: lì si stava realizzando una rivoluzione, un vero cambio di paradigma scientifico.
L’incontro, in casa di Michele, aveva un tono del tutto informale, quasi amichevole. Ero rimasto subito colpito dalla quantità di tic con cui Basaglia accompagnava il suo parlare: muoveva lateralmente il capo, inarcava le sopracciglia, aggrottava le labbra. Ma, dopo un po’, non ci facevi più caso, perché eri conquistato dai suoi occhi chiari, dal suo sorriso, dall’eleganza del suo portamento (era alto), dal suo parlare torrenziale. Era estroverso, comunicativo, fumava molto. L’esatto contrario di Michele, che sembrava un gentleman inglese, tutto misurato e silenzioso. A un certo punto ho capito che Franco ci stava valutando. Come avrei capito più tardi, quello era il suo modo abituale di essere: voleva capire con chi aveva a che fare. Detestava i luoghi comuni, il pensiero fatto di stereotipe, d’ideologie, di falso cameratismo. Lui amava la dialettica, gli piaceva il confronto, persino il conflitto; ricercava le idee come risultato di uno scambio, non pretendeva l’originalità a tutti i costi, richiedeva, però, l’autenticità. “Sartrianamente” parlando, cercava l’essenzialità come derivato dall’esperienza. E così, più o meno consapevolmente, ti metteva alla prova: ti rimandava la domanda che tu gli avevi posto, chiedendoti di riformularla, quasi facendoti capire che, in realtà, tu avevi già la risposta dentro di te (era fenomenologo e socratico, contemporaneamente). Senza dubbio “il filosofo” Basaglia” (come sprezzantemente lo aveva definito Belloni, il suo direttore universitario) amava leggere, e molto anche, ma era nell’incontro con l’altro che provava il piacere intellettuale della conoscenza. E d’altra parte non erano forse le assemblee generali di Gorizia il luogo dell’ascolto, della costruzione collettiva del sapere, del raggiungimento di un potere attraverso il dialogo, il confronto? Se, poi alla fine, Franco restava deluso dall’incontro, allora il suo sguardo si faceva annoiato. Rimaneva sempre gentile, formalmente gentile ma distratto, disattento.
A distanza di tanti anni ricordo vagamente i contenuti del nostro colloquio quel giorno. Ero tutto preso dalla forte emozione di quell’incontro. E, solo quando ci stavamo salutando, ho capito che avevo superato la prova. Franco si era rivolto a me, e, guardandomi con complicità, aveva concluso: “Fai una cosa: vieni a Gorizia. Tu stesso potrai renderti conto di quello che sta succedendo”.
In quei fatidici giorni del ‘68, avevo cominciato a portare con me il libro “L’istituzione Negata”. Nel corso delle assemblee, durante le occupazioni nel Pronto Soccorso psichiatrico del Policlinico, tiravo fuori quel libretto (accompagnato da quell’altro – il libretto rosso di Mao) e leggevo, a voce alta, brani di quella nostra bibbia. Poi, per alcuni anni, avevo deciso di fare le mie vacanze estive andando a fare il volontario a Gorizia. Un mondo nuovo, seducente, si apriva dinanzi a me, così profondamente diverso dai rituali, dalla pomposa retorica dell’università. E finalmente era venuto il momento della scelta. Il direttore del reparto universitario – una brava persona – mi aveva prospettato la sicurezza di una carriera universitaria, se fossi rimasto: essendo uno tra i primi laureati di quella facoltà, ero, automaticamente, uno dei designati… Ma un giorno mi sono messo sulla mia ‘500, insieme alla moglie e alla mia piccola, di poco più di un anno, e ho lasciato quella città meravigliosa. Mi sono messo in cammino verso una piccola città di confine, in un momento critico per l’esperienza basagliana messa in crisi dall’uxoricidio di un paziente.
Sapevo quello che stavo perdendo, non sapevo quello che sarebbe accaduto… ma – alea iacta est – io, ormai, ero un “goriziano”.
A.M.: La citazione iniziale de “Il sale e gli alberi” è dell’architetto brasiliano Oscar Niemeyer ed è associata all’emozione che prova ogni volta che pensa al “processo di liberazione promosso nel campo della salute mentale in Italia e nel mondo”. Qual è, invece, il significato del titolo del libro?
Ernesto Venturini: Il libro ha un titolo “Il Sale e gli alberi” e un sottotitolo “La linea curva della deistituzionalizzazione”. Parlerò, per prima cosa del sottotitolo che utilizza un’affascinante citazione di Oscar Niemeyer, il famoso architetto costruttore di Brasilia.
Ho costruito, per l’appunto, una metafora – la linea curva della deistituzionalizzazione – per spiegare che cosa significhi per me questa parola, che sembra una specie di scioglilingua. Deistituzionalizzazione non indica la semplice umanizzazione di un luogo violento – il manicomio –, non rappresenta la deospedalizzazione con il trasferimento dei ricoverati in strutture più idonee, non è la modernizzazione delle cure psichiatriche e non è nemmeno – attenzione! – la promulgazione di una legge di riforma. Senza dubbio “la riforma 180” è (è stata) un passaggio importante per migliorare le politiche di sanità mentale. Avere sancito la fine degli ospedali psichiatrici e anche di quelli giudiziari è stato un evento storico: ha riconosciuto ai folli quei diritti civili, affermati con la Rivoluzione francese e con la Carta dei diritti dell’uomo, ma negati ai folli, per duecento anni, attraverso leggi speciali – le leggi di garanzia per gli incapaci. In questo senso la riforma, come giustamente ha fatto osservare Norberto Bobbio, è una delle poche, vere riforme avvenuta in Italia e nel mondo negli ultimi decenni, perché ha riconosciuto la pienezza dei diritti anche a chi sembrava non potesse esercitarli – la persona folle.
Ma per noi basagliani la deistituzionalizzazione significa qualcosa di più: è un complesso processo scientifico, politico, filosofico, in un perenne “divenire”, che dà senso della vita, quella individuale e quella collettiva, attraverso la libertà e la responsabilità.
Niemeyer, riprendendo ed elaborando una frase di Cézanne, dice di amare nel suo lavoro di architetto le linee curve, che gli ricordano le montagne del suo paese, le sinuosità delle donne brasiliane. In modo analogo io penso che la libertà delle persone dalla malattia sia un percorso non facile, che significhi, per il paziente e per il terapeuta, affrontare l’incertezza di un orizzonte nascosto da linee curve. È però anche un cammino morbido, dolce, che si apre all’inatteso. Direi (senza alcuna piaggeria) che è un processo al femminile, perché si oppone alla rigidità, fallica e autoritaria dello sguardo dello psichiatra tradizionale; eccepisce il suo potere-sapere, che oggettiva e, di fatto, finisce per reprimere e per racchiudere in uno stigma il disagio psichico della persona. Nel libro cerco di sviluppare questo tema, e lo faccio ricorrendo, però, alla descrizione di un’esperienza, concreta ed esaltante, che ha testimoniato in modo emblematico questo processo: l’attivo coinvolgimento di una comunità – quello della città di Imola – nel definitivo superamento dei suoi due ospedali, tra i più antichi e grandi d’Italia.
… Quanto, poi, alla spiegazione del titolo – Il Sale e gli Alberi –, secondo un’abituale linea di editing, non dirò nulla, per incentivare un minimo di suspense e per lasciare alla lettura del libro la risposta a questo interrogativo.
A.M.: Nel 1967 lo psichiatra sudafricano David Cooper utilizzò per primo il termine “antipsichiatria” che divenne presto un movimento eterogeneo che avversava la psichiatria vigente. Lo psichiatra scozzese Ronald Laing, celebre per alcuni suoi studi sulla psicosi che andavano contro l’ortodossia della psichiatria del tempo, rifiutò l’etichetta di antipsichiatrico; ma lo psichiatra ungherese Thomas Szasz fu vicino alle convinzioni dell’antipsichiatria e sostenne la lotta all’istituto del manicomio e all’ospedalizzazione. Nell’introduzione lei scrive: “La deistituzionalizzazione finisce, erroneamente, per essere spesso equiparata all’antipsichiatria e diventa sinonimo del desiderio di abolire ogni istituzione di controllo sociale.” Che cos’è dunque il movimento dell’antipsichiatria?
Ernesto Venturini: Premetto che negli anni ‘60-‘70 la lettura dei libri di Michel Foucault (“Storia della follia nell’età classica”), di David Cooper (“La morte della famiglia”, “Psichiatria e antipsichiatria”), di Thomas Szasz (“Il mito della malattia mentale”) e, soprattutto, di Ronald Laing (“L’io diviso”, “La politica della famiglia”) costituivano per me un autentico godimento. Avevano il potere della rivelazione, mi aiutavano a penetrare nel mondo affascinante della psicosi, a capirne non solo le ragioni, ma anche a interrogarmi sulla nostra presunta “normalità”. In qualche modo, in quegli anni, ci sentivamo tutti degli anti-psichiatri, anche se era chiaro quello che rifiutavamo – la brutalità del manicomio (ma anche l’abuso degli psicofarmaci, l’oggettivazione dei pazienti), ma non altrettanto quella che avrebbe dovuto essere la risposta concreta ai bisogni di una situazione che avevamo difficoltà a definire “malattia mentale”. Laing, in ogni caso, si allontanò dal suo amico Cooper perché non condivideva le sue conclusioni più estreme e continuò a definirsi uno psichiatra. Cooper, dopo l’exploit teorico pratico della sua giovinezza, rimase imprigionato nel suo ruolo d’icona, andando incontro a un rapido declino intellettuale ed esistenziale. Michel Foucault rese, senza dubbio, più complesse e dialettiche le sue iniziali riflessioni contro la disciplina psichiatrica. Szasz, divenuto ormai cittadino americano, continuò a parlare contro i manicomi pubblici, ma meno verso quelli privati; diventò un convinto fautore del liberismo, anche in campo sanitario, entrò nel mondo paludato dell’Accademia, fu sostenitore di Scientology, una discutibile setta mistica-religiosa.
In ogni caso, non è stata tanto la storia personale di questi protagonisti dell’antipsichiatria, ciò che ha aiutato me (e naturalmente tanti altri) a prendere le distanze da questo importante movimento di denuncia, quanto la verifica della sua pratica velleitaria e di quella sorta di desiderio di una perenne rottura, piuttosto che di una difficile ricerca di consenso. Questo è avvenuto quando, basaglianamente parlando, siamo andati a verificare le pratiche e i loro effetti. Le esperienze antipsichiatriche – anche quella famosa di Kingsley Hall (1965) a Londra – avvenivano in ambienti privati, dove la popolazione era selezionata dal censo, dall’età (giovani), dalla cultura. Erano esperienze di nicchia, esemplari, ma con il respiro corto, senza una visione politica delle contraddizioni sociali.
Altro è stato, invece, lo spessore etico e scientifico di Franco Basaglia che ha lasciato l’università, con i suoi privilegi e rituali, per scegliere di lavorare nel buco nero del manicomio, dove erano “gestite” la povertà, le disuguaglianze di classe, le differenze sociali e quelle di genere.
Per cogliere meglio la distanza tra i due movimenti, basterà affidarci, una volta tanto, alla terminologia. Basaglia e noi con lui non ci siamo mai dichiarati anti-psichiatri. Basaglia ha sempre parlato della negazione dell’istituzione. Il nostro è, infatti, un movimento teorico-pratico contro l’istituzionalizzazione (non contro le istituzioni), contro, cioè, quell’uso delle istituzioni che sancisce la disuguaglianza, l’uso di un potere-sapere per assoggettare l’uomo. L’istituzionalizzazione è un meccanismo generalizzato che accade nelle diverse istituzioni della società: in quelle dell’educazione scolastica, nella famiglia, nei partiti, nei gruppi sociali, nelle discipline scientifiche. Il manicomio rappresenta dunque solo una delle tante istituzionalizzazioni. Il suo opposto – la deistituzionalizzazione – è, pertanto, una lotta per libertà: “la libertà è terapeutica!” È lotta contro disciplina (nell’ottica di Foucault), è decostruzione (nell’ottica strutturalista di Jacques Derrida) di tutti quegli apparati di sapere-potere, che sostengono l’esclusione, l’emarginazione.
L’organizzazione del movimento teorico-pratico di Basaglia (una nuova istituzione!) non si chiama Antipsichiatria ma “Psichiatria Democratica”: è l’affermazione del valore della democrazia, intesa come diritto di protagonismo e di cittadinanza del soggetto, dentro lo specifico ambito della salute mentale. Siamo di fronte a un processo, che vuole svelare le manipolazioni e le mistificazioni degli apparati tecnico scientifico per negare e controllare, attraverso le istituzioni della violenza e della tolleranza, le contraddizioni sociali produttrici di sofferenza psichica.
Basaglia è sempre rimasto, per sua scelta, un funzionario pubblico, affermando il valore di una medicina pubblica, non esercitando la professione privata. Nei suoi incontri-dibattito svolti in Brasile e raccolti poi nel libro postumo “Le conferenze brasiliane”, dichiara, a fronte di chi afferma il valore preminente di una militanza politico-ideologica, che la vera rivoluzione consiste nello svolgere, fino in fondo, la propria professione. Non è forse stata proprio quella la istanza che lo ha portato a promuovere l’esperienza goriziana, provocando il cambiamento del paradigma psichiatrico? Quando Basaglia entra la prima volta nel manicomio di Gorizia, ha voglia di fuggire, di ritornare ai privilegi dell’Accademia, dove si può fare teoria. Si domanda: ma questo mondo di sopraffazione e violenza che cosa a che vedere con la mia professione di medico? Poi capisce che il suo dovere di medico è proprio quello di lottare contro questa realtà e contro la ideologia, contro la pseudo scienza che la sostiene. In questa scelta lo aiuta la sua esperienza personale di impegno politico. Franco è stato incarcerato da giovane per attività antifascista. Riconosce nel manicomio la stessa logica della prigione che ha sperimentato sulla sua pelle. Decide, così, di condividere la sua vita fino in fondo con chi deve curare, fino alla sua libertà. Rimane nel puzzo di urina dei reparti, nella miseria, tra la povertà dei proletari, decostruendo giorno per giorno, la violenza del manicomio. Fino alla fine, fino alla possibilità per tutti di lasciarsi alle spalle quell’orrenda e inutile istituzione.
Basaglia è profondamente gramsciano nel rifiutare le velleità della antipsichiatria (condivide un progetto politico sociale e sa che il cammino per l’egemonia è lungo e difficile). Basaglia è veramente un seguace di Marx: non si tratta più, ormai, di parlare, di interpretare la realtà, è tempo, ormai, di cambiare il mondo.
A.M.: Nel secondo capitolo “La dialettica del potere” si citano alcuni versi dello stimato poeta greco Costantino Kavafis. “[…] Sempre devi avere in mente Itaca/ raggiungerla sia il pensiero costante.// […]”. Itaca è la casa per eccellenza, quel luogo agognato a cui il perenne viaggiatore – Ulisse – porge il suo pensiero. La dimensione fisica che si equipara alla dimensione psichica in una stretta correlazione di intenti è una possibile via di guarigione?
Ernesto Venturini: Non so se, più propriamente, la dimensione psichica possa essere equiparata alla metafora del viaggio. Le metafore contengono sempre una certa ambiguità. Ma è soprattutto la parola guarigione, che è ambigua, proprio perché è polisemica, e necessita quindi di approfondimenti.
Quando Sergio Zavoli, nel filmato “I giardini di Abele”, chiede a Basaglia che cosa gli interessi di più: se l’uomo o la malattia, Franco prontamente dichiara “l’uomo, senza dubbio!” Basaglia sinceramente o provocatoriamente (a seconda dei punti di vista) asserisce che non sa che cosa sia la malattia e nemmeno sa che cosa sia la guarigione o la salute mentale e che il quesito teorico non lo interessa. Quello che gli appare importante (e attenzione, tutt’altro che riduttivo!) è invece come consentire alle persone di vivere in libertà, senza stigmi, senza colpevolizzazioni, vivere il diritto alla propria diversità e anche al proprio disagio psichico. Secondo il pensiero filosofico dell’esistenzialismo, a cui Basaglia si riferisce, l’uomo è in perenne fluire (“in divenire”, come direbbe Sartre in opposizione a Lacan, che afferma invece l’“essenza” dell’uomo). La malattia, la guarigione, la salute, la felicità, la tristezza sono momenti necessari e fondanti di quel viaggio, che è la nostra vita. E in questo cammino le istituzionalizzazioni, le prevaricazioni, le disuguaglianze sociali ci alienano (marxianamente parlando) e ci privano di quella possibilità di cogliere il senso della nostra vita offerteci, ad esempio, dagli incontri, dalle relazioni e da quelle “narrazioni cicliche” che occorrono nel viaggio di Ulisse e nelle nostre storie. Continuando nella metafora del viaggio, c’è però una differenza sostanziale rispetto all’eroe omerico: io non vedo in “un ritorno a casa” l’obiettivo del viaggio della nostra deistituzionalizzazione a Imola. In un certo senso non lo è nemmeno stato per coloro che sono usciti dal manicomio per trovare una nuova abitazione. So, purtroppo, che non siamo in grado di offrire risposte definitive e rassicuranti. Quello che so, e che il libro cerca di testimoniare, è che la liberazione dell’altro dall’oppressione della istituzionalizzazione costituisce anche la mia, la nostra liberazione, attraverso momenti di gioiosa partecipazione. Ho potuto verificare che si può, si deve fare riferimento a un universo che ci lega gli uni agli altri, che unisce le nostre vite, che le moltiplica e che, in questo modo, vince anche la nostra morte.
Questa riflessione si collega all’emozione provata, alcuni anni fa, nell’apprendere l’esistenza del così detto “Wood wide web”: quell’invisibile rete sotterranea di centinaia di chilometri di hife – i sottilissimi filamenti dei funghi – che mettono in collegamento gli alberi di una foresta. Si tratta di una rete sociale, mutuale, che svolge funzioni importanti in quell’ecosistema, con azioni, diciamo, solidali tra gli alberi. Gli alberi della foresta, in questo modo, riescono a comunicare tra loro, si parlano, cercano un equilibrio. È questo uno dei tanti esempi che la natura offre agli uomini sul valore, sull’esigenza della solidarietà.
Ebbene il valore collettivo, comunitario dell’esperienza imolese è stata, per me, scoprire la ricchezza di una rete invisibile, nascosta, presente nella città e nelle persone, a volte dove meno te l’aspetti, una sorta di linfa collettiva che nutre le soggettività, che guarisce i malati e i sani e che li fa riconoscere come viaggiatori in uno stesso cammino.
A.M.: Mi ha colpito la sua operazione di intensa commistione con il mondo della letteratura e dell’arte, oltre al poeta Kavafis, il lettore potrà incontrare riflessioni su William Shakespeare, Italo Calvino, Jean Paul Sartre, Antoine de Saint-Exupery, Giorgio Gaber, Ridley Scott ed altri. È un modo per consigliare al lettore di percorrere la via lunga e non la via breve? “Quando ti metterai in viaggio per Itaca/ devi augurarti che la strada sia lunga,/ […]”
Ernesto Venturini: Anche in questo caso, non vorrei che cadessimo nelle trappole di un eccesso interpretativo delle metafore. Né intendo fare considerazioni dotte o riferirmi al campo della diagnostica psichiatrica. È Kavafis, sia ben chiaro, che parla di una strada lunga. Io condivido questa considerazione per quella saggezza popolare che ci dice che le scorciatoie non sono sempre auspicabili rispetto alla strada normale o che, avendo troppa fretta di arrivare, si acquista forse tempo, ma si perde qualche cosa d’altro. Direi che bisognerebbe augurarsi, piuttosto, che il cammino possa essere sempre della giusta lunghezza e durata, né meno, né più, sia parlando del recupero dei pazienti, dei terapeuti, che dei soggetti coinvolti, in vario modo, in un cambiamento così radicale, come è stata l’esperienza di Imola.
Ma voglio spendere qualche parola invece sulla commistione, da Lei rilevata, tra la cura, la riabilitazione e il mondo della letteratura e dell’arte. È evidente che sto esprimendo, in questo modo, una mia passione: sono affascinato dalla capacità comunicativa della musica, della pittura, ma soprattutto della scrittura, quando un racconto, una frase, una parola riscaldano l’anima e aprono la mente. Questi miei continui riferimenti letterari si sviluppano, dunque, in varie dimensioni. Cerco, ad esempio, di svolgere una prima funzione: quella di comunicare, usando un linguaggio, con un forte impatto emozionale e che rifugga dalla fredda terminologia dell’esperto psichiatra. Ma poi c’è qualche cosa d’altro. Nelle mie letture, più o meno disordinato, mi imbatto, per l’appunto, in pensieri, in parole di forte intensità poetica, che travalicano i limiti del testo e che universalizzano il bisogno di un pensare poetico, direi, di un pensare “amoroso”, se non fosse, questa, una terminologia troppo scontata e compromessa. Insomma, voglio dire che c’è una sorta di insight, per cui quel verso, quelle parole, anche se sorte in un diverso contesto e tempo, sembrano scritte proprio per far comprendere, a un livello più profondo, quello che io, in un differente tempo e spazio, sto cercando di raccontare.
E poi c’è ancora un’altra scoperta. L’avventura basagliana ha, in qualche modo, sempre posto in risalto il ruolo liberatorio dell’arte. A Trieste, ad esempio, attraverso il “Teatro della follia” di Misculin, avevamo capito le grandi potenzialità del teatro nella riabilitazione dei ricoverati, lo abbiamo visto confermato a Imola con le pioniere esperienze della “Mazzolanza Sagré”, e con le successive realizzazioni di “E pas e temp” e di “Oltre la Siepe”, fino ad arrivare a quelle bolognesi e alla costituzione del progetto della Regione Emilia Romagna sul ”Teatro e Salute Mentale”, ben rappresentato nel libro di Cinzia Migani e Maria Francesca Valli, “Il teatro illimitato”.
Voglio dire, in sostanza, che gli artisti hanno sempre svolto un ruolo importante, decisivo per la deistituzionalizzazione. Non solo perché manifestavano la loro militante solidarietà attraverso l’offerta delle loro esposizioni, dei loro concerti, ma soprattutto perché ci hanno fatto capire quanto importante fosse per ciascuno di noi, aprirsi alla creatività, alla fantasia, al sogno. Per questa ragione abbiamo instaurato a Imola un costante dialogo tra gli scrittori, i poeti ufficiali, e i folli poeti dilettanti. Ricordo, per esempio, che le frasi più significative dei nostri poeti folli, insieme a quelle di noti scrittori, venivano inscritte in un calendario, che di anno in anno, ci premuravamo di regalare agli esercenti della città o agli uffici pubblici. Era un modo per contagiare la città in questo viaggio verso la libertà dal manicomio, che simbolizzava anche la libertà da quel manicomio che era dentro di noi. Di questa pratica ne abbiamo fatto un evento, nel dicembre del 1996, in occasione della chiusura definitiva dei manicomi, che abbiamo chiamato “Le Esperienze della Saggezza”. Attraverso il critico artistico Antonio d’Avossa abbiamo invitato 37 artisti (tra cui voglio citare solo alcuni nomi: Luca Quartana, Piero Gilardi, Ernesto Tatafiore, Manlio Caropreso, Silvio Wolf, Ugo La Pietra, Sabrina Sabato, Emilio Prini, Michelangelo Pistoletto, Lapo Binazzi, Vettor Pisani, Enzo Mari) per produrre le loro opere dentro il parco dell’ospedale, ormai svuotato. E poi abbiamo realizzato una serata di lettura poetica tenuta con scrittori professionisti (tra cui Giuliano Scabia, Umberto Fiore, Andrea Zanzotto, Marco Belpoliti, Enzo Fabbrucci) e scrittori dilettanti della nostra associazione “E Pas e Temp” (tra cui Mafalda Faggi, Franco Fuzzi, Fabrizio Donati, Leandro Bianchini, Mario Cenci, Vincenzo Pescarini). Un’esperienza indimenticabile!
È stata una forma di arte? Una forma di terapia? Stiamo forse parlando di arte-terapia? Con tutto il rispetto per James Hillman penso che stiamo parlando di cose profondamente diverse. Non stiamo parlando di un’espressione di soggettività inscritta in una chiave di lettura psicodinamica (l’interpretazione junghiana) o dell’uso di una tecnica terapeutica, stiamo parlando di un processo collettivo di emancipazione che ha bisogno di manifestarsi in una dimensione emozionale particolarmente intensa. Se poi l’espressione della soggettività delle persone, nella loro autenticità, rappresenti sempre una forma d’arte mi sembra una considerazione che può, a pari grado, essere contestata o affermata, senza togliere nulla all’atto creativo dei suoi protagonisti.
Per farmi capire, voglio concludere raccontando un aneddoto. Tra i tanti visitatori che erano venuti a conoscere l’esperienza imolese, un giorno erano venuti alcuni dirigenti in salute mentale di vari paesi dell’America Latina. Dopo avere visitato le strutture, parlato a lungo con gli operatori, con i familiari e i politici della città, era stato programmato alla fine della giornata un incontro con gli utenti dei servizi. In omaggio agli ospiti, gli utenti artisti hanno regalato qualche loro opera: un quadro, una piccola scultura in legno, la lettura di una poesia. Alla fine, Ennio, il nostro psicologo, aveva annunciato: “Ora la signora L. farà per voi una piccola performance”. Alla luce di un improvvisato faro, è apparsa la signora L. in un gonnellino di tulle bianco e con delle scarpette rosa per danzare. La signora L. non mi era visceralmente simpatica e non credo che questo fosse solo un mio problema: piccola, grassoccia, sgraziata nei movimenti, era una donna querula, che si intrometteva nei discorsi degli altri, che diceva delle ovvietà e che ti asfissiava con il suo costante bisogno di attenzione. Credo di essere impallidito: pensavo “Siamo finiti nel grottesco, nel ridicolo totale”. Devo aver chiuso gli occhi e quando li ho riaperti L. stava facendo i suoi piccoli salti, cercando di accompagnare i passaggi, le variazioni, le sonorità incantate di un famoso brano musicale – era “Clair de lune” di Debussy. I saltelli erano quelli di una persona grassa, goffa, il rossetto era sbavato, eppure… eppure c’era un qualcosa di magico in quei suoi movimenti, in quei suoi occhi socchiusi, in quel voler esprimere l’intensità della sua emozione. A un certo punto sembrava che non fosse più lei a cercare di interpretare la musica, ma che fosse la musica che cercasse di accompagnare la sua danza. C’era nella sala un silenzio assoluto, un’intensità emozionale profonda. Era un’atmosfera profondamente onirica. Lei accompagnava con i suoi passi, con le sue mani il fluire delle variazioni, i morbidi arpeggi, tutto meravigliosamente sfuocato e sospeso, ora lento, ora gioioso. Lei ci stava regalando un sogno: il suo sogno di essere una ballerina, di potersi liberare dal peso della sua quotidianità, di essere finalmente ammirata, amata, di poter volare, librandosi in alto, di esprimere un altro corpo che era dentro di lei, o, meglio, di poter farci conoscere quel suo corpo, finalmente liberato, come un corpo dolce, armonioso…
A distanza di anni incontro, talvolta, un mio amico brasiliano che era presente in quell’occasione. Lui ricorda sempre quell’episodio e ammette “Sai, a un certo punto, ho cominciato a piangere: è stata una scena incredibile, indimenticabile”. È vero è stata una “lezione di vita” indimenticabile anche per me.
Era arte?
A.M.: Il “passaggio dall’inautentico all’autentico”, la caduta della maschera, il dasein di Martin Heidegger. Due anni fa la casa editrice Negretto Editore ha pubblicato “Memorie di trasformazione. Storie da Manicomio” curato dalla studiosa e coordinatrice del Centro di servizi per il volontariato bolognese Cinzia Migani, per celebrare i 40 anni dalla Legge Basaglia e per far in modo che le grandi idee siano sempre vive e “contagiose”. Secondo lei, oggi, è ancora rispettata la norma che ha rivoluzionato la Salute Mentale in Italia?
Ernesto Venturini: Esiste un luogo comune, secondo cui la legge 180 fu approvata dal Parlamento, senza una piena consapevolezza della sua valenza rivoluzionaria, semplicemente per evitare il referendum del partito radicale, che avrebbe messo in difficoltà le istituzioni politiche, in un momento particolarmente delicato (era l’epoca del sequestro Moro). In realtà la legge venne totalmente riconfermata l’anno seguente con la sua incorporazione nella nuova legge sul Sistema Sanitario Nazionale. Ma occorre considerare, soprattutto, che la legge 180 è stata una parte strutturale di una serie di riforme dell’Italia negli anni ‘70, come risultato di una forte mobilizzazione pubblica: la legge sanitaria, per l’appunto, la legge sul divorzio, sull’aborto, sulla libertà alla contraccezione, l’accesso all’Università anche per gli istituti Tecnici, promuovendo un’Università di massa, lo Statuto dei lavoratori.
Vero è, però, che quella legge non piaceva completamente a noi basagliani: era troppo medicalizzante (e gli ultimi istanti della vita di Franco furono rivolti proprio a cercare di correggere tali caratteristiche); mancava inoltre di un supporto normativo e di vincoli finanziari. Vi furono, pertanto, difficoltà nell’applicazione della legge, denunce da parte delle Associazioni dei familiari che si vedevano caricate dell’intero problema dell’assistenza dei pazienti. Furono presentate in Parlamento numerose proposte di controriforma, tutte rifiutate. Se questo avvenne, significava che vi erano importanti settori della società italiana che si riconoscevano in quella legge. E se poi si progredì nella risoluzione delle inadempienze e questo fu certamente merito della senatrice Franca Ongaro Basaglia, che svolse un ruolo fondamentale in Parlamento per la promulgazione dei Progetti Obiettivi sulla Salute Mentale. Il primo progetto fu licenziato a distanza di ben sedici anni dalla promulgazione della legge. E se infine, nel 1996 si arrivò alla chiusura dei così detti “residui manicomiali”, che immobilizzavano risorse destinabili ai servizi territoriali, fu certamente merito anche del processo di deistituzionalizzazione promosso a Imola, che divenne il carro trainante di un vasto movimento di opinione pubblica che chiedeva il definitivo superamento di queste arcaiche istituzioni.
Che cosa rimane, oggi, di quelle lotte, di quelle conquiste? Tanto? Poco?
Se ci limitassimo a esaminare il problema nell’ottica della cultura professionale degli psichiatri, verrebbe da dire, a volte, che siamo tornati indietro. Manca quella carica di impegno civile, che aveva permesso il raggiungimento dei traguardi del passato. La nuova psichiatria, organizzata ora sul territorio, sembra aver solo cancellato gli aspetti più eclatanti della violenza e dell’oppressione manicomiale. Organicamente incanalata dentro la ideologia privata, consumistica della Società Nordamericana di Psichiatria, la psichiatria italiana sembra mantenere una visione clinica biologica, fortemente catalogante. E questo accade anche perché l’università e le scuole di formazione in psichiatria sono rimaste fuori dal profondo cambiamento operato nella pratica dei servizi. Si assiste a una paradossale situazione, descritta nel libro di Robert Whitaker “Anatomia di una epidemia”: c’è una forte psichiatrizzazione non solo dei pazienti, ma anche dei comportamenti delle persone “sane”. C’è soprattutto una enorme (non c’è nessuna esagerazione a usare questa parola) medicalizzazione di tutti gli strati della società, dagli adulti, agli anziani, agli adolescenti e persino ai bambini. Le industrie produttrici di psicofarmaci distorcono le leggi etiche che dovrebbero regolare l’uso dei farmaci, determinando l’abuso e una dipendenza dell’intera popolazione mondiale all’uso degli psicofarmaci, presentati, falsamente, come privi di effetti collaterali importanti. In questo modo, la psichiatria continua a svolgere il suo ruolo di controllore delle contraddizioni sociali. Le psicoterapie non trovano un loro riconoscimento finanziario da parte del servizio pubblico – se non quelle cognitive, per i loro tempi ridotti – determinando una loro prevalente presenza all’interno del circuito privato, che privilegia ancora una volta il potere economico e quello culturale. E ci sarebbe da chiedersi, peraltro, se in un sistema che si basa sul profitto, privo di controlli esterni, la prescrizione e il numero delle psicoterapie sia sempre giustificato. Non ci sono più i manicomi, ma ci sono nuove istituzioni che mantengono logiche manicomiali: residenze per disabili mentali, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, case di riposo per anziani, centri di accoglienza per migranti, ecc. Nella maggior parte dei servizi Psichiatrici Ospedalieri di Diagnosi e Cura si contengono fisicamente i malati. Le risorse per i servizi di salute mentale sono fortemente ridotte rispetto agli standard minimi necessari.
Questa è sicuramente una faccia della realtà: quella della crisi del welfare state, del trionfo della logica liberista del mercato nella sua dimensione globale. Ma, poi, per fortuna c’è anche un’altra realtà. Ci sono tanti Dipartimenti di Salute Mentale che funzionano bene, modellati sui bisogni della persona bisognosa di cura; esiste una cultura delle porte aperte, della non contenzione, saldamente basata su tante esperienze concrete. Ci sono Associazioni di familiari e di Pazienti sempre più consapevoli della loro funzione di vigilanza e di proposizione. Non dimentichiamo che nel 2015 è stato raggiunto in Italia un altro storico obiettivo: la chiusura di tutti gli ospedali Psichiatrici Giudiziari. Anche in questo caso, la sua applicazione soffre di ritardi e di contraddizioni, certamente da correggere. Ma tutto questo non può diminuire il valore di questo straordinario risultato. Nella psichiatria mondiale, in questi anni, sono sorte istanze, movimenti, che, anche se con ambiguità e rischi, riaffermano quella linea di libertà e di responsabilizzazione di cui ho parlato in questo libro. Si chiamano riabilitazione psicosociale, empowerment, recovery, open dialogue. Vengono proposte dall’estero, spesso in contesti che continuano a mantenere i manicomi e si presentano con l’ideologia e la terminologia inglese (la lingua ufficiale dell’impero) che affascina i tifosi della modernità e della tecnica. Nella sostanza però queste proposte vogliono criticare, limitare il potere della psichiatria biologica, dell’industria dei farmaci. Riattualizzano, a volte con più chiarezza, il protagonismo del soggetto in opposizione a quello delle istituzioni. Esistono reti, organizzazioni internazionali che si muovono dal basso, libere dalla corruzione del potere… Insomma la partita è ancora aperta, tutta da giocare, da rigiocare. In questo senso, mi rendo conto, sempre più, che tanti giovani non sanno chi sia stato Basaglia, non conoscono quel passato che ho cercato di testimoniare in questo libro. È come se il motore di ricerca dei Google virtuali collocasse la memoria di quei momenti tra le ultime sue proposte. Sì, penso che ci sia la necessità di raccontare, di testimoniare, non per trovare modelli nel passato, ma per creare, nell’ascolto e nel confronto, le possibilità di nuovi percorsi di libertà e di emancipazione.
A.M.: Dovremo aspettare la fine dell’estate per poter leggere “Il sale e gli alberi”, ha già in programma presentazioni del saggio?
Ernesto Venturini: In questi tempi di coronavirus è difficile fare previsioni. Penso naturalmente che una presentazione sarà assolutamente necessaria a Imola, e spero anche a Bologna o a Mantova, ma conto sul coinvolgimento delle reti delle organizzazioni dei familiari, degli utenti psichiatrici, di Psichiatria Democratica, delle università. Penso che finiremo per utilizzare inevitabilmente questi nuovi strumenti di comunicazione che sono le lives – i collegamenti on line di più persone.
Questi prossimi mesi, che dovrebbero coincidere con l’uscita dalla fase più drammatica della pandemia da coronavirus, spero possano essere utili per liberarci degli aspetti negativi che l’hanno caratterizzata: il peso delle disuguaglianze sociali, il decadimento morale che ha portato a considerare, in alcune circostanze, un differente valore della vita (tra anziani, malati, sani, vecchi, giovani), l’incapacità di un sistema sanitario di progettarsi in una dimensione globale nella prevenzione e nella promozione della salute, essendo stato mortificato dai tagli economici e dalle logiche neoliberiste. Ebbene io penso, allora, che abbiamo bisogno di recuperare i valori forti della nostra memoria. Un’occasione ci potrà essere offerta, forse, dall’anniversario dei quarant’anni della morte di Franco Basaglia, che avverrà in agosto. So già che verranno pubblicati libri in occasione di quest’evento, che ci saranno inchieste, interviste sui giornali. Io stesso sto pubblicando, in questi giorni, un libro sull’esperienza di Gorizia, per conto di Armando Editore. Entro l’anno uscirà un altro, importante libro sull’impatto del pensiero di Franco Basaglia nel mondo, edito dalla Università di Oxford, dove è presente anche un mio capitolo. Ma penso soprattutto che questo nostro libro – ”Il sale egli Alberi” – che uscirà subito dopo la data della morte di Franco – il 29 agosto – costituirà non tanto un retorico omaggio, quanto una possibilità per riaprire dibattiti, riflessioni, partendo da quell’esperienza…
In questa intervista, lei, Alessia, si sarà resa conto che ho parlato molto di Franco Basaglia. L’ho fatto probabilmente perché Lei, all’inizio, mi ha stimolato a farlo, chiedendomi di parlare del mio primo incontro con Franco. Le sono grato per la possibilità che mi ha offerto, anche se, in realtà, io stavo continuamente pensando al mio ultimo incontro con Franco, che è avvenuto poco meno di un mese prima della sua morte… Ma di questo, non è il caso di parlarne, ora.
A.M.: Salutiamoci con una citazione…
Ernesto Venturini: Considerando il piacere offertomi da questa circostanza, sarò generoso e le proporrò ben due citazioni, che sono, però, di uno stesso autore – Antoine de Saint-Exupéry – e recuperano, in qualche modo, il tema del viaggio.
La prima riprende una delle citazioni che sono presenti nel libro; chiarisce il valore della motivazione in un’impresa di alto significato politico, etico, scientifico, quale la deistituzionalizzazione. Dice Saint-Exupéry:
“Se vuoi costruire una nave, non devi per prima cosa affaticarti a chiamare la gente a raccogliere la legna e a preparare gli attrezzi; non distribuire i compiti, non organizzare il lavoro. Ma, invece prima, risveglia negli uomini la nostalgia del mare lontano e sconfinato. Appena si sarà risvegliata in loro questa sete si metteranno subito al lavoro per costruire la nave”.
La seconda rimanda alla ricerca di senso per quel viaggio, che è la nostra vita:
“Fai della tua vita un sogno, e di un sogno, una realtà.”
A.M.: Ernesto, la nostra lunga chiacchierata è stata di sicuro illuminante avendomi permesso di accedere ad un periodo storico che, seppur recente, non è propriamente argomento di discussione per la mia generazione. Ha profondamente ragione quando scrive – un poco, in modo malinconico – che non si conosce la figura di Franco Basaglia, la si cita per la Legge 180 come se fosse una sorta di leggenda. È vero! Non ci è stato presentato l’uomo né la lotta ideologica che è stata affrontata, noi (e qui oso parlare per la mia generazione) abbiamo dato per scontati “i diritti civili ai folli”. Il mio augurio ai lettori è di riuscire a viaggiare nel tempo tramite le sue parole tanto da provar a tratteggiare il passo ed il suono del celebre psichiatra, nonché il lavoro che lei ha svolto e che svolge quotidianamente. La ringrazio vivamente per la lectio che mi ha concesso e la saluto con le parole dello stimato Carl Gustav Jung: “Quanto più sei intelligente, tanto più folle è la tua ingenuità. Le persone ultraintelligenti sono matte complete nella loro ingenuità. Non possiamo salvarci dall’intelligenza dello spirito di questo tempo cercando di essere più intelligenti ancora ma accettando ciò che è più contrario alla nostra intelligenza, ossia l’ingenuità. Non vogliamo però neppure diventare apposta degli stolti rendendoci schiavi dell’ingenuità, ma saremo piuttosto degli stolti intelligenti. Questo ci conduce al senso superiore. L’intelligenza si unisce all’intenzione. L’ingenuità non conosce intenzioni. L’intelligenza conquista il mondo, mentre l’ingenuità conquista l’anima. Fate dunque il vostro voto di povertà di spirito per poter essere partecipi dell’anima.”
Written by Alessia Mocci
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Citazioni inedite tratte da“Il sale e gli alberi”
Bellissima intervista e certamente la figura di Besaglia merita questo ed altri monumenti: egli capì che occorreva dare finalmente dignità umana al malato di mente e anche una piena libertà esistenziale, cioè una possibilità di scelta di come gestire la sua esistenza, come tutti gli altri malati o sedicenti sani. Che non significa anarchia, ma obbedienza alle regole civili. E qui sorge il problema centrale. Mio cognato A…, classe 1967, ha vissuto 49 anni alternando periodi di ricovero coatto e di libertà assoluta, in cui il padre morto appunto nel 2016, non riusciva a controllare le sue intemperanze i suoi egoismi e non rare prepotenze. Solo quando la malattia raggiungeva la sua fase acuta, il TSO dava una specie di requie al familiare. Gran parte del problema era dovuta a un deficit educazionale che aggravava il disturbo psichico. Io voglio bene a mio cognato e lui a me, ma talvolta sono arrivato a provare per lui sentimenti molto negativi. Chiudere gli ospedali psichiatrici è giusto, come lo sarebbe chiudere i lebbrosari a vita, come c’erano una volta in alcune città italiani. Mi auguro almeno che non ci siano più. Il paragone potrebbe sembrare infelice, ma io ho scoperto sulla mia pelle che la pazzia ‘mischia’. Lasciare sola la famiglia a gestire l’ammalato di psicosi, educato in maniera negativa, mi pare un crimine quasi peggiore che la conservazione dell’istituto dei manicomi. La soluzione delle case famiglia, per quanto onerosa potrebbe rappresentare un tentativo notevole. Nella fattispecie di mio cognato, stante la sua situazione caratteriale e patologica, solo in essa lui accetta,obtortissimo collo, di assumere regolarmente i farmaci essenziali per la sua cura. In famiglia ciò non sarebbe possibile.
A LUCIDEZ E O PENSAMENTO QUASE QUE ESPONTANEAMENTE DIALÉTICO COMO ERA O DO FRANCO BASAGLIA, COLOCA O ERNESTO VENTURINI COMO UM DOS MAIS IMPORTANTES ATIVISTAS HOJE A LEVAR ADIANTE O IDEÁRIO LIBERTADOR , DEMOCRÁTICO E HUMANISTA BASAGLIANO. CONHECI O BASAGLIA QUANDO ERA MUITO JOVEM EM SUAS ANDANÇAS DE TRABALHO E LUTA NO BRASIL. MAS TAMBÉM TIVE O PRIVILEGIO DE ALGUM CONVÍVIO COM O ERNESTO VENTURNI QUE SÓ VEIO CONFIRMAR À ASSERTIVIDADE E OS FUNDAMENTOS PARA A CONSTRUÇÃO DE UMA SOCIEDADE ONDE A LIBERDADE É TERAPÊUTICA. PARABÉNS ERNESTO POR SUA CONTRIBUIÇÃO NO AVANÇO DAS LUTAS, SOCIAIS, POLITICAS E HUMANITÁRIAS EM NOSSO PAÍS.