“Le cose crollano” di Chinua Achebe: il silente crepuscolo del popolo igbo

È assurdo e al contempo doveroso reagire al libro cominciando, a crollo avvenuto, dalla nota finale, in cui sono riportate alcune parole dell’autore, figlio di genitori di etnia igbo, ri-convertiti da adulti in missionari protestanti.

Le cose crollano di Chinua Achebe
Le cose crollano di Chinua Achebe

Achebe dice che riconosceal diavolo i suoi meriti”: aver dato al suo popolo “grandi unità dove prima ce n’erano di piccole e frammentarie”, poi, più mestamente, aggiunge: “E ha dato loro un linguaggio con cui parlarsi. Se non è riuscito a dar loro una canzone, ha dato loro una lingua per sospirare.”

Alberto Pezzotta, traduttore e curatore, m’informa che il titolo deriva da una poesia di W. B. Yeats, The second coming:

“Things fall apart; the centre cannot hold;”

“Le cose crollano; il centro non può reggere;”

La poesia termina con due versi sciagurati, dai toni velenosamente biblici:

“And what rough beast, its hour come round at last,
Slouches towards Bethlehem to be born?”

“E quale mai informe animale, giunta finalmente la sua ora,
Si avvicina a Betlemme per nascere?”

E se non fosse altro che un pitone reale? – mi chiedo me, nemmeno dopo il crollo è possibile rispondere. L’unica cosa da fare è aspettare i nuovi eventi…

Il libro di Achebe è una canzone atrocemente bella, che solo un figlio di due culture antagoniste poteva intonare in modo così semplice e accorato.

La sua cultura africana gli è madre. La sua parte europea gli è padre.

Lo spiega il vecchio Uchendu alla fine del capitolo 14: “Gli uomini appartengono alla terra dei loro padri quando le cose vanno bene e la vita è dolce. Ma quando c’è dolore e amarezza, trovano rifugio nella terra della loro madre.”

Si dice madre terra, non padre terreno, che al massimo può diventare celeste, e non sempre in grado di consolarti.

È in essa che affondano le radici di una pianta, piccola come un igname (yam) o immensa come un baobab. Sui rami potranno poi brillare i fiori e poi i frutti, se la stagione lo consentirà.

La madre è hic et nunc, il padre illic et deinde, a volte numquam.

Il villaggio di Okonkwo, il tragico protagonista, è basata su un’aristocrazia di tipo platonico. Non comanda un unico despota, ma un consiglio sociale, in cui solo chi dà prova di virtù può far parte.

Esiste in tutti i casi della vita il concetto di valore, per cui chi vive da scioperato, come Unoka, padre di Okonkwo, è mal giudicato dal prossimo. Questo spinge le persone di buona volontà a non cadere nella meschinità.

Per colpa di Unoka, Okonkwo vive un’infanzia miseranda e una giovinezza in cui nulla gli è concesso, nemmeno una moglie giovane, eppure, col padre ancora vivente, “aveva cominciato a porre le fondamenta per un florido futuro.”

Comincia a dissodare campi e a piantare centinaia di piantine di igname, grossi tuberi da cui si ricava la farina, e fa di tutto per far dimenticare al mondo di essere figlio di uno accattone. Diventa mezzadro, che da quelle parti ha diritto a un terzo del raccolto. Per tutto questo, Okonkwo è contento di quello che sta dimostrando a se stesso e agli altri.

Okonkwo sa come farsi valere, quando dice a un compaesano privo di titoli: “Questa è una riunione di uomini”. Il tipo aveva osato contraddirlo in pubblico e lui l’aveva trattato come si fa con una donna: “Okonkwo sapeva come uccidere lo spirito di un uomo.”

Secondo la credenza degli igbo, ad ognuno spetta il suo chi, che è “un’entità che accompagna e determina il fato di ognuno”. Il suo chi è forte, e grazie a lui è diventato un lottatore famoso.

Secondo la credenza del suo popolo, se fai una cosa, anche semplicemente sorridere o chinare il capo, è perché lo sta facendo il tuo chi. Il chi è la tua idea che t’accompagna durante tutta la vita. Platone non avrebbe affatto scosso la testa.

Per pagare la morte di una donna, il consiglio dei nove villaggi decide che i nemici debbano pagare un’ammenda, e consegnare una vergine, nonché un ragazzino innocente, di nome Ikemefuna, che vengono affidati a Okonkwo, come se fosse “un re”. Non male per chi ha cominciato la sua fortuna partendo dal quasi nulla.

Ikemefuna, crescendo, supera il trauma della separazione dalla vecchia famiglia, e diventa parte della nuova. Okonkwo gli vuole bene, pur senza essere dolce con lui, come non lo è mai con alcuno.

Non si deve far nulla durante un periodo dell’anno chiamato la “Settimana della Pace”, nemmeno picchiare una donna. Gesto che Okonkwo sente il bisogno di fare, perché “non era uomo da smettere di picchiare qualcuno, neanche per paura di una dea.”

Okonkwo viene punito per questo e lui, ligio alle leggi, espia serenamente il suo peccato.

È molto in pensiero per l’indolenza che Nwoye, suo figlio, mostra di avere. Nwoye sviluppa presto una grande affettività per il giovane Ikemefuna.

Dopo tre anni, l’anziano Ezeudu comunica a Okonkwo che l’Oracolo delle Colline e delle Caverne ha deciso che si dovrà uccidere Ikemefuna e che sarà meglio che lui, Okonkwo, non partecipi all’esecuzione. Okonkwo avverte i suoi che dovrà portare il ragazzo alla sua famiglia d’origine.

Forza! Abbiamo ancora tanta strada da fare,” disse al ragazzo, che si sta mostrando titubante e per nulla felice di tornare a casa.

Durante il tragitto, pur essendo a ogni istante consapevole dell’evento, a cui non avrebbe mai voluto mancare, “Okonkwo distolse lo sguardo. Sentì il colpo. Il vaso cadde e si ruppe nella sabbia. Sentì Ikemefuna gridare: ‘Padre mio, mi hanno ucciso!’ E corse verso di lui. Offuscato dalla paura, Okonkwo estrasse il proprio machete e lo finì. Aveva il terrore di essere considerato debole.”

Okonkwo non la finisce più d’angustiarsi e di disprezzarsi per quanto è accaduto. Lui, che è un “guerriero famoso”, ora si sente “diventato una donna”, perché ha ucciso un ragazzo (che amava come un figlio) e continua a penare per questo.

A casa di un amico di nome Obierika sta arrivando un pretendente alla mano della figlia di quest’ultimo, e gli uomini (e non le donne) stanno tracannando del vino di palma “molto buono e forte perché la schiuma traboccava”…; e il mio pensiero corre alla scena dei miei zii contadini che, seduti alla mensa, assaggiano dell’ottimo lambrusco grasparossa.

Okonkwo ammette:Chi ha spillato questo vino conosce il suo mestiere.”

Il mondo degli igbo, come quello dei miei antenati, non è per la parità sessuale: se si dice che in certi luoghi i figli appartengono alla madre (semper certa est), scuotono la testa: “sarebbe come dire che la donna sta sopra l’uomo quando fanno i bambini.”

La donna è un valido strumento in mano al suo uomo. E se le cose lo permettono, se ne possono avere quante se ne vuole. Anche di vanghe…

Nelle case avite reggiane, la sira al marî druvèva la mujēra, ma doveva essere lei a chiedere il permesso di essere adoperata. Vrîv druverom stasira?

Nel villaggio accadono delle empietà (ai nostri, non ai loro occhi). Le coppie di gemelli, immediatamente dopo nati, vengono ogni volta abbandonati nella foresta. Una figlia non ha il diritto di mangiare le uova fresche (ma può farlo di nascosto, con la complicità della madre: ma guai se Okonkwo le scopre!).

La moglie di Okonkwo ha avuto dieci figli, nove dei quali morti prestissimo. “Uno di questi era un grido patetico, Onwumbiko – ‘Morte, ti supplico’. Ma la morte non ci fece caso: Onwumbiko morì all’età di quindici mesi. Altri due fratellini si chiamarono Ozoemena, ‘Possa non succedere un’altra volta’, e “Onwuma, ‘Morte, fa’ ciò che vuoi’. E la morte lo fece.”

Quando morì Onwumbiko, uno stregoneche digrignava sempre i denti”, mutilò il suo cadavere, che poi prese per la caviglia, trascinò nella Foresta Nera, dove lo seppellì. Alla famiglia fu dato l’ordine di non osservare il lutto. Una ragione c’era per tutte queste nefandezze: la creatura era un ogbanje, la cui anima apparteneva a un bambino morto, che ogni volta tentava di rientrare nell’utero materno per rinascere (e morire poco dopo).

Okonkwo involontariamente uccide un ragazzo del villaggio e viene condannato a sette anni di esilio nella terra di origine della sua mamma. Nel suo vecchio villaggio, un disgraziato giorno arriva un uomo bianco in bicicletta, che viene prontamente ucciso, e poi il suo strano cavallo di ferro viene legato all’albero sacro.

Chinua Achebe
Chinua Achebe

Qui qualcosa inizia a scricchiolare.

Il saggio Uchendu è un vero filosofo, e lo dimostra dicendo: “Il mondo non ha fine, e ciò che è bene presso un popolo è abominio presso un altro.”

I cristiani sono decisamente pandemici perché, ovunque arrivano, creano il vuoto, riempiendo lo spazio Altrove. Nwoye ne è affascinato. E decide di seguirli. Quando Okonkwo lo scopre, decide che non è più figlio suo, e forse non lo è mai stato.

Un cristiano osa uccidere un pitone sacro e i cittadini del villaggio giustamente lo vogliono punire. Per fortuna il tipo muore per conto suo quella notte stessa. E c’è chi commenta che “gli dei erano ancora capaci di combattere le loro battaglie.”

Passati i sette anni d’esilio, Okonkwo ritorna al suo villaggio, non senza dopo aver offerto una “piccola noce di cola” a chi l’aveva a suo tempo accolto, “solo perché è bene che tra parenti si stia insieme.

Un certo Mr. Brown, usando una certa sua psicologia, fa molti proseliti, non solo fra gli ultimi, ma anche fra i ben piazzati. Spiega che nelle scuole cristiane s’impara a leggere e a scrivere, e chi saprà farlo costituirà la classe dirigente del futuro.

In nome del suo Dio e della sua grande Regina che è in Inghilterra, accoglie un po’ tutti: anche i genitori di gemelli, e addirittura gli osu (tipo paria o iloti, a dir si voglia), che vivono ai margini della società, e che non hanno nemmeno il diritto di usare il rasoio. La chiesa cristiana ormai imperante se li piglia senza discutere, e ordina subito loro di tosarsi un po’. Il fatto viene mal digerita dagli igbo normali ma, obtorto collo, dopo qualche polemica, accettata.

Ad ogni novità evangelica, qualcosa nell’edificio preesistente cigola sempre di più. La colomba Mr. Brown si ammala e viene sostituito dal falco reverendo James Smith.

La casa sta ormai cedendo, dopo che il cristiano Enoch ha strappato la maschera a un egwugwu, un uomo del villaggio che impersonifica lo spirito di un antenato. Non esiste sacrilegio più empio nel mondo degli igbo.

Quando i maggiorenti del villaggio si recano da Smith, questi dice all’interprete Okeke: “Di’ loro di andarsene da qui. Questa è la casa di Dio, e preferisco morire piuttosto che vederla sconsacrata.”

Okeke astutamente traduce: “L’uomo bianco dice che è felice che siate venuti da lui in amicizia a esporre le vostre rimostranze. Sarà felice di risolvere la cosa con le sue mani.”; sa bene che gli igbo, specie quelli fuori di testa, prendono sempre tutto alla lettera. A Smith le cose vanno relativamente bene, e nessuno gli torce un capello. Ma la sua chiesa gli viene distrutta.

Quando i sei igbo maggiorenti vengono convocati dal commissario, questi li blandisce, fa loro depositare a terra il machete e infine li fa catturare, tenendoli reclusi per due giorni senz’acqua né cibo, fino a che gli igbo non gli versano l’ammenda.

Nel villaggio viene poi indetta un’adunanza. Di lì a poco spuntano cinque kotma (da court messenger, messi del tribunale), il cui capo ordina che si sciolga all’istante l’assemblea.

Per nulla intimorito, Okonkwoestrasse il suo machete”. E la testa del messo cadde a fianco del suo corpo in uniforme.”

Quando gli Altri arrivano, non comprendendo il comportamento di Obierika, che si era limitato a dire che Okonkwo non era più lì, “il commissario si arrabbiò diventando rosso in faccia”. Vuole che glielo si consegni senza più tergiversare!

Obierika gli dice:Possiamo portarti nel posto in cui si trova, e forse i tuoi uomini potranno aiutarci.”

Il commissario si dimostra ancora poco intuitivo:Una delle abitudini più fastidiose di questa gente, pensò, era il loro amore per le parole superflue.” C’è qualcosa che la suddetta gente non è in grado di fare.

Alla fine giunsero all’albero da cui pendeva il corpo di Okonkwo, e si bloccarono.”

Nessuno nel villaggio potrà in alcun modo aiutarli.

Disse uno degli uomini: ‘Per un uomo è un abominio togliersi la vita. È un’offesa contro la Terra…’”

Solo degli stranieri già infetti possono toccarne il cadavere e seppellirlo.

Caro Chinua, credo di aver capito la tua tragica lezione, che non hai voluto intorpidire con una morale confezionata, inscatolata.

Ognuno, se vuole, può coglierla, ma per farlo deve per forza chinarsi a terra.

Non c’è crollo più nefasto di quello che non produce alcun rumore.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Chinua Achebe, Le cose crollano, La nave di Teseo, 2016

 

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