FEFF 2020: Sezione Competition – “Gundala” e “Impetigore” di Joko Anwar
Al 22esimo Far East Film Festival di Udine gli unici due titoli provenienti dall’Indonesia, Paese che in anni recenti ha saputo senza dubbio offrire del buon prodotto (si veda “Night Bus” di Emil Heradi, film di chiusura del FEFF20), sono entrambi diretti dallo stesso regista, l’ormai navigato Joko Anwar, e tuttavia risultano profondamente diversi per tematica, ambientazione, stile, riuscita.

La storia di “Gundala”, la cui uscita in patria precede di neanche due mesi quella di “Impetigore” (il 2019 si è rivelato un anno particolarmente proficuo per il cineasta), prima ancora che al cinema si trova nelle fumetterie ma, fatti salvi i fan e il popolino alla ricerca di intrattenimento spettacolare e nulla più, quasi nessuno si sarebbe risentito alla notizia di un suo mancato adattamento per il grande schermo.
Forse un discorso simile pecca di occidentalcentrismo, ma se, come si ritiene, la settima arte ha più di altre la capacità di farsi comprendere e apprezzare in ogni angolo del pianeta, senza avvalersi di troppi intermediari e quale che sia il contesto di appartenenza, allora riesce difficile appellarsi ai valori di un’identità culturale magari non facilmente condivisibile senza i dovuti avviamenti, dal momento che le problematiche sorgono piuttosto sul piano della pura narrazione, la cui logica e coerenza non dovrebbero conoscere confini geografici.
In breve, la Giacarta contemporanea assiste impotente a un’escalation di violenze perpetrate lungo le sue vie: dalle bande di teppistelli alla criminalità organizzata, sempre più prevaricatori abusano del proprio potere per estorcere, quando non distruggere, ogni sorta di beni alla povera gente.
Fin da piccolo, l’orfano Sancaka ha imparato a farsi gli affari propri e non immischiarsi in quelli degli altri: le occasioni in cui ha ceduto al suo buon cuore gli hanno procurato cicatrici sia esteriori che interiori. Dalla sua ha però la padronanza delle arti marziali che, unite al potere trasmesso dalla folgore e a un costume indossato all’occorrenza, gli permettono di divenire Gundala e affrontare da solo anche un’orda di trenta malintenzionati.
Ora, le criticità non stanno certo in un tale superpotere (esiste chi non ha mai notato evidenze di impossibilità scientifiche fra gli Avengers?): a far perdere la bussola, all’unità del soggetto ma anche allo sventurato spettatore, è piuttosto la girandola di trovate che mettono in moto le gesta compiute dal protagonista in età adulta, espedienti che non si collocano al limite dell’assurdo, bensì lo scavalcano proprio.
Su tutte, l’iniezione in pacchi di riso di larghissimo consumo di un siero che controlla la moralità dei nascituri quando ancora si trovano in gestazione (e beninteso, non delle loro madri) o, addirittura meglio, l’assurda attestazione da parte della comunità di esperti degli effetti deleteri sui feti che, per l’appunto, non sono venuti al mondo; a questo si aggiunga la volontà per mezzo di un simile atto delittuoso di sovvertire l’ordine sociale, mira prima celata e molto, molto più tardi manifestata da un signore della mafia con gli artigli nella camera dei deputati e in centinaia di orfanotrofi in tutto il territorio, essendo lui stesso cresciuto trovatello e avendo montato dentro di sé una rabbia troppo a lungo repressa.

A rendere più ardua la visione contribuisce uno sviluppo globale che rischia di scadere in lungaggini (si sfiorano le due ore di durata), senza contare che il superamento delle sfide non viene neppure portato a termine a causa di un indesiderabile (ma evidentemente obbligatorio) finale aperto; l’intera vicenda è ulteriormente zavorrata dall’interpretazione monocorde del primattore, che rende anempatico il proprio supereroe come pochi hanno saputo fare, d’altra parte trovandosi privo di elementi caratteriali su cui intavolare un’adeguata analisi psicologica.
Le risorse migliori di Anwar, che pure – non va ignorato – è principale responsabile della sceneggiatura di “Gundala”, vengono fatte fruttare nel successivo “Impetigore” (titolo internazionale di “Perempuan Tanah Jahanam”, letteralmente “La ragazza dell’inferno”), termine che in lingua italiana individua l’impetigine, un’infezione superficiale della pelle frequente nei bambini e al contempo grave malattia cutanea osservabile quasi esclusivamente nella donna durante la gravidanza. Per l’appunto anche in questo caso le femmine incinte svolgono un ruolo di prim’ordine, influenzando in maniera persino più evidente l’evolversi del plot.
Maya (Tara Basro), giovane donna nuovamente senza genitori, dopo essersi salvata da un’aggressione armata parte alla volta del villaggio natio, sperando di trovare risposte che in qualche modo giustifichino l’accaduto. La accompagna la migliore amica Dini (Marissa Anita), interessata soprattutto ad aiutare la ragazza a mettere le mani su una sontuosa casa che le spetta in eredità.
Il centro abitato, naturalmente assente dalle mappe e quasi del tutto isolato dalla civiltà urbanizzata, ospita in effetti un edificio che giace abbandonato da oltre 20 anni, il quale però arriva quasi a decadere allo stato di MacGuffin: il generoso lascito smarrisce in toto l’interesse dei personaggi stessi nel momento in cui viene inequivocabilmente associato a un maleficio compiuto tempo addietro che si manifesta nell’assenza dell’epidermide nei neonati. Pareva strano che nel paesucolo non si aggirasse alcun bambino e ve ne fossero invece molti sepolti al cimitero…
Considerata in tutte le pieghe del suo intreccio, la trama potrebbe magari non convincente fino in fondo; tuttavia ad appagare è soprattutto il ritmo, sostenuto benché non inutilmente forsennato e garantito da altre e più nobili tecniche al di là dei classici colpi di scena intesi a far “saltare sulla poltrona”, disseminati in maniera un po’ troppo indiscriminata quando la minaccia non si rivela poi affatto presente. Il senso d’angoscia cresce in special modo con l’approssimarsi dell’epilogo, contraddistinto dalla non banale rinuncia ad un vero e proprio happy ending.
Squilibri se ne rinvengono poi anche nel copione in sé: basti pensare al linguaggio spinto cui si ricorre solo nella prima sequenza, senza cioè tessere alcuna relazione con i dialoghi a seguire; alla spigliatezza dimostrata da Dini di fronte a quelli che crede degli stupratori (per aver salva la vita arriverebbe a cedersi carnalmente: non è questa forse una risoluzione audace?); fino all’impiego extradiegetico del beethoveniano “Inno alla gioia” una volta che il sortilegio viene annullato, alzata d’ingegno al contrario un po’ kitsch e spavalda nell’operazione decontestualizzante.

Complessivamente, l’efficacia con cui viene alimentata l’atmosfera tormentosa di questo horror “delle province lontane”, costruito con innegabile dedizione e per questo capace di incuriosire fino all’ultima inquadratura, sta nella scelta di soffocare le tracce della civiltà contemporanea fino a farle soccombere di fronte l’inumana atemporalità del quotidiano vissuto nel villaggio, dove, come molti altri episodi, pure le rappresentazioni ancestrali e ricche di fascino del teatro giavanese di marionette vengono ritratte mediante un uso sapiente della fotografia firmata da Ical Tanjung (accreditato a ragione anche in “Gundala”), il quale lavorando spesso di contrasti chiaroscurali squarcia i bui profondi della foresta e delle notti con tinte calde, soprattutto aranciate, attraverso cui non manca peraltro di esaltare l’atrocità delle non poche scene sanguinolente.
Voto a “Gundala”:
Voto a “Impetigore”:
Written by Raffaele Lazzaroni
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Rubrica Far East Film Festival
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