Stronca il tuo Libro: Pier Bruno Cosso sbeffeggia “Fotogrammi Slegati”
Ho trovato l’antidoto dello scrittore.
Ogni scrittore quando esce il suo libro vive nel panico che la sua creatura non venga accolta bene dal pubblico, e soprattutto dalla critica. Nessun autore lo ammetterà mai, ma la vera fobia, le notti insonni, sono per la critica. Ma silenzio! Questo non si deve spifferare mai.
Però in questa rubrica è obbligatorio lanciarsi nel cerchio di fuoco delle cose che non si dovrebbero spifferare mai.
Ogni autore sogna un antidoto che lo ripari dalle pugnalate della critica. E io l’ho trovato!
Il fuoco da saltare, quello che fatalmente brucia chi scrive, è la critica. Poi stiamo tutti lì a dire che la stroncatura è data dal livore di un articolista represso; ma fa comunque male. Perché con la critica è un confronto diretto: un testa a testa.
Se il libro non ha successo di pubblico è perché il distributore non ha saputo distribuire, o il grafico ha fatto una copertina che respinge il lettore, oppure l’editore ha spinto altri autori che non valgono niente lasciandoci nel buio di uno scantinato. O, ancora, i più temerari saranno pronti a inveire contro il grande pubblico che non è mai pronto per la vera arte.
Ma col critico no. Alla recensione non si scampa. Il critico è un dio fallace che con il battito di martelletto può assolvere o condannare, beatificare o bruciare. E per un autore non c’è cosa peggiore che morire bruciato dalle parole. Ci sono scrittori che non trovano più la forza di scrivere dopo una stroncatura. Ecco la fobia, e finalmente ho trovato antidoto: “fai tu la stroncatura del tuo libro, improvvisati critico del tuo libro”.
Questa rubrica nasce con una logica al contrario, che deve esorcizzare la paura ancestrale della critica. Ecco l’antidoto: “Mi stronco da solo, così, dopo, non farà più male”.
In “Stronca il tuo Libro” ogni autore dovrà fare una sacrosanta stroncatura del suo libro. Si vestirà dei panni di velenoso critico letterario per giudicare il suo libro. Non è una cosa che possono fare tutti. È un salto spericolato alla portata solo dei più coraggiosi, dei pochi che sapranno rispondere alla nostra chiamata lanciandosi sconsideratamente nel cerchio di fuoco.
Giudicateli con indulgenza: perché comunque essere in questa rubrica non è da tutti.
Inizierò io stesso con questa nuova rubrica, intanto perché è giusto che mi diverta anche io, e poi, contraddicendo indegnamente Fabrizio De André, perché non so dare buoni consigli, ma sicuramente son bravo a dare il cattivo esempio. Così entriamo subito nello spirito del gioco.
Titolo: Fotogrammi Slegati
Autore: Pier Bruno Cosso
Editore: Il Seme Bianco (gruppo Elliot-Castelvecchi)
Anno: 2018
P.B.C.: Si vede che è un libro curato in cui è stato fatto un gran lavoro, ma la struttura? La prima cosa che si guarda in un testo per scoprire se è interessante è proprio la struttura; ma qui si possono trovare dei punti deboli?
Pier Bruno Cosso: Fotogrammi slegati, è un libro di racconti, ben sette. Fare una domanda sulla struttura generale in una silloge mi sembra alquanto stupido, oltreché inutile.
Però, ripensandoci, per non apparire il solito critico sdegnoso, potrei parlare del primo racconto, Una terribile mattinata d’autunno, dove si potrebbero sollevare diversi dubbi. Parlerei di questo non perché sia peggio degli altri (figuriamoci), ma proprio perché è il primo, e quindi dovrebbe essere quello che caratterizza tutto il libro, il più curato. Dovrebbe, vediamo…
È la storia di un vecchio cinghiale grigio braccato da dei cacciatori spietati che gli hanno ammazzato il figlio davanti agli occhi, e lui, invertendo le parti e la logica naturale delle cose, si lancia al loro attacco in una caccia senza quartiere. La voce narrante è proprio quella del cinghiale, e qui il primo problema della struttura: ma i cinghiali parlano?
Peggio: nel racconto l’animale mostra sensibilità umana e speculazioni filosofiche più alte della logica “animalesca” dei cacciatori. Quindi è normale che in questa struttura pensata all’inverso il lettore si perde. Si perde: uso l’indicativo, anziché il congiuntivo che sarebbe più corretto, per affermare, e non dubitare, che il lettore si perde! Si perde, e che caspita!
Il cinghiale parla e fa la morale agli uomini? Ma stiamo scherzando? Come può essere credibile? Ma allora è un fantasy? Certo che no! E allora il lettore si perde nella struttura. Eccola lì. Struttura debole? Ma magari…
Perché se non è un fantasy siamo comunque in un mondo irreale, o meglio sub-reale, e sarebbe giusto chiedersi dove voglia andare lo scrittore. Ma tra le righe non si trova risposta perché quando lui si invaghisce di un suo personaggio, chiaramente onirico, il lettore rimane spaesato.
Il cinghiale filosofeggia: «Potrei fare due salti, raggiungerlo facilmente e azzannarlo (il cacciatore, ndr). Ma mi sento svuotato, stanco di tanto sangue. Lui non ha avuto pietà, ma noi siamo animali, con dentro il senso stesso della natura, e non lo possiamo fare, così, senza l’urgenza di sopravvivere».
In certi momenti si paventa che l’autore sogni di essere George Orwell, e che la Fattoria degli animali si sia spostata improvvisamente nella sua Barbagia selvatica. Sacrilegio? Speriamo solo che il nostro autore abbia messo la sveglia per domani mattina, così almeno si sveglia, augurandoci che non si faccia male…
P.B.C.: Ma la cifra di scrittura? Ne vogliamo parlare… La trova sempre perfettamente calibrata alla ambientazione sociale e narrativa? Come indicano le regole del buon scrivere?
Pier Bruno Cosso: Far parlare i personaggi con un linguaggio adeguato a loro, e seguire uno stile di scrittura declinato sull’ambiente e sulla storia, è la prima pratica che insegnano nei corsi di scrittura. Ma l’autore di Fotogrammi slegati ne ha mai frequentato uno? Speriamo di no, perché per lui sarebbero stati soldi spesi male!
Sarebbe troppo facile infierire ancora sul linguaggio del cinghiale di prima. Tutti avete avuto almeno un cane che avete definito così intelligente che sembra che gli manchi la parola; ma avete mai incontrato un cinghiale che si esprime in questo modo? «Vado. Ma dove? Rabbia, stordimento. Torno indietro e lo azzanno in un fianco (sempre quel maledetto cacciatore, ndr). Se questo è il mio ultimo giorno me ne porto dietro più che posso. Mio figlio non c’è più, e io voglio annientare questo mondo sbagliato».
Scusate, il mondo sbagliato è evidente che ce l’ha dentro l’autore, e magari se si chiarisse un po’ prima di far parlare così un suino selvatico… Forse sarebbe meglio!
Lo stile di scrittura in Fotogrammi slegati sembra essere una vera ossessione. Ho conosciuto tanti autori rimasti intrappolati dentro le loro parole. La parola per uno scrittore è un’ossessione, una condanna, una ricerca sofferta, a volte un premio. Ma se la parola stessa diventa l’obbiettivo della scrittura stiamo perdendo tutti qualcosa.
In questo passaggio che vi proponiamo sembra che la ricerca lessicale abbia preso il sopravvento sul senso compiuto delle frasi. Qui il protagonista, uno scapestrato professore, osserva un medico del 118 che dispera di rianimare uno studente in fin di vita: «… e ordina deciso: “Intubiamo!”. Mi sento stordito. Vorrei pulirmi le mani sporche di sangue, ma non so come fare. Forse per disperazione resto appeso alla parola “intubiamo”. La trovo ambigua. La scompongo: “in” più il verbo che deriva dalla parola “tubo”. Ma questo sarebbe “tubare”, come amare, vivere, l’opposto di rischiare di morire. Mi immagino la prossima lezione in aula dal titolo: “Il perno girevole delle parole italiane”. Un verbo ambiguo è una porta rotante, che ti porta dentro o fuori. Un verbo, il suo significato, e il senso opposto sullo stesso giro. Amare e morire incernierati lì. Perché lo so, ormai insegno da tanto tempo: la lingua italiana ti incastra dentro le parole, ma ti protegge dalle storture».
Potrei aggiungere che non ci protegge da certi libri… Attenzione: tutto Fotogrammi slegati è disseminato di queste “perle” come mine in un campo minato. Andate avanti tranquilli con la lettura dei racconti, ma fate molta attenzione dove mettete i piedi. Potrebbe saltare per aria il significato omologato delle vostre parole.
P.B.C.: Onestamente nel libro ci sono dei personaggi molto ben riusciti, bisogna ammetterlo; ma perché se l’autore è così bravo a disegnarli poi ce ne sono tanti altri tirati via?
Pier Bruno Cosso: In questi casi, nella discontinuità della qualità di scrittura, un critico esperto sarebbe portato a credere che il vero autore sia quello che si vede nelle fasi basse della creazione dei personaggi. Che le sue possibilità espressive siano quelle dei personaggi tirati via, e che per avventura, o per una fuggevole ispirazione, abbia centrato qualche altra caratterizzazione. Perché è acclarato che una cifra alta di scrittura non scende a compromessi, mentre una cifra bassa può avere un sussulto momentaneo di elevazione.
Per questo si giudicano i libri nel loro complesso e non per una singola frase riuscita, magari copiata da Fabio Volo o da E. L. James (cinquanta sfumature di qualche schifo di colore).
Prendiamo un passaggio dove conosciamo un personaggio secondario che appare e scompare in una sola frase: «La mia vicina molto anziana mi fa ciao con la manina ossuta e le vene viola. Parla sempre lentamente, fermandosi a girare in tutte le “o” come in una rotatoria. Che quando ho fretta mi secco e le rispondo senza farle finire la frase. Ma stamattina me la godo tutta, così calma è un piacere ascoltarla. Sembrano i passi scalzi di un’amante».
La prima osservazione da fare è che la lunghezza, poche righe, sia quella giusta per la descrizione di una comparsa, ma, carissimo autore, ce la vuoi presentare o non ce la vuoi presentare?
Ce la possiamo immaginare senza sapere niente di lei? Capiamo solo che è anziana e che parla lentamente. La sua figura vi si compone davanti agli occhi? A me, sinceramente per niente. Lo sforzo evidente dell’autore è quello di descrivere la donna nella dinamicità della sua azione, lasciandola però trasparente nella sua descrizione. Perché non l’ha evitata? Gli alberi gliene ne sarebbero stati grati.
Si voleva intenerire il lettore, creare un ambiente ovattato con questa vecchina molto dolce? Caro autore, anziché tratteggiare personaggi su una nuvola, ce li vuoi presentare come si faceva una volta?
Ma poi arriva il peggio in uno dei personaggi principali, attenzione, ho detto principali. Ecco come si confessa, per presentarsi, una studentessa di un quartiere disagiato che si prostituisce: «No, non cerco alibi, “stato di necessità” eccetera… Non ci sono scuse, io non… una ragazza non si vende per necessità. Per la necessità ci sono altre strade, e non è vero che vendendosi si fanno soldi facili. Vendersi è difficile, è pericoloso, è devastante! Qualunque altra cosa farai ti resterà sempre addosso quell’etichetta, che sarà sempre lì, negli occhi chi ti guarda. No, non è per necessità. È perché, se il mondo ti vuole fregare, e non ti concede niente, tu allora vuoi, con tutte le tue forze, vuoi fottere il mondo. Lo vuoi fregare proprio lì, nel suo istinto più basso. Non mi accetta? E io lo rovino un po’. Ti senti un eroe eretico, rovesci tutti i valori. Quelli ricchi, che comandano la città, lì ai tuoi piedi, a elemosinare amore fasullo che in casa loro non esiste. Si fanno calpestare da figli e da mogli, e poi la notte mettono le manette a te e ti chiamano tesoro. Così io pareggio i conti. Poi, una notte ti senti sporca, hai nausea, e vuoi dire basta».
Non faccio commenti. Questo è un personaggio principale! Ma chi è? Quanto è alta? Come è vestita? È attraente? Carissimi lettori, ognuno si figuri quello che vuole! Pensateci voi, che lo scrittore aveva altro da fare. Ci sarà chi se la immagina magra, chi se la immagina in minigonna, chi in maglietta rosa. Fate voi. È lasciato a voi lo sforzo di fantasia. L’autore non si disturbi a darci le coordinate. Ognuno pensi alla ragazza squillo che ha dentro di sé.
Written by Pier Bruno Cosso
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