“Il Canto di Salomone” di Toni Morrison: l’audace volo dell’Amore
Leggere un libro è un’esperienza esistenziale in cui so di dover affrontare in un corpo a corpo l’Altro che è in me, e l’Autore, per difendermi da entrambi e al contempo nutrirmi delle sostanze procurate in quell’Atto. Per dirla, con Eliade e con Einstein, è lo spazio-tempo sacro in cui avviene l’incontro col Trascendente.

Di solito l’incontro finisce con un abbraccio fra i due Attori, in genere, come nel caso di Toni, tra il me e uno spettro vitale. Che esso sia ancora tra noi o Altrove è indifferente. Mi capita talvolta di rapportarmi con autori che, vivi, quando rispondono, in genere mi ringraziano. Al che io ri-ringrazio loro, in un minuetto che (spero) non avrà mai fine.
Non so scrivere recensioni normali perché non lo sono io, normale, mentre trasmetto alla tastiera e al video una reazione che non risulta sempre chiara, nemmeno a chi ha già letto il libro, a volte neppure a me. Ma non potrei essere leggermente più didascalico? No, non voglio, perché non so.
A un quesito analogo, rivoltogli da un allievo, la risposta di Heidegger, per come me la ricordo, fu: “la domanda è corretta, purtroppo non… etc… etc…” Io invece me la cavo dicendo: “mi dispiace, non sono buono!”
Spesso mi capita di leggere per due terzi un libro e mi rendo conto che: stavolta non avrò nulla da ri-dire. Anche per il romanzo di Toni ho pensato: Mi dispiace cara, ma hai già detto tutto tu…
La stessa cosa mi capitò per La ricerca dell’assoluto di Balzac, poi invece… Anche per Il Canto di Salomone, poi invece… Ah, un’altra cosa… quando commento un libro scrivo più di me che del libro stesso. Da intendersi, più della mia vita che della sua.
Ho recentemente assistito al video-incontro fra alcune scrittrici e ricordo una frase di Emma Fenu, che riporto anch’essa a memoria: “Parlo di voci femminili in quanto sono state negate, non da questioni di valori, di stile o di altro, ma dalla Storia.”
Tra i pochi libri che conosco, scritti da persone di colore residenti in America, tutti parlano del problema razzistico che, per chi l’ha vissuto quotidianamente, è il problema.
La protagonista de I sotterranei di Kerouac era mulatta, e tale aspetto è stato appena accennato dall’autore, non essendo determinante. Non era il problema di Jack, anzi, di Leo Percepied, né di Mardou Fox. Il problema era il loro rapporto umano, non quello etnico.
L’angoscia t’induce a porti interrogativi, le cui risposte non si trovano da nessuna parte, ma che possono essere espresse per iscritto, senza che quasi te ne accorga. Questo indusse Henry Miller e Stephen King a scrivere, rispettivamente, Rosy crucifixion e It.
Ognuno de-scrive il suo problema serbandolo per qualcun Altro. Il caso di Henry è un po’ diverso, in quanto è l’io narrante a soffrire e a scrivere al contempo. Questo introduce un’ulteriore prospettiva, che è da esaminare in un’altra occasione.
Il problema di Toni è la negritudine non tanto di sé, ma dei suoi personaggi. Il termine è stato introdotto da Sartre perché sia analizzata l’originalità e la rivendicazione dei neri, della propria dignità e del proprio valore, mettendola a confronto con la cultura bianca. E qui casca l’asino, di non so più quale colore.
Il rischio non è di porre un confronto legittimo, ma di cadere nella contrapposizione. Come affermare che le donne sanno descrivere meglio degli uomini le aulenze in genere. Il che è vero, ma l’essenziale è consentire a ciascun umano di dare il suo contributo a quella che si definisce cultura, che deriva da colere, occuparsi dei frutti del cosmo perché fioriscano e rechino gioia all’uomo.
Tale determinazione è egoistica, ma è inevitabile per chi rinuncia, al momento, all’atarassia, che è la liberazione dalle passioni e fine ultimo di ogni percorso umano, e che ha il pregio di poter essere sempre rimandata, e che io perseguirò, forse, negli ultimi cinque minuti della mia esistenza.
Toni è una scrittrice appassionata come poche altre. Volendo descrivere la sua scrittura non posso esimermi dal far notare come sia denso il groppo narrativo, a cui non sfugge nessuno degli attori: tutti sono analizzati nei particolari più minuti e apparentemente insignificanti.
Per il gusto della provocazione, Toni scrive, all’inizio del capitolo 10: “Non avrebbe mai dovuto inventare quella storia complessa per mascherare la sua ricerca della grotta; qualcuno avrebbe dovuto farle delle domande. E poi le menzogne dovrebbero essere semplicissime, come la verità. Un eccesso nei dettagli è semplicemente un eccesso…” Lo stesso vale per il tuo romanzo, cara Toni.
Ignoro se ti sia mai domandata quale possa essere il motivo per cui l’evento cruciale della storia succede all’interno di una grotta. E quale consapevolezza gli autori abbiano maturato, uscendo da quell’antro. Il protagonista è Macon Dead, figlio di Macon Dead, nipote del primo Macon Dead della storia, che ha ricevuto il suo cognome all’atto della sua affrancatura da schiavo.
Dopo di lui, il nominativo intero rimane un dovere, come lo fu in Italia, al nord fino a qualche decennio fa, dove si alternava in doppia generazione.
Mio nonno Cristoforo detto Stufanein, era figlio di Andrea, a sua volta figlio di Cristoforo detto Stufanein, figlio di Andrea, figlio di Cristoforo detto Stufanein e pare che la sinfonia durasse dal diciassettesimo secolo. Poi nacque il primogenito Enrico, che non ebbe figli, e solo il terzo, Renzo, chiamò il figlio Cristoforo detto Stufanein, ma qualcosa nel meccanismo si era già rotto. Esiste ancora, in arsan, il termine archerver, ricreare, che si usa quando si dà il nome del nonno al nipote.
Nel nostro Sud la faccenda è ancora attuale. Mio suocero di Pixuntum, Aniello, era figlio di Aniello, sposatosi ad Amalfi, ha avuto un figlio che si chiama Andrea, poiché la legge italiana vieta ormai la replica doppia di nome cognome. Da notare che Aniello e Andrea sono i nomi dei due patroni cittadini. La cosa mantiene ancora la sua validità, quando si consiglia caldamente che il primo nato maschio abbia il nome del nonno paterno. A Pixuntun tale obbligo è tuttora cogente e sottinteso.
Ogni tanto, se mi si permette, vorrei tornare al romanzo in esame. All’ultimo Macon Dead viene affibbiato uno scutmaj (in reggiano; ma è scangianome in campano e nickname in inglese) di cui non va fiero, Milkman, per via del rapporto un po’ ossessivo della mamma nei suoi confronti. Suo padre è un tipo autoritario che pensa soprattutto (quasi solo) a far soldi. Porta rispetto per tutto quello che può contribuire alla floridezza economica. È diventato più ricco della maggior parte dei bianchi che frequenta. E ha una grande abilità nel fare tutto quello che contribuisce a raggiungere il suo scopo: essere il numero uno dal punto di vista finanziario.
L’autrice, en passant, rileva che le due gambe di Milkman si differenziano per lunghezza, per cui ha sempre camminato in modo goffo. Padre e figlio non vanno d’accordo: “Milkman temeva suo padre, lo rispettava, ma sapeva, a causa della gamba, che non avrebbe mai potuto emularlo.” Su ogni cosa (dall’uso della cravatta alla scriminatura dei capelli), la pensano diversamente.
Macon Padre e Ruth, la madre, si provocano di continuo. Quando il primo malmena per l’ennesima volta la seconda, viene finalmente affrontato e atterrato dal terzo (incomodo, da quando è nato) figlio, sotto gli occhi esterrefatti del resto della famiglia (le due sorelle Corinthians e Lena). A tu per tu, il padre racconterà poi al figlio, in modo pacato, i motivi del suo disaccordo con Ruth. Lo stesso farà di lì a non molto la madre. Entrambi i genitori cercano di conquistare il suo consenso.
La cosa più tragica che la madre gli confida è che lui è stato concepito grazie a un intruglio che le aveva preparato Pilate, sorella di Macon padre, che cercò di farla abortire, non volendo che ci fosse un altro maschio nella sua vita. Le due donne, insieme, lottarono per farlo nascere.
Macon padre aveva sofferto per la presenza ingombrante del suocero, che era, non a caso, il medico (nero) più ricco della città e a cui dovrà una sostanziosa parte delle sue finanze. Secondo la moglie, Macon nascose deliberatamente le sue medicine, favorendone in tal modo il decesso.
Mi rendo conto di non essere stato granché chiaro, quindi amplio ulteriormente il discorso. Pilate e il fratello non si parlano da anni. Lei è ragazza madre, mentre sua figlia è a sua volta madre di Hagar, una creatura di qualche anno più vecchia di Milkman.
I due ragazzi s’innamorano, nonostante la differenza di età. Per lei sarà un amore che durerà all’infinito. Per lui la passione cesserà, dopo qualche tempo. Quando lui decide di abbandonarla, lei tenta più volte di ammazzarlo (sei volte in altrettanti mesi), sempre fallendo per mancanza di abilità, forza e furbizia.
La sintesi (altra conturbante qualità di Toni) viene data da Milkman quando dice: “devo andarmene da quella casa e non voglio essere in debito con nessuno quando me ne andrò. La mia famiglia mi sta tirando matto. Papà vuole che diventi come lui e che odi mia madre. Mia madre vuole che la pensi come lei e che odi mio padre. Corinthians non mi rivolge la parola; Lena non mi vuole più vedere. E Hagar mi vuole vedere incatenato al suo letto oppure morto. Vogliono tutti qualcosa da me, capisci cosa voglio dire? Qualcosa che secondo loro ho soltanto io. Non so che cos’è, o che cosa vogliono veramente.”
Gli risponde Guitar, l’amico del cuore, ottima persona, peccato che faccia parte di un’associazione segreta di neri che ogni tanto vendica la morte di un omologo etnico, uccidendo un bianco, scelto a caso, ma mai innocente: non esistono, secondo Guitar, bianchi innocenti. Questa sua missione esistenziale “ha a che vedere con l’amore per noi. L’amore per te. Tutta la mia vita è amore”, non tanto odio per loro. Il suo pensiero è improntato da una sorta di giustizia matematica: che pareggia cioè i conti.
“Vogliono la tua vita, cribbio!” – grida a Milkman.
L’iper-protettiva Ruth affronta e minaccia Hagar: “Lui è la mia casa in questo mondo.”
“E io sono la sua”.
È una dichiarazione di una guerra che è fondata su qualcosa di essenziale: il possesso di Milkman. Interessante (nulla non lo è in questo romanzo) la reazione di Hagar alla frase di Ruth (“Se fai tanto di torcergli un capello, con l’aiuto di Dio giuro che ti sgozzo.”): “Cercherò di non farlo. Ma non posso prometterle niente.”
Fra Ruth, borghese legatissima al padre, e Pilate, (tra l’altro, assurdamente priva di ombelico), figlia di un nerissimo ex schiavo, le differenze non mancano.
“Erano così diverse, quelle due donne. Una nera, l’altra color limone. Una con il busto, l’altra completamente nuda sotto il vestito. Una si era allontanata, ma non si era mai allontanata da casa. L’altra aveva letto soltanto un manuale di geografia ma era stata da un capo all’altro del paese. Una del tutto dipendente dal denaro per vivere, l’altra indifferente.”
Entrambe amavano con tutta l’anima Milkman. Non solo: “entrambe avevano un’intensa comunicazione postuma con il padre che era loro di grande aiuto.”
Un dialogo…
Aspetta, dimenticavo un fatto importante: la scrittura densamente descrittiva di Toni Morrison è a blocchi, che sono staccati, ma non scollegati da quella dei dialoghi, che sono spesso interminabili e senza cadute di toni. A Toni non cadono mai i toni: atroce verità! Lei sa utilizzare anche un espediente di tipo mistificatorio: per almeno due (anzi, tre) volte accumula aspetti descrittivi in un amalgama così obnubilato, che dà al lettore la sensazione di non aver capito granché. Per cui egli è obbligato a rileggere il passo, e più lo fa, meno è certo di avere compreso i fatti. Questo crea un’atmosfera magica, a cui, obtorto collo, occorre sottostare.
Il dialogo fra le due anziane è terribile. Riporto solo le battute di Pilate, dopo quella di Ruth: “Nessuno vive per sempre”:
“Ah, no?”
“Proprio nessuno?”
“Non vedo perché.”
“Non c’è niente di naturale nella morte. È la cosa più innaturale che ci sia.”
Ora riammetto nel discorso la cognata, che svolge il ruolo di spalla:
“Pensi che la gente debba vivere per sempre?”
“Certa gente sì.”
“E chi decide? Chi deve vivere e chi no?”
“La gente stessa. Certi vogliono vivere per sempre. Certi no. Per me sono comunque loro a decidere. La gente muore quando vuole e se vuole. Nessuno deve morire, se non vuole.”

Il pensiero di Ruth corre a Milkman, mentre quello di Pilate s’era già appollaiato sulle spalle del nipote. Il mio, di pensieri, vola a mia nonna Linda, bella e arcigna come poche, che diceva che sol i cuioun e moren!, che raggiunse tale condizione a ottantasette anni non ancora compiuti.
Da notare che Milkman afferma di non aver visto il padre morire, ma solo dopo che gli avevano sparato. Della madre sa soprattutto che è morta mentre la dava alla luce: “È morta e subito dopo sono nata io. Ma era già morta quando io venni fuori, non l’ho mai vista in faccia. Non so neanche come si chiamava.”
Ruth è in perenne contatto col padre che è Altrove. E che la informa di tante cose: le dice di cantare (sing!) e di tornare nella grotta, dove, a suo tempo vide suo fratello Macon accoppare un vecchio dalla pelle bianca, per poi accorgersi che questi aveva dei sacchetti pieni di pepite d’oro.
Pilate aveva consigliato al fratello di non prelevare l’oro, per evitare di essere arrestati.
“… quando ti prendi la vita di un’altra persona, questa poi ti appartiene. Ne sei responsabile. Non puoi sbarazzarti di qualcuno uccidendolo. Resta lì, e diventa tuo.”
Pilate era tornata da sola nella grotta a recuperare un oggetto.
“La vita è la vita. Preziosa. E il morto che uccidi è tuo. Resta comunque con te, nella tua mente. Così è meglio, molto meglio, se ti porti dietro le ossa ovunque vai. In questo modo ti libera la mente.”
E ti sei messo a posto la coscienza per l’eternità.
C’è poi la descrizione di un traffico di ossa, appartenenti a un bianco o a un nero, chissà!, e di un maldestro tentativo da parte di Milkman di trafugare un sacchetto, entrando con Guitar a casa di Pilate… ma lasciamo perdere, anche perché qui avviene uno degli obnubilamenti di cui dissi, cosicché lascio all’eventuale lettore vergine il compito di sgranocchiare qualcosa. La mattina dopo il tentato furto, Milkman si sveglia: “si guardò le gambe. La sinistra pareva lunga quanto l’altra.”
Qualcosa sta forse cambiando in lui?
Un fatto mi colpisce: “Macon amava suo padre. Aveva un rapporto d’intimità con lui; suo padre l’amava, aveva fiducia in lui e trovava degno di lavorare ‘proprio al suo fianco’.” Anche Milkman lavora col padre, svolgendo l’umile e alienante mansione di fattorino. Macon padre era un’altra persona, da ragazzo, ma “qualcosa dentro di me andò in tilt”, e successe quando vide il genitore ucciso e “riverso a terra”.
Milkman sbatté a terra suo padre, per difendere la madre. Macon, Pilate e Ruth adorano la memoria del padre. Milkman non ha mai adorato nessuno. Allora, va’ a cercare le tue origine, Milkman, e forse capirai. Ci sarebbe andato anche senza che il lettore glielo suggerisse.
S’imbatte nella levatrice che fece nascere Pilate, che gli comunica due cose. La nonna “era pazza del marito. Più che pazza. Capisci cosa intendo dire? Certe donne amano troppo intensamente. Vigilava su di lui come una chioccia. Tutto di nervi. Un amore tutto di nervi.”
Viene inoltre a conoscenza del nome del nonno: Jake. La nonna amava Jake e sicuramente il figlio. Pilate e Ruth amano Milkman. Hagar ha una passione mortale per lui. Del nonno so poco, ma era di certo una brava persona. Macon padre ama il potere economico. Milkman ignora ancora se ama qualcosa o qualcuno.
Le donne amano l’Altro.
Ma l’Altro ama?
Se sì, chi? Il Sé?
Vedremo…
Dei tre Dead, Milkman è l’unico che ha ancora la possibilità di rinvenire una risposta. Per questo vuole visitare la grotta. A caccia di uno scheletro. Ma se gli capitasse di trovare un sacchetto pieno d’oro, se ne farebbe una ragione… Dead è uno strano cognome.
Negro taluni lo ricollegano a nekròs, morto. Nel caso di Dead si trattò forse di un “lapsus calami” da parte di uno yankee probabilmente ubriaco. Qual era il suo cognome originale? Dread? In tal caso il terrore, perdendo la r e colorandosi del colore della morte, ha annullato gran parte del suo potenziale.
Milkman compie un ulteriore viaggio alla ricerca delle sue radici, grazie alle quali arriverà a porsi le domande giuste e a tentare di rispondere. Nella grotta non trova alcunché di importante: già questa è una bella scoperta. Ora ha il sospetto che la zietta, che tanto lo ha amato, protetto e coccolato, e che lui ha già tentato di derubare nel passato, nasconda da qualche parte i sacchetti d’oro del vecchio bianco. Quell’oro rimane il motivo ufficiale (non so se il più importante) della sua ricerca. Il suo è un lungo viaggio intermittente, che ogni volta termina e, d’un tratto, inizia di nuovo.
Giunge a Shalimar, che la gente del posto chiama Scialliimoon e dove abitano tanti Solomon quanti sono gli Aniello a Pixuntum. Sente dei bambini che intonano un canto che parla di Jake, l’unico figlio di Salomone. Scopre poi che, Solomon-Salomone era un negro volante, uno che riuscì a fuggire via volando.
Milkman da fanciullo era rimasto molto deluso quando scoprì di non poter volare. Sogna ancora di volare, “non con le braccia tese in fuori come le ali di un aeroplano, né tese in avanti come Superman in un tuffo orizzontale, ma flottando, piano, nella posizione rilassata di chi se ne sta disteso sul divano a leggere il giornale.”
Ora si entusiasma quando scopre che quel Jake è suo nonno!, e che la nonna era la zia di un’anziana del paese, che si chiamava Singing Bird. Il bisnonno Solomon aveva ventuno figli, ma il solo che cercò di portar con sé volando fu Jake: perciò è definito l’unico figlio. Pilate sentiva la voce del padre che gli sussurrava: canta… sing…, e ora Milkman capisce che non gli chiedeva tanto di cantare, quanto di ricercare l’antenata.
Tornato a casa, va da Pilate, che prima lo chiama Tesoro e poi gli dà una bottigliata in testa, facendolo svenire. Viene poi a scoprire che Hagar è morta, togliendogli quel pensiero che un po’ lo tormentava. Finalmente, avverbio assurdo, anche Pilate ha visto la Morte. Milkman comunica alla zia che le ossa che lei tiene da anni nel sacchetto non appartengono al bianco ucciso da Macon, bensì al padre e che è giunta l’ora di seppellirle
I due consanguinei partono in macchina per Shalimar, per porgere l’estremo omaggio a Jake. La scena della sepoltura è tanto bella che non mi va di commentarla, col rischio di sporcarla. Ma è veramente bello osservare come la donna senza ombelico e l’uomo con la gamba più corta sappiano sublimare con quel rito funebre la loro diversità. Pilate chiede a Milkman di cantare e lui inizia a intonare l’unica canzone che conosceva, che aveva imparato a Shalimar.
“Senza mai abbandonare il suolo, Pilate poteva volare.”
Ora Milkman è in grado di affrontare la vita.
L’inizio sta ormai finendo…
E tutto è bene quel che finisce bene.
Ma nulla mai termina davvero…
… e temo che non lo farà mai, ora che è tornato Guitar, il quale si sente tradito, e vuole per sé la vita di Milkman.
Che, volteggiando verso l’amico, può finalmente dire: “Ti serve? Eccola.”
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Toni Morrison, Il Canto di Salomone, Sperling & Kupfer, 2012