“Zibaldone di pensieri” di Giacomo Leopardi: vorrei trascorrere la mia vita a Recanati
C’è chi sogna le Canarie, io vorrei trascorrere la mia vita a Recanati.

Quando entrai nella terza stanza di casa tua, con quella biblioteca, mi venne il magone. Povero Giacomo, ci perdesti gli occhi e la schiena, sopra quei diecimila libri! Procomberò sol io, dicesti! E così fu.
E macinasti il tutto e lo riversasti nella putredine di mondo, diluendolo con acutezza nelle “Operette” e quel tuo genio nei Canti. Oddio!
Mi sono finora scordato che dovevo leggere, rimanda oggi, rimanda domani, l’opera che più lo rappresenta! E mo’ che faccio? Ritorno indietro? Sì. Quei due tometti mi stanno aspettando da anni a casa, in corridoio, sul lato sinistro del mobile indiano.
Stavo pensando a te, Giacomo, che tanto te la prendi col disprezzo che prova l’uomo per le cose naturali, dichiarandole imperfette. Ogni cosa ha la sua personale perfezione. Purtroppo. Nasce, vive, muore. Che ne è del verso sognato da John Keats: “A thing of beauty is a joy for ever?”
Perfectus est significa che qualcosa morì. Io ho tanto bisogno d’imperfezione. Chi ce ne ha un po’ da regalarmene?
Leo, dici che la disperazione non è altro che un languore di speranza. Un uomo apparentemente senza speranza vive in un torpore che assomiglia a un germoglio di piacere. Tutto c’entra, poco o tanto.
L’uomo non riesce affatto a svuotarsi dalla speranza. Non ce la fa assolutamente. Ha sempre bisogno di attaccarsi a qualcosa. Trasforma la disperazione, cioè quello che sarebbe un’assenza in una presenza, una nuova forma di speranza.
Così dici tu a proposito di una vita senza dolori, che l’uomo fatica ad accettare, come una vita senza piacere. Per cui si cerca, in assenza di dolori, qualcuno da odiare, stoltamente. Altrimenti, l’uomo sarebbe libero. Ma lo sanno tutti, e lo dice anche Erich, che c’è una folle paura della libertà.
Poveri noi!
Mi piaci Giacomo, quando dici che gli uomini grandi, quando parlano di sé, diventano maggiori, e anche quelli piccoli diventano qualche cosa, essendo essi, in tal situazione, per forza di cose, in assenza di affettazione e di sofisticheria.
Ma tu lo sai che ci sono due diversi tipi di io, uno che emerge dal profondo e inonda il mondo ed è di quello di cui tu ti occupi, e poi c’è quello negletto e disperato che annaspa nella vita, ogn’ora osservato e vigilato ed anche compromesso dal vizio del prossimo, diciamo un io industriale, alienato dirà Karl.
Dove ogni operaio, in catena ciclica, infinita, dà il suo umile contributo, costruendo quell’anima gemente, quella bestia che soffre, destinato a sociale e imperitura sofferenza.
E questo vale per l’umile figura di un Da Vinci, per l’altrettanto umile figura di un Dante, ed anche della serva che acconcia giornalmente la tua stanza, zoppa e disgraziata. Questo secondo e male augurato io prescinde dalla statura del personaggio, e gli fa compiere le peggiori sciagure suicide che si possano immaginare.
E l’io, per non essere sopraffatto, deve inondare, senza dominare, deve immergere la realtà in sé, senza essere lambito dalle altrui correnti. Deve capire ed essere capito in piena e reciproca libertà. Ego ergo sum super e sub infinitum.
Il cogito lasciamolo a quel Renato di cui hai sicuramente sentito parlare.
Giacomo, quanto più del tempo si tiene conto, più pare che basti, più se ne getta, più pare che n’avanzi. È quel che pare che va discusso. Jorge dice che Macedonio accarezzava l’idea, e mai la realizzava, di sdraiarsi sulla nuda terra a mezzogiorno, chiudendo gli occhi e pensando a nulla, per dimenticare le distrazioni, potendo in tal modo, mai avvenuto, di risolvere in un satori l’enigma del cosmo.

In modo analogo, mio padre quando vedeva la prima rondine in cielo, faceva una capriola, vivendo con quell’atto il cambiamento imminente della stagione, del tempo che cambiava. Il tempo meteorologico, quello fisico, quello psicologico, è sempre il tempo.
A gh’è piò’ tèimp che véta!, dicono dalle mie parti.
Ce n’è più che della vita, di tempo, perché ce lo coltiviamo mentre essa sparisce. Alla fine, ne abbiamo accumulato troppo e non riusciamo più a consumarlo. Ti dirigi in un luogo, con calma, poiché hai tempo ancora, e lo raggiungi. Compi quello che è il tuo compito e torni al luogo di partenza.
Il ritorno ti risulterà assai più lungo, specie se hai fretta, e se hai scordato quell’invenzione essenziale per esistere, lo smartphone. Uno dei motivi per cui sono qua. Sono tutte finzioni. Illusioni.
Ognuno segue la sua geodetica, che è la risultante delle geodetiche altrui e della tua volontà di seguire la tua geodetica. Io, di questo ho bisogno, della mia voce geodetica.
Giacomo: “perché il sacrificio precisamente per altrui non è possibile all’uomo…”
No. Non accetto. Il mio pensiero va a quel povero Chrétien che si è immolato su quel monte sperduto, attestato anche solo come allegoria, come favola edificante. Chi ha avuto quel pensiero mi emoziona. Ti potrei citare i casi di Massimiliano Maria Kolbe e di Salvo D’Acquisto, ma ti dovrei anche spiegare cos’è successo alla Germania il secolo scorso, ed è troppo penoso. Non è sacrificio rinunciare alla carne di quaresima, è rito. Un’immagine razionale del sacrificio è quella del judo. Rinunciare al proprio equilibrio per farlo perdere al proprio avversario. Pronti a rialzarsi appena lo si è proiettato altrove. È un sacrificio di sé e per sé. Quel che pare difficile è avere la certezza che anche chi si sacrifica per gli altri, non lo faccia in realtà per sé. Ogni volta tu giungi a conclusione. Io no, finora mai.
Giacomo, più lingue si sanno, dici, più possibilità ci sono di cogliere la mutevolezza del reale. È questo che mi spinge a raccogliere parole, giochi di parole, motti e proverbi dei dialetti italiani, alcuni dei quali così magnifici, come il celebre “chi rice a verità vol’esse accisu”, o quello che non si può dire di noi due, oppure lo si può dire più che di chiunque altro: “ogni cuioun a ghà la so pasioun”, solo che tu ed io ne abbiamo così tante che, o siamo mille volte coglioni, o savi per l’eternità.
Il problema lo indichi alla fine: “Colla parola (l’idea) prende corpo, e quasi forma visibile, e sensibile, e circoscritta.” Ed è quello che i simbolisti cercavano di esprimere qualsiasi immagine, qualsiasi idea, adoperando qualsiasi parola. Ma il fine era, ed è, anche per me, l’inesprimibile.
Una simile ansia prese anche l’Oristanese, quando fu carcerato dal Romagnolo.
Occorre forse quella dose di silenzio che, vedrai, prima o poi riusciremo ad ottenere da quell’improvvida e claudicante bestia che è la Natura.
Se ti dico Arthur, che ne dici? Nulla? Mi dispiace tanto, caro!
Giacomo, il mondo è illusione, nulla è realtà, ma il bimbo vede il tutto nel nulla e l’adulto il nulla nel tutto. Perché ogni tanto fingi, o scegli sinceramente?, di essere adulto?
Che tutto il cosmo sia un’illusione spazio-temporale, ci sta arrivando pian pianino la scienza, ma che chi ci sta arrivando lo sia è ancora un’assurda probabilità. E se non fosse così, chi sarebbe colui che ti sta pensando come realtà?
Com’è bello tener ben stretta a sé la materna illusione! E cullarla come se fosse una bambola!
Giacomo. Il piacere è breve e finito, termina subito appena colto, ma l’attesa di una gioia è infinita quanto una vita. Questa è la tua visione, che io apprezzo. Che non condivido.

Ho collezionato ogni sorta di oggetti nella mia vita, per ultimo i tuoi pensieri, ed ogni volta ho cercato un unico essere che poteva calmare la mia brama e, quando lo raggiungevo, esso si spegneva all’istante. Dovrei darti quindi ragione. Ma non lo faccio.
Perché questo mi propongo, in questo mio cammino. Raggiungere e mantenere. Cosa? E chi lo sa?
Sempre in onore a quel verso sommo che tu non facesti in tempo a conoscere.
Non ti fu superiore quel ventenne poeta, ma ti precedette in questo in saggezza. Non conta saper raggiungere quell’attimo di felicità che poi non esiste, essendo un attimo. Ma saper vivere il resto dell’esistenza in virtù di esso.
Cosa bella è
in quest’ora
gioia eterna.
Giacomo, quello che tu dici dell’assenza della passione nella creazione artistica mi colpisce e ferisce, mi tocca proprio in fondo all’anima. Quando cerco di creare, soffro, ma quando comincio a credere nella creazione, l’unico sentimento, assai freddo, è l’urgenza di finire. E lo sento, in tutta la sua grettezza, quando ho appena finito. Per questo Carmelo dice che l’uomo di genio fa quel che può, non quel che vuole.
Perché non può creare un universo altrui. Uno che diverga anche solo di un micron da quel che gli appartiene e a cui egli sottostà.
Dopo il discorso cambia. Terminato l’atto, ecco che l’azione della creatura su di me si fa sempre più affaticante e mai appagante. E non mi viene in quei momenti il dubbio che non sia nient’altro che una pia, religiosissima, illusione! Sensazione che mi prende dopo, purtroppo, amico mio.
Sento in me sorgere la sensazione dell’entusiasmo per l’opera, del mio indiarmi in essa e del chiedermi, alla fine, se non siano tutti degli infidi e falsi demoni. Come quelli che ci accoglieranno festosi, secondo il “Bardo Thodol”, al di là dello Stige, che poi scompariranno e ce ne dovremmo fuggire, Giacomuccio mio, ali in spalle, verso lidi non meno eterei o terracquei, inseguiti dai loro perfidi fratellastri. Anch’essi illusori.
Giacomo, quando ti chiedi se il bello è cosa eterna, allora io rimpiango che tu non abbia mai conosciuto quel mio amico, il solito John, e il suo mai abbastanza citato verso più grande, di cui ti ho già parlato. Forse troppo? Sareste stati grandi amici, con me come collante della vostra unione.
O il cosmo è un’illusione o non lo è. Ma se è illusione, essa pare eterna, come la sua realtà. Mai la bellezza cesserà di essere, ove un’anima l’abbia raccolta e, se quest’anima è innamorata di un suo simile, tale miracolo divino sarà a lui donato e giungerà a corredo eterno della loro stirpe.
Il tuo terrore dell’oblio può mitigarsi, se rammenti che, per Jorge, esso è fatto di memoria, e tratta di condizioni umane. Avere terrore dell’odio è forse avere terrore dell’uomo. Cosa sia un cosmo privo di umanità, terribilmente disperso in un’assurda entropia, non è cosa che ci riguarda, né che ci debba inquietare.
Giacomo, caro mio, ti amo quando dici che un’idea oscura sarà sempre espressa con parole chiare, mentre un’idea troppo chiara rischia di essere esposta con allusioni oscure, quando chi scrive sa troppo di quel sta trattando. Apposta, mi sono venuti meno i riferimenti, per consentirmi una chiarezza che una libresca sovrabbondanza avrebbe impedito.
Stavo pensando alla giovinezza che fugge tuttavia. Non alla mia, a quella degli altri, che sono giovani ora.
Ieri mi sono trovato a fissare una ragazzina di anni sedici o giù di lì, molto carina, senza essere bellissima, ma splendida sì, per le sue diverse carinerie. Diverse da cosa? Ho provato a immaginarla un po’ più matura, sui ventitré, poi quasi quarantenne, cinquantaduenne, settantacinquenne, e ultracentenaria. Il viso, nella mia fantasia rimaneva somigliante, ma cambiava notevolmente la superficie della pelle, qualche ruga in fronte, qualche ruvidezza nelle guance. Essa diveniva via via un già visto, una banalità, peggio: una bieca normalità. La giovinezza per questo è amabile, perché dà il senso della novità.
Quando sfioravo il viso dei miei figli appena nati e fino all’età che precedette la loro pubertà, provavo una sensazione di pur scemante purezza, come se fossi venuto a contatto con una creatura immortale e indifferente a qualsiasi entropia del cosmo. Un essere giovane è una gioia per sempre. Una perenne e pleonastica immortalità. È un’idea, casualmente fatta persona. La persona, la maschera, invecchia, l’idea no.
Bene. Male, anzi. Ieri sera ho finito di vivere il tuo secondo Zibaldone. E non trovo più il terzo. Eppure l’avevo sistemato nello scaffale, insieme agli altri. Quando ho preso in mano il secondo, gli ho strizzato l’occhio e gli ho detto: Spetta pure il tuo turno, non temere, che verrà! E oggi non lo trovo più nel luogo dove l’avevo riposto.
Quand’ero un ragazzo ingenuo, pochissimi decenni fa, avevo raggiunto un’intima confidenza con una parrocchetta ondulata (che un esperto mi qualificò per femmina), a cui nessuno conferì mai alcun nome.
Ogni tanto la liberavo nell’ambiente casalingo ed essa svolazzava felice e poi s’andava a rintanare tra le pieghe della tenda, da cui era difficile staccare. Se prendevo la scala, essa mi guardava dall’alto scherzosa, e quando m’avvicinavo, all’ultimo istante, si librava, resa ancor più gaia per essermi ancora sfuggita. Ma quando decideva lei, mi si poneva accanto, camminando sulle sue zampette. Al che l’avvicinavo, le accarezzavo la piccola capa, e lei mi mostrava, con la sua docilità, che era l’ora di rientrare a casa.

Le mettevo il dito indice appresso le sue zampine e lei ci saliva, docilissima. E si tornava insieme, così solidali, alla gabbietta. Un giorno decisi di andare a passare le mie giornate in mansarda, dove era stata ricavata una camera con un letto, e portai meco la pennutella, all’interno della sua ferrea abitazione. E ogni tanto rinnovavo per lei quel gioco della libertà, che tanto pareva gradire, anche se si svolgeva ora in un luogo un po’ più angusto.
Un giorno volli compiere un esperimento, di quelli assurdi, che rovinano l’uomo. Di quelli che distruggono il mondo. Tenni aperto apposta il lucernario, usando il solito piede rotto di un mobiletto. E liberai la cocorita. Che mantenne le promesse che avevo calcolato nella mia improvvida mente, svolazzando da un sito all’altro, senza mai perdersi.
Dopo aver osservato un po’ quella sua allegra monelleria, ormai certo della sua fedeltà, cessai di occuparmi della sua sorte, per cui presi un libro in mano e cominciai a scorrerne le pagine.
Sentii un fremere d’ali più vivo del solito e alzai gli occhi.
La tipa si era involata per chissà dove, senza nemmeno salutare.
Dov’è finito il tuo terzo Zibaldone, Giacomo mio?
Ma che scherzi mi stai combinando, amico caro?
Dovrò trascorrere tutta una vita prima di rinvenirlo?
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, Mondadori 1989 (Volume I e II)