Meditazioni Metafisiche #14: la mente nel mondo moderno e la vita soggettiva del simbolo

L’interpretazione operata da Jung del materiale clinico e culturale era fondamentalmente diversa da quella di Freud. Infatti, per Freud i sintomi e i simboli culturali erano univoci (un solo significato) e derivano dalla storia passata del paziente.

Torre di Bollingen
Torre di Bollingen

La torre veniva interpretata dal grande medico austriaco con soltanto il significato fallico derivante dalla pulsione sessuale operante nell’inconscio dell’individuo. Invece per Jung, che introdusse la tecnica detta amplificazione circolare, si tratta sia di una sintesi tra vari elementi sia di una prospettiva per il futuro. Una delle più grandi esponenti del pensiero junghiano fu von Franz, la quale colse soprattutto l’aspetto sintetico di questa concezione, allargando l’interpretazione del simbolo a innumerevoli riferimenti nella storia della cultura (non per nulla la psicologia junghiana è detta anche psicologia comparata).

Jung negava la univocità del simbolo: definiva il segno freudiano come “morto” perché si esauriva una volta decifrato. Per Jung il simbolo è vivo in quanto rimesso continuamente in discussione nella vita di chi lo vive e di chi lo studia. Per Jung non è importante tanto il simbolo in sé quanto il processo del simbolizzare. Jung parlava di “psico-oggettivo”: è il senso ulteriore che il simbolo riceve quando viene calato nella vita soggettiva della persona. In questo senso il simbolo non ha un solo aspetto passato ma anche una prospettiva per la vita futura della persona.

La nostra mente trae nuovo significato in base alle esperienze che fa della vita. L’esperienza ci indica nuove luci per capire noi stessi e il mondo che ci circonda. Sono talmente tante le vicissitudini della vita che il nostro mondo interiore le elabora in continuazione.

La stessa scienza non è altro che una visione del mondo. Non esiste il dato scientifico assoluto in quanto esso dipende dalla osservazione, la quale può cambiare senza che noi lo prevediamo e quindi introdurre una nuova scoperta. Nel Medioevo Grossatesta e Ruggero Bacone studiando la luce posero le basi del metodo sperimentale, poi perfezionatosi compiutamente con Galilei nel Rinascimento, basato sull’osservazione: tuttavia se osserviamo male o se non osserviamo tutto, in ciò troviamo il fallibilismo intrinseco della scienza. Una volta si pensava che i cigni neri non esistessero. Era una convinzione suffragata dall’osservazione costante in tutta la civiltà allora conosciuta. Ma quando essa cambiò, con la scoperta dell’Australia, ci si accorse che i cigni neri esistevano.

La fisica newtoniana va bene in certi contesti spaziali, ma quando ci si accorse che ne possono esistere altri, si cominciò ad adottare modelli ulteriori.

Adottando modelli matematici si possono prevedere cose che poi la realtà conferma. È il caso della grande scoperta di Faraday che unificò elettricità e magnetismo. Ma lui non era un matematico, capì e disegnò le linee di forza, invece fu Maxwell che formalizzò le quattro leggi fondamentali del campo elettromagnetico.

Galilei diceva che la creazione di Dio è scritta in linguaggio matematico. Tuttavia alla fine la matematica pura è solo una ipotesi, che deve giocoforza attendere la validazione della osservazione scientifica. Per Planck la ragione deve arrendersi alla realtà: per questo se Dio è “all’inizio” per la religione, è anche “alla fine del pensiero” per la scienza.

Per una scienza pratica come la medicina, il margine di incertezza aumenta. Nonostante tutti i progressi degli ultimi anni, non si conoscono a sufficienza i virus. Quindi, se la maggior parte dei paesi del mondo ha deciso di contrastare il COVID-19 imponendo restrizioni drastiche, di contro il modello svedese è specularmente opposto: prevede infatti la libera circolazione per generare nella popolazione una immunizzazione da contagio crescente, nella previsione che senza di essa e la probabile ricomparsa del virus dopo le restrizioni, l’effetto sarebbe ben più devastante.

Oggi abbiamo strumenti sofisticatissimi che riducono il margine di incertezza rispetto ai secoli passati, ma non lo annullano. Nel passato, con la povertà degli strumenti di osservazione, la cosa era addirittura surreale e con aspetti di ironia. In Inghilterra nel Settecento una donna ammise di aver partorito dei conigli: si chiamava Mary Toft.

Mary Toft - 1726
Mary Toft – 1726

Il caso fece molto clamore e un medico tentò di spiegare la cosa ricorrendo ad argomenti facenti capo a concezioni del tempo. La psiche della madre avrebbe potuto influenzare il feto. Infatti la vis generativa sarebbe stata collegata con gli spiriti degli animali. Poco dopo la donna confessò l’inganno, ma il caso rimase nella storia per la grande suggestionabilità delle persone.

La psicologia non è una scienza, è una disciplina più interpretativa che obiettiva, anche se esistono tipi anche molto diversi di psicologia. Come diceva Carotenuto, se non esiste una base obiettiva e lo psicologo è libero di aderire all’indirizzo che vuole, allora la scelta riflette le sue dinamiche inconsce.

Nello sviluppo del carattere di tutti noi, la scienza guarda ai geni (come essi pongano le fondamenta del nostro psichismo), invece la psicologia guarda a quanto è osservabile macroscopicamente, cioè la famiglia di origine. Ma ancora, sia sul versante della scienza sia su quello della psicologia, ci sono molti filoni di pensiero.

I più ritengono che la famiglia di origine indichi la direttrice lungo la quale si sviluppa il carattere del figlio, con variabili dipendenti dalla storia soggettiva di questi.

Nasciamo tutti con dei geni che contengono il programma base del nostro sviluppo fisico e psichico. Ma da circa tre secoli a questa parte abbiamo un ambiente diverso, rispetto al quale la specie si trova impreparata. Abbiamo lo stesso cervello dell’uomo del Paleolitico, ma allora la dimensione media della tribù era attorno ai 35 membri e i figli erano i figli della tribù, come avviene ancora oggi nelle società primitive. Una volta c’erano le famiglie allargate. Questo significa che gli influssi emotivi sul figlio erano superiori al modello della famiglia attuale. Il bambino era esposto a più relazioni ed emozioni. Vi erano anche meno limiti alla espressione della vitalità: il bambino era più protetto dall’ambiente e si esprimeva fisicamente meglio.

Invece nella famiglia nucleare di oggi si pongono dei problemi. Il bambino contemporaneo è situato all’interno di spazi chiusi e ha meno relazioni e segnali emotivi. Il limite di ciò sta nel fatto che la nostra consapevolezza si nutre di una sorta di risonanza somatica con i genitori. Il bambino avverte subito i segnali emotivi dei genitori mediante l’analisi intuitiva del linguaggio corporeo. Ora, se tali messaggi sono ridotti rispetto alle esigenze intrinseche del cervello, ne nascono problemi rilevanti.

Buona parte del nostro carattere si sviluppa in età preverbale mediante il confronto con il corpo dei genitori e delle figure di accudimento. Non solo, ma l’uomo rispetto all’animale ha una corteccia associativa che non fa il gioco della intuizione più vera: il bambino avverte che il papà sta per esplodere, ma la mamma gli dice che è solo un po’ stanco. Questo crea uno squilibrio nel sistema di valutazione dell’individuo. Per di più, gli strumenti tecnologici, oggi in uso largamente anche nei bambini, tolgono la parte preponderante della comunicazione, cioè il linguaggio del corpo.

Il bambino deve affermare il Sé. È questo il suo compito evolutivo nello sviluppo. Già è qualcosa di molto difficile in quanto il Sé di un bambino piccolo è molto fragile. Inoltre questo processo può avere degli ostacoli nell’ambito familiare che invece dovrebbe facilitarlo. Il libero movimento o vitalità di un bambino è una esigenza fondamentale. Il bambino ha bisogno per esempio di giocare a pallone dentro casa, ambiente dove sta abitualmente in quanto troppo piccolo per uscire. Ma la maggior parte dei genitori risponde in maniera negativa per ovvie esigenze di ordine e igiene. Già questa prima ferita allo sviluppo del Sé può essere ancor più traumatica, se violenta o manipolatoria.

Ora, gli ordini dei genitori diventano il più importante principio ordinativo del bambino. Quindi questi impara a reprimere sé stesso, cioè a non svilupparsi adeguatamente. Le esigenze di vitalità necessaria al nostro cervello sono restate immutate nei millenni. Ma l’ambiente familiare è drasticamente mutato. Un bambino del Paleolitico poteva muoversi in spazi molto più ampi: accudito da una turba di persone poteva uscire tranquillamente e giocare quanto voleva. Oggi gli spazi ristretti della casa urbana non fanno altro che inficiare il buon sviluppo del carattere. Il nostro sviluppo culturale sta andando a decremento di quello individuale, specie nella famiglia mononucleare e addirittura in quella formata da un solo genitore.

Schizofrenia
Schizofrenia

Quando il bambino si vede negare un diritto importante all’affermazione del Sé, egli si ribella. È una reazione normalissima. Piange, urla, offende, fa i capricci. Quando questa reazione si manifesta, il genitore cronicizza coerentemente la risposta. Si tratta di qualcosa di normale anche questo, pur nella assurdità della cosa. Sarebbe peggio se il genitore fosse anche incoerente, cosa che determina la schizofrenia.

La risposta cronica del genitore, sebbene normale, sta alla base del fatto che il carattere del figlio è permanente. Tutti noi abbiamo un carattere che non muta molto nel corso della vita in quanto nelle nostre memorie si sono sedimentati ordini genitoriali cronici, protratti nel tempo. L’adulto poi ricopre questa struttura fondante con le forme sociali: ma ci sono delle memorie che non si cancellano sebbene l’adulto adotti comportamenti più evoluti, mentre altri aspetti caratteriali infantili vengono rimossi e relegati nell’inconscio per convenienza sociale, anche se da lì continuano ad influenzare la persona.

Quindi lo sviluppo procede per una via di autonegazione. Essa nasce quando il bambino interiorizza la negazione del genitore. Il bambino cioè interiorizza la voce della mamma che gli dice di non giocare in casa. Per questo impara a smettere da solo di giocare in casa. Se la mamma ha il tempo libero di portare il bambino fuori, il bambino riattiva alcuni comportamenti in situazioni controllate. In ogni modo per non correre il bambino inibisce quei muscoli che gli servono per farlo, oltre a imparare a inibire le sue vere spinte psicologiche che lo incitano a correre. In questo modo egli impara a negare sé stesso per non fare ciò che vuole veramente. Ora, il Sé è l’individuo nella sua totalità: aspetti corporei e aspetti psichici. L’Io nasce da questa negazione del Sé. L’individuo inibisce la propria vitalità, cioè le esigenze corporee e psichiche, e ne nasce un Io, cioè l’aspetto del Sé adattato all’ambiente.

L’individuo nel mondo vive una dialettica costante tra esse in (la sua interiorità) e esse ad (il mondo relazionale e gli oggetti), come diceva la filosofia medioevale. Da una parte la nostra mente ha necessità di ritrovare energia e acquisire senso nel confronto con sé stessa, habitare secum, come si esprimevano gli antichi romani, stare con sé stessi. Ma dall’altra trova la propria origine nella matrice familiare e fa derivare lo scopo della vita relazionandosi con il mondo che la circonda.

L’antinomia tra dentro e fuori è una delle tante che accompagna il vissuto umano, come quella tra corpo e anima. Il bambino cerca di far fronte alla contraddittorietà della sua esperienza adottando il modello del genitore meglio funzionante. Le fiabe, inoltre, svolgono la funzione di offrire all’immaginario del bambino una certa comprensione del dualismo, come quando c’è una madre e una matrigna. Il modello della madre è altruista ed esprime il proprio apice nel lasciare andare il figlio. Il modello della matrigna è egoista e trova il suo apice nella strega di Raperonzolo, che segrega la figliastra nella torre.

Borderline
Borderline

Il bambino non ha una visione del mondo propria, la sua dipende da quella dei genitori, assomiglia in questo allo psicotico. L’adolescente mostra una netta divisione tra bene e male, giusto e sbagliato, assomiglia in questo al paziente borderline. L’adulto sano ha imparato a unire le realtà contraddittorie in una sintesi.

La mente nel mondo moderno non può che confrontarsi con la società, la quale è dominata da logiche patriarcali in senso gerarchico. Di fronte al potere c’è di solito un atteggiamento tipicamente maschile: la subordinazione. L’atteggiamento femminile, che conosce meno la gerarchia, è quello di cooperare alla pari.

Tutte le persone di fronte al potere, da quello della madre a quello del medico e del politico, provano regressione, ritornano bambini. Ma a questo punto le strade sono sempre due: positiva o negativa. Come ha dimostrato Assagioli, se una persona proietta sul potente le proprie parti positive, lo vede in una luce migliore e lo accetta. Chi proietta le parti negative, finisce con l’odiarlo.

La vita psichica è prevalentemente inconscia. Nell’inconscio ci sono delle esigenze istintuali e pulsionali, come amare. L’inconscio comunica con la sfera cosciente mediante dei simboli. L’esigenza di amare viene rappresentata dal simbolo dell’oggetto del desiderio, cioè quel particolare partner.

Il simbolo quindi è quel particolare contenuto che sta tra il mondo esterno e l’inconscio. L’inconscio non capisce il linguaggio logico-verbale ma si serve dei simboli sia in uscita sia in entrata. In uscita lo abbiamo visto con l’esempio dell’oggetto del desiderio. In entrata lo abbiamo quando comunichiamo con il linguaggio del corpo. Avvicinandoci a una persona, comunichiamo al suo inconscio che le siamo vicini.

Il potere è la stessa cosa. Il nostro inconscio ha bisogno di protezione e si esprime nell’esigenza di avere dei simboli autoritari, come leader politici. A sua volta il politico sa bene che non deve solo parlare ma deve anche usare l’esempio per convincere il suo uditorio. L’esempio è il simbolo in entrata verso l’inconscio dell’uditorio per spingerlo a fidarsi di lui.

La psicologia di oggi riconosce che abbiamo una parte emozionale inconscia e una parte razionale cosciente. I nostri comportamenti sul palcoscenico del mondo e gli scopi che ci prefiggiamo devono tutti giocoforza confrontarsi con questi due aspetti della nostra vita psichica. L’attenzione che noi riserviamo alle persone non deve fermarsi al contenuto razionale della comunicazione ma deve contemplare anche il contenuto inconscio. Andiamo a cena con una persona, ci comportiamo in maniera impeccabile ma lei rifiuta di incontrarci una seconda volta. Cosa è successo? Dal punto di vista del contenuto razionale siamo stati impeccabili: mazzo di fiori, cena pagata, abbiamo aperto la portiera. Quello che non è andato bene è stato l’aspetto incosciente. Non siamo stati attenti alla comunicazione non verbale (inconscia) con la quale quella persona ci comunicava il suo disagio, non ci siamo sintonizzati sulle sue stesse frequenze d’onda e abbiamo fatto saltare una occasione.

Quando stiamo male con il partner, possiamo avere due situazioni. Siamo consapevoli del rapporto causa-effetto che genera il malessere. Oppure non lo sappiamo consapevolmente. Le persone dicono “non provo più nulla”, quindi “non lo amo più”. Ma in quel “nulla” si può nascondere sia il sentimento che è venuto meno sia un problema nella relazione, anche se l’amore c’è ancora. A volte quel “nulla” è motivato da una relazione sessuale non soddisfacente. I partner non si incontrano nel realizzare le fantasie che uno ha e l’altro no, oppure un partner non vuole farlo a sufficienza, oppure ci sono troppe richieste. La sessualità genitale è una componente molto importante per molte coppie. Razionalmente vediamo che la relazione all’apparenza va bene, non si litiga, si va a cena fuori, non si tradisce, quindi non ci spieghiamo perché proviamo quel “nulla”. Il sesso è una emozione, appartiene a quell’ambito del nostro psichismo non cosciente. Se non stiamo attenti a dare il giusto spazio a questa emozione, la relazione risulta problematica e non sappiamo spiegarci il perché.

Stefano Benemeglio
Stefano Benemeglio

Benemeglio parla dei cinque Punti Distonici, cioè gli elementi nel nostro inconscio che permettono la nostra soddisfazione e di vivere una vita piena. Uno di essi è il sesso. Spesso non siamo consapevoli, quindi bisogna imparare a comunicare con la nostra parte inconscia e con quella del partner: siamo soddisfatti sessualmente?

La comunicazione ha delle regole implicite che tutti applicano. Per fare una buona comunicazione occorre adeguarsi a quelle regole e sostenerle volontariamente. In ogni comunicazione solo il 7% è verbale, tutto il resto è non verbale, cioè emotivo inconscio. Ragion per cui per ben comunicare bisogna innanzitutto lavorare sul non verbale. Sbaglia chi fonda la comunicazione sul verbale. Vogliamo conquistare il partner: non dobbiamo dirglielo esplicitamente (Ti devi innamorare di me!) ma occorre farglielo capire con mille segnali non verbali. In questa maniera lavoriamo sull’inconscio, cioè su quell’aspetto preponderante nella comunicazione, ottenendo quindi risultati migliori. Il primo ostacolo in ogni comunicazione è l’esigenza espressa verbalmente. Una moglie si sente delusa dal comportamento del marito e glielo dice in continuazione con lo scopo di farlo cambiare. L’errore sta nel non inviare segnali corporei emotivi, molto più incisivi, e anche nel non porre le condizioni affinché il marito cambi. È il dittatore che ordina che qualcosa debba avvenire, invece la persona amichevole aiuta e facilita il cambiamento con il proprio comportamento. Per far cambiare qualcuno dobbiamo essere noi stessi il cambiamento, cioè dobbiamo cambiare noi atteggiamento prima di tutto per influenzare l’altra persona con il nostro comportamento.

Possiamo utilizzare consapevolmente le regole implicite della comunicazione anche nei confronti di noi stessi. Pascal diceva che la maggior parte dei problemi degli uomini nascono perché non sono capaci di stare soli in una stanza. Le persone non si guardano dentro. Innanzitutto non conoscono i veri scopi razionali, le persone sono confuse. Poi non conoscono la parte più profonda di loro stessi, l’aspetto emotivo, per il quale non hanno nemmeno una terminologia. Se adesso qualcuno ci chiede come stiamo, molto probabilmente non sappiamo rispondere, oltre a non saper indicare con una parola precisa lo stato d’animo. A questo punto possiamo imparare a relazionarci con noi stessi osservando il linguaggio corporeo che abbiamo quando stiamo di fronte a una situazione del mondo esterno o interiore. Devo prendere una decisione importante per la vita: faccio gesti che indicano insoddisfazione? O soddisfazione? Nel primo caso la parte emotiva mi comunica che sto sbagliando, nel secondo caso che sto sulla strada giusta.

Abbiamo un fallimento comunicativo quando non teniamo conto delle esigenze del destinatario. Quando l’adulto parla con i bambini, tiene conto dell’esigenza di essere orientato sul destinatario usando un linguaggio consono. Tra adulti questa esigenza viene a volte meno. Spesso nelle situazioni asimmetriche (come tra medico e paziente, che ricoprono ruoli diversi) uno dice una cosa in un linguaggio troppo specialistico e l’altro non capisce. Un tipico fallimento avviene anche nelle relazioni simmetriche, quando mittente e destinatario hanno lo stesso ruolo, nei casi in cui gli interlocutori assegnano significati diversi al linguaggio verbale e a quello non verbale.

Ben più grave è la comunicazione paradossale, che può essere di tre tipi:

  1. Un gatto non può appartenere contemporaneamente alla classe degli animali domestici e a quella dei non-animali-domestici. Quindi dire che se ami un gatto devi amare anche una serpe, è un paradosso sintattico allo stesso modo del dire: se ami la madre devi amare anche suo figlio;
  2. Quando diciamo “io sto mentendo”, la frase è vera solo se non è vera. Si tratta di un paradosso semantico, allo stesso modo di quando un genitore dice all’insegnante “non si deve permettere di correggerlo ma solo di insegnargli”, è una frase grossolanamente vera e falsa allo stesso tempo in quanto l’insegnamento non è solo correzione, ma si estrinseca anche nella correzione;
  3. Quando diciamo “devi amarmi”, stiamo facendo un paradosso pragmatico. L’amore, che è spontaneo, si realizzerebbe solo non spontaneamente.

Il cervello funziona in maniera sofisticata: capta gli input ambientali, poi li seleziona e li unifica in una rappresentazione coerente, quindi crea output, segnali in uscita. Allo stesso modo la buona comunicazione deve avvenire innanzitutto accorgendosi delle esigenze dell’altro (altrimenti come abbiamo visto fallisce) per poi creare una sintesi unitaria tra le varie componenti persona/ambiente/scopi (altrimenti avviene una comunicazione paradossale). Il buon leader è un buon comunicatore perché si sintonizza sulle varie esigenze della comunicazione. Per questo si dice che il vero leader è autorevole e non autoritario: l’autorevolezza crea carisma, l’autoritarismo crea dittatura. La prima si ottiene scegliendo strategie consone, l’altra si ottiene bypassando alcune componenti con lo scopo di imporsi con la coercizione.

Gli input esterni vengono validati in noi, cioè sono ritenuti validi, per un processo di similitudine: vengono rapportati a ciò che noi crediamo di essere e alle convinzioni che abbiamo. Ne nasce una correzione, poi una distorsione e una generalizzazione. Per questo il processo che permette la personale visione del mondo e le decisioni è unico, soggettivo. Quindi passibile di errori, non assoluto, in una parola relativo. Come ragiona una persona, così ragionano anche gli altri.

Pertanto cosa è che fa la differenza e permette la soluzione migliore di un problema, così come la buona comunicazione? Il tempo impiegato ad analizzare, ragionare, riflettere (sulle persone che ci circondano) e anche a studiare (le regole della comunicazione). È un po’ come la partita a scacchi: il bravo giocatore calcola più varianti di gioco e sta mediamente 3 mosse in vantaggio rispetto all’avversario, invece il maestro è mediamente avanti di 8 mosse.

La comunicazione è al contempo individuale e sociale: ha regole da tutti condivise ma applicate in maniera soggettiva. Tutta la persona ha tendenze innate e sviluppi che la rendono un essere unico. Questo secondo aspetto dipende dalle esperienze uniche che una persona compie nel corso della vita. Le esperienze si sedimentano nella memoria a lungo termine per una modificazione delle sinapsi. Le mappe della superficie corporea presenti nella corteccia somatosensitiva primaria differiscono da un individuo all’altro. Questa differenziazione dipende da una espansione o retrazione delle connessioni delle vie sensitive a livello corticale a seconda delle diverse esperienze di un individuo.

In un famoso esperimento una scimmia veniva addestrata a usare solo tre dita: dopo migliaia di prove l’area corticale devoluta all’uso di quelle dita si era grandemente espansa. Quindi la pratica è in grado di espandere le connessioni sinaptiche rinforzando l’efficacia di particolari connessioni preesistenti. Thomas Elbert studiò tale plasticità anche nell’uomo, raggiungendo conclusioni analoghe. Dato che ciascuno di noi viene allevato in un ambiente diverso, facendo esperienza di combinazioni diverse di stimoli e sviluppando abilità motorie in direzioni diverse, il cervello di ciascuno viene modificato in maniera individuale. Tale modificazione particolare dell’architettura cerebrale, insieme alla nostra particolare struttura genetica, costituisce la base biologica dell’individualità personale.

Meditazioni Metafisiche 14 la vita soggettiva del simbolo
Meditazioni Metafisiche 14 – la vita soggettiva del simbolo

Per la psicologia cognitiva il mondo esterno è qualcosa che si può controllare volontariamente. Le persone avrebbero sempre il controllo della situazione. È il concetto di locus of control. Invece per la psicoanalisi gli avvenimenti della nostra vita dipendono da dinamiche inconsce che noi non possiamo controllare né sulle quali possiamo esprimere una decisione. Quindi si è sempre responsabili di qualcosa ma le motivazioni che ci spingono non sono consapevoli.

Spesso gli adolescenti (14-18 anni) che commettono reati compiono azioni come furti e spaccio di droga. Loro sanno ciò che hanno fatto ma la decisione non è stata piena, infatti sono stati motivati da dinamiche inconsce sulle quali non hanno avuto controllo. L’atteggiamento rispetto al reato è ambivalente: da una parte sanno la gravità del reato ma dall’altra si sentono estranei. Spesso l’atteggiamento è egosintonico, lo accettano come parte del loro essere. Per questo durante il colloquio con lo psicologo del tribunale si lasciano andare a confessare anche altri reati tanto è considerata da loro normale la condotta criminale.

La clinica del minore che commette reato potrebbe essere considerata una clinica dello sguardo. Nel momento in cui il minore fa o non fa l’azione criminale ha una sua importanza la reputazione che il gruppo manifesta verso di lui con lo sguardo. L’idea che il gruppo lo guardi come una persona senza reputazione positiva lo spinge effettivamente a compiere il reato per guadagnarsela. Questa è una motivazione non completamente consapevole che sta alla base del reato.

Il reato minorile non è quasi mai pienamente premeditato. È spesso impulsivo e quasi sempre poco strutturato. Questo perché il minore ha un cervello emotivo già formato ma un cervello cognitivo ancora non del tutto formato. Quindi il reato nasce da un impulso emotivo inconscio che il cervello cognitivo non controlla e del quale non è del tutto consapevole.

Il mondo esterno si esprime negli altri. Da una parte le persone hanno un desiderio illimitato dai fare tante cose. La società esprime il freno a questo desiderio. La cooperazione sociale è quella entità esterna che per realizzarsi limita il nostro desiderio illimitato. Poi noi interiorizziamo questa entità e diventiamo noi stessi coloro che auto-limitano il desiderio (è il Super-Io di Freud). Nelle piccole noie della nostra vita anche se abbiamo ragione di rispondere non lo facciamo perché interiorizziamo le regole della civiltà che ci spingono a comportarci in qualche modo. È la società che ci limita e non il soggetto che decide quello che deve fare. Nel reato minorile c’è un desiderio superiore alla norma sociale che la oltrepassa. Questo desiderio superiore alla norma è spesso scritto nell’inconscio e nella storia personale: il minore non si rende conto di quello che fa tanto è spinto da dinamiche che non sa controllare.

Nella criminologia minorile non si ha a che fare con la verità oggettiva: il reato tale e quale. Ma con la verità del minore. Infatti il racconto che il minore fa della storia del reato non è oggettiva ma è simile a un sogno. Il minore non racconta di solito la verità dei fatti ma esprime quelle dinamiche inconsce che stanno alla base del reato e di cui lui non ha piena consapevolezza e pieno controllo.

 

Written by Marco Calzoli

 

Bibliografia

  • R. Assagioli, Comprendere la Psicosintesi, Roma 1991;
  • S. Benemeglio, E. Renzi, Dizionario delle Discipline Analogiche, Roma 2018;
  • C. G. Jung, L’applicabilità pratica dell’analisi dei sogni, in ID., Realtà dell’anima, Torino 1963, pp. 64-92;
  • E. R. Kandel et alii, Principi di neuroscienze, Milano 2015;
  • P. Watzlawick et alii, Pragmatica della comunicazione umana, Roma 1971.

 

Info

Rubrica Meditazioni Metafisiche

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

OUBLIETTE MAGAZINE
Panoramica privacy

This website uses cookies so that we can provide you with the best user experience possible. Cookie information is stored in your browser and performs functions such as recognising you when you return to our website and helping our team to understand which sections of the website you find most interesting and useful.