“Il sale e gli alberi”: citazioni tratte dal saggio sulla salute mentale curato da Ernesto Venturini
“[…] Sempre devi avere in mente Itaca –
raggiungerla sia il pensiero costante. […]” – “Itaca” di Costantino Kavafis
Tra qualche mese, ai primi di settembre, la casa editrice mantovana Negretto Editore pubblicherà “Il sale e gli alberi – La linea curva della deistituzionalizzazione“ curato da Ernesto Venturini.
Un importante saggio sul processo di liberazione promosso nel campo della salute mentale in Italia e nel mondo con particolare attenzione per la lotta al manicomio e la deistituzionalizzazione; con postfazione della studiosa, storica, scrittrice e coordinatrice del Centro di servizi per il volontariato bolognese Cinzia Migani, dello psicologo del Dipartimento di salute mentale di Imola Ennio Sergio; del giornalista Valerio Zanotti; e dall’attuale rappresentante della Unione Regionale Associazioni per la Salute Mentale Emilia-Romagna Valter Galavotti.
Ernesto Venturini ha conseguito la laurea in psichiatria a Roma. A Gorizia e a Trieste collaborò con Franco Basaglia. Nel 1979 per Einaudi ha curato una lunga intervista-riflessione con Basaglia sull’allora recente Legge 180 pubblicata in “Il giardino dei gelsi”. Ha concorso alla chiusura dell’ospedale psichiatrico di Imola e ha condotto una significativa esperienza sulla salute mentale in vita comunitaria.
Nel 2010, per Franco Angeli Edizioni pubblica “Il folle reato. Il rapporto tra la responsabilità dello psichiatra e la imputabilità del paziente”, un saggio redatto con Domenico Casagrande e Lorenzo Toresini, un volume che prende spunto da uno scritto di Franco Basaglia e la moglie, la psichiatra Franca Ongaro, “Il problema dell’incidente”, che mette a confronto le sentenze e le perizie di alcuni casi delittuosi nei quali il medico è stato imputato di omicidio colposo per il crimine commesso dal proprio paziente.
Inoltre, l’autore in qualità di esperto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha accompagnato il processo di riforma psichiatrica in Brasile dal 1991 al 2006, riportando i processi ed i risultati dell’esperienza italiana.
In attesa di potersi concentrare sulla lettura dell’attesissimo “Il sale e gli alberi” si è pensato di presentare – in anteprima – una selezione di citazioni tratte dal saggio.
Citazioni tratte da “Il sale e gli alberi”
“Vale la pena di precisare, naturalmente, che la critica è rivolta alla istituzionalizzazione e non all’istituzione, che rappresenta, invece, tutto ciò che risulta stabilmente fondato su leggi, norme, usi, o che indica il complesso di nozioni fondamentali di una disciplina, secondo il senso etimologico di instituere (collocare dentro).”
“Giorgio Gaber, un cantautore italiano degli anni ’70, era solito recitare una strofa che criticava certe forme di intellettualismo alla moda, produttrici di ideologie e di parole: “Una idea, un concetto, una idea/ finché resta una idea,/ è soltanto una astrazione./ Se potessi mangiare una idea, avrei fatto la mia rivoluzione”.”
“Anche nel campo della psichiatria abbondano gli intellettualismi e le ideologie. Ci sono, ad esempio, due strade che, a parole, si sono sempre dichiarate connesse l’una all’altra, ma che, in realtà, quasi mai si sono incrociate: la teoria e la pratica. È stato Franco Basaglia, che, per primo, ha guardato ad entrambe, in coerenza con il pensiero di Antonio Gramsci, e ha riproposto la dialettica della “praxis-teoria-praxis”.”
“Il 1978 è l’anno di promulgazione della legge di riforma psichiatrica – conosciuta come la “legge 180”- che confluisce successivamente nella legge di riforma del sistema sanitario nazionale. La legge sancisce la fine del manicomio: la malattia mentale, al pari di qualunque altra malattia, è trattata negli ospedali generali, il controllo del matto cede il passo alla cura della persona.”
“Le infermiere, in questi giorni, mi cercano per poter raccontare le loro esperienze: “Lo sa che le pazienti si sono rivolte a noi, chiamandoci per nome: e questo non era mai successo!… Ofelia usava le scarpe e le calze… Gigliola scriveva cartoline e usava le posate. Può immaginarselo!… La Pace ha rivisto il proprio figlio dopo trent’anni… Nessuno era incontinente…”. I familiari – assenti in ospedale – erano diventati presenti sul luogo di vacanza, quasi ogni giorno, pieni di attenzione. Andavano alla pensione portando con sé i loro bambini. Ma era soprattutto il personale infermieristico che era cambiato: allegro, entusiasta, motivato, con la voglia di raccontare il “miracolo” di cui era stato protagonista…. Che cosa era successo? Come nel caso di Valerio, è bastato credere nella trasformazione, è stato sufficiente uscire, materialmente, da un luogo stigmatizzato, concepito per controllare, perché l’impossibile diventasse possibile!”
“Il percorso di una istituzione che cambia riproduce nel suo piccolo e con le debite proporzioni il percorso dell’umanità verso la sua libertà con tutti i suoi ostacoli, i suoi nemici e i suoi amici. L’uomo non può negare e allontanare una parte di sé da sé stesso, se vuole percorrere quella strada, perché come dice Shakespeare nel «Sogno di una notte di mezza estate»:
«Gli innamorati e i folli hanno una intelligenza così fervida, una fantasia così fluida, che soli riescono a comprendere ciò che la fredda ragione non riesce a comprendere».”
“Nelle esperienze di deistituzionalizzazione la critica al potere non è avvenuta all’interno di un processo rivoluzionario: è avvenuta all’interno di un’operazione utopica. Ha costituito quel “senso della possibilità” di cui parla Robert Musil nelle prime pagine del L’uomo senza qualità, ossia “la capacità di pensare tutto quello che potrebbe egualmente essere, e di non dare maggiore importanza a quello che è, rispetto che a quello che non è”. A questa “volontà di costruire, a questa consapevole utopia che non si sgomenta della realtà, bensì l’affronta come un compito e un’invenzione”, la de-istituzionalizzazione italiana ha saputo dare spessore politico, riuscendo a coinvolgere istituzioni e persone e trasformando, oltre i confini del proprio specifico, anche altre parti di società.”
“C’è un’immagine famosa, usata per illustrare la teoria della gestalt: le linee di questa immagine possono rappresentare sia due profili specularmene rivolti l’uno verso l’altro, sia un vaso per collocare dei fiori. Per vedere l’una o l’altra immagine, dobbiamo forzare il nostro sguardo e porre, di volta in volta, un’immagine in primo piano e l’altra sullo sfondo. Userò questa riflessione come una metafora: lo sguardo della psichiatria istituzionale ha come una sorta di esigenza strutturale – quella di porre sempre la soggettività dei pazienti sullo sfondo, sia quando chi guarda sia lo psichiatra del manicomio, sia quando si tratti dello sguardo del nuovo psichiatra che lavora nelle strutture della riforma.”
“L’ottica della psichiatria istituzionale è simile all’effetto ingannevole che si verifica negli affreschi usati nella decorazione delle case, sia negli interni che negli esterni. Nel trompe l’oeil tutto è artefatto: le figure, private di una vera prospettiva, compaiono in un’esattezza siderale, immerse in un etere vuoto, le ombre non hanno una vera profondità. Analogamente la psichiatria finisce per credere alla simulazione – più falsa del falso – dove il segreto dello sguardo è l’apparenza. Mimando e oltrepassando il reale, la psichiatria/trompe l’oeil getta un dubbio sul principio di realtà: espropria il reale attraverso l’eccesso delle sue apparenze.”
“Al centro del potere politico – ma anche di un certo sapere scientifico – c’è uno spazio simulato. La malattia, la sua cura e la sua riabilitazione non sono una funzione reale, ma un modello di simulazione perfetto, quasi credibile (una specie di realtà virtuale), le cui azioni manifeste sono solo l’effetto realizzato…. Anche in questo caso la domanda “ma le persone, i loro bisogni, la loro vita dove sono?” rimane priva di risposta.”
“Alcune persone mi hanno confidato il loro disagio nel constatare da parte dei pazienti psichiatrici una sorta di mancanza di quella naturale reazione mimica, che si instaura quando si viene fissati; sembra assente in loro ogni naturale reciprocità. È come se certi pazienti, soprattutto se istituzionalizzati o fortemente regrediti, quasi si lasciassero attraversare dallo sguardo. È una peculiarità che si riscontra in certe popolazioni orientali, ma è totalmente estranea al nostro mondo occidentale.
La diversa intenzionalità dello sguardo è espressa, talvolta, con termini linguistici differenti. In tedesco, ad esempio, si usano due parole differenti: sehen e schauen.”
“Sartre nell’”Être et le Néant”, del 1943, descrive il momento in cui un soggetto si rende conto, inaspettatamente, di essere guardato, sorpreso magari in un atteggiamento riprovevole. Dinanzi a questo sguardo dell’altro, il soggetto non è più padrone della situazione, perché questa, nella realtà, ha acquistato una dimensione diversa: improvvisamente l’avvenimento appare altro, da come il soggetto lo stava vivendo dentro di sé.”
“Lo sguardo altrui dà al mio tempo una nuova dimensione. Nell’essere guardato sono spinto in una nuova condizione della esistenza, dove ho la percezione unitaria di tre dimensioni: quella dell’io, del me e degli altri. Il sentimento di vergogna, che provo in simili circostanze, diventa la coscienza di essere un oggetto – al di fuori di me stesso.”
“Lo sguardo della deistituzionalizzazione diventa realtà quando i volti degli utenti, dimessi e rivolti verso il basso, si trasformano in volti curiosi, attenti; quando gli sguardi dei bimbi, che entrano in contatto con i pazienti in occasione di alcuni spettacoli teatrali, o quando lo sguardo dei cittadini, che volontariamente lavorano nelle comunità protette, incrociano gli sguardi degli internati e vi riconoscono gli stessi desideri e le stesse speranze, che quotidianamente li animano. L’uso dello sguardo può essere anche una tecnica, ma esprime, comunque, un modo di essere della persona.”
“Mi ero reso conto, ad esempio, che l’ospedale psichiatrico costituiva un paradosso, perché era, allo stesso tempo, fragile e poderoso. Era fragile perché non aveva nessuna giustificazione economica (era totalmente inefficiente), né nessuna giustificazione scientifica. Rappresentava un meccanismo arcaico, che consumava risorse umane e finanziarie. Per un altro lato, il manicomio era, invece, poderoso, perché rispondeva a molti bisogni: al controllo sociale della devianza, all’occultamento di una organizzazione clinica, incapace di rispondere ai bisogni delle persone dopo la fase acuta della malattia, all’incapacità di una organizzazione sociale di tessere una rete di solidarietà.”
“Ero consapevole che la semplice persistenza del manicomio impediva la possibilità per il paziente di riconoscersi come un soggetto con desideri e diritti. Solamente fuori dal manicomio era possibile riabilitarsi veramente. Per questa ragione, ogni qual volta che non sia stato possibile operare una dimissione per il contesto di provenienza della persona, mi sono assunto il compito di costruire nuove residenze, per corrispondere, anche se limitatamente, al bisogno di ogni persona di avere una propria casa.”
“… E quando poi Basaglia ha chiuso il manicomio, è finita anche la psichiatria. Dopo Basaglia la scienza psichiatrica si è scoperta nuda, come il re nella favola dei fratelli Grimm. È stato sollevato il velo della apparente scientificità della psichiatria e sotto quel velo di scientifico non si è trovato nulla. Questa affermazione può sembrare paradossale, perché la psichiatria oggi sembra godere di buona salute: è radicata nel sapere universitario e nelle istituzioni prestigiose della sanità.”
“La riconquistata autonomia delle persone, il loro rimettersi in marcia è avvenuto attraverso la de-costruzione del potere, che era attribuito alle tecniche terapeutiche tradizionali, e attraverso la conquista del potere sociale della persona. La maggioranza dei clinici trattano con farmaci qualunque persona che si rivolga a loro: già nel primo contatto tra medico e paziente è scontato, per entrambi, la necessità di una prescrizione farmacologica. Per il 66% dei pazienti gli psicofarmaci raggiungono risultati minimi o nessun effetto; addirittura in una buona percentuale i risultati sono peggiori dei sintomi (modificazione della personalità, effetti collaterali).”
“Quando penso a quegli anni mi viene in mente Costantino Kavafis e la sua incantevole poesia – “Itaca”. Per Kavafis era importante il viaggio, in sé stesso. Il cammino che Ulisse ha percorso per arrivare nella sua terra – ci dice il poeta – ha portato, senza dubbio, a insperati incontri, a sofferenze, conoscenze, allegrie e delusioni. Ma, quando Ulisse finalmente è arrivato, in Itaca, ha compreso che la cosa più preziosa era stata, proprio, il viaggio, che lo aveva portato a lottare con tenacia e coraggio per arrivare alla sua terra.”
“Per tutti questi motivi anche noi, operatori della psichiatria, non eravamo liberi (anche se in modo meno drammatico di voi, naturalmente!): eravamo prigionieri delle nostre ideologie, dei nostri pregiudizi, dei nostri privilegi, eravamo schiavi di un sapere astratto e arrogante. Il nostro sguardo era privo di ogni reciprocità e, condannando voi, condannavamo noi stessi. Parlavamo di voi senza conoscervi: eravamo sordi e ciechi.”
“Abbiamo verificato che per produrre autonomia e libertà non era sufficiente affermare i diritti, era necessario praticare i diritti, rendere concrete le condizioni che permettevano di agirli; era necessario far crescere i bisogni, dar senso ai desideri e alle speranze. Bisognava rendere possibili e operabili le alternative a quelle diffuse e mistificanti esigenze di manicomio, che si radicano nella de-responsabilità e nella mancanza di senso civico, purtroppo così profondamente radicate in questa nostra società…E questo è costato veramente molta fatica… una fatica, ben spesa!”
“Mai più manicomi! Mai più manicomi! Mai più un luogo di esclusione, di sopraffazione, dove le persone siano oggettivate, dove sia consentita l’alienazione di una sofferenza, che appartiene alla storia di una persona, al contesto sociale che l’ha generata. Mai più diagnosi che destoricizzino le crisi, rendendole irrecuperabili.”
“Il manicomio era come la Medusa, il mostro dell’antica mitologia che tramutava in pietra con il suo sguardo: il manicomio aboliva il tempo, toglieva la vita. Anche noi, come Perseo, abbiamo usato l’astuzia e abbiamo tagliato la testa del mostro piena di serpenti. Il manicomio, ormai, è vinto; il cordone, che vi legava ad esso, è spezzato per sempre. È con grande emozione che vi annuncio la definitiva dimissione, l’assunzione piena dei diritti, il recupero del vostro potere sociale, l’inizio di una nuova vita!”
“Se passiamo in rassegna la storia della psichiatria, vediamo emergere i nomi di grandi psichiatri, mentre dei folli esistono solo delle etichette: isterica, astenica, maniaco, depresso, schizofrenico. Nell’ansia di accreditarsi come scienza sul modello della medicina, la psichiatria è passata come un carro armato sopra alla soggettività dei folli. I folli sono stati resi oggetti di fronte all’unica soggettività tutelata, quella del medico. Ma è davvero credibile che, negando istituzionalmente la soggettività del folle, sia possibile guarirlo, cioè restaurarlo nella sua soggettività?”
“Accettando la condizione di parità tra terapeuta e paziente, si è scoperto che si restituiva al folle la sua soggettività permettendo che questi diventasse persona. Si è scoperto che il folle aveva bisogno non solo di cure, ma anche di un rapporto umano con chi lo curava, di risposte reali per il suo essere, aveva bisogno di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche i terapeuti, che lo assistevano, avevano bisogno.”
“Quando, insieme a Basaglia, abbiamo messo la malattia mentale tra parentesi, volevamo separare la malattia dal suo doppio e pensavamo che, con la fine del manicomio, sarebbe emersa la voce della non ragione e, insieme con lei, la nostra voce, finalmente liberata.”
“È finito il manicomio ed è finita la psichiatria. È finito quel sapere e quel potere che si erano fondati sulla separazione dei folli, liberati da Philippe Pinel dentro il manicomio. Adesso quel sapere non è più legittimato e ha mostrato la sua inconsistenza. Basaglia ha operato una cesura definitiva, un punto di non ritorno: la psichiatria è morta!”
“Altre figure sociali hanno assunto il ruolo antagonista ed eversivo che era proprio dei folli. Normalizzati, garantiti (forse anche per merito nostro!) i folli non fanno più paura. C’è invece un disagio sociale profondo che riguarda nuovi soggetti: gli immigrati, i carcerati, i tossicodipendenti, gli homeless. Queste categorie sociali mettono seriamente in crisi l’idea di salute e di ordine dei normali. Lo straniero, oggi, è la vera minaccia: la sua è diventata la voce della follia!”
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2 pensieri su ““Il sale e gli alberi”: citazioni tratte dal saggio sulla salute mentale curato da Ernesto Venturini”