“Politiche dell’amicizia” di Jacques Derrida: quell’assurdo sentimento

Già a leggere la prefazione de “Politiche dell’amicizia“, sento che il libro mi farà reagire molto. Lancio una sfida al filosofo che, come se non mi avesse in nota, si chiede ora il perché l’amico sarebbe come un fratello.

Politiche dell’amicizia di Jacques Derrida
Politiche dell’amicizia di Jacques Derrida

Tento una risposta, che mi auguro sia al più presto falsificata o, chissà, in parte convalidata dal saggio: perché l’amicizia è una finzione utile alla società, ed è basata su un collante potentissimo, la passione: la parola deriva dal sanscrito kam’a, cioè passione, come anche parole come amore e Kāma Sūtra.

Utile perché permette, come la passione amorosa, che nella specie umana può durare anni interi, oppure l’espace d’un matin, lo stabilirsi di un’unione fra individui che può sfociare nella costituzione di una famiglia o di un club di bocciofila: qualcosa che tiene legati insieme i vari Altri, Autres, direbbe Rimbaud. Una specie di bosone delegato all’interazione fra particelle.

Poi Jacques pone altri interrogativi a cui sarà arduo rispondere, non solo per il lettore, ma anche per lui medesimo, forse.

Oligarchie: nominare, enumerare, censire

Se vi chiamo miei amici, amici miei, se vi chiamo, amici miei, come osar dire ancora, e proprio a voi, che non c’è nessun amico?

Questa è la prima e mi ripropongo che sia l’ultima citazione del libro (attribuita ad Aristotele). D’ora in poi, obtorto collo, tradurrò (ed eventualmente tradirò) il pensiero di Jacques (Derrida), il quale non fa altro (immagino per tutta l’opera) con quello di altri, gli Autres.

Tradurrò pertanto un traduttore, come già accade al poeta e cavalier Vincenzo Monti. Non ho scelta. Se non cercassi di sintetizzare, non potrei né sottoporre a critica, né reagire a quest’opera, che è vasta, arzigogolata e complessa come poche.

L’amicizia illumina con una torcia la possibilità di andare oltre la morte, con una pur ambigua speranza d’eternità. Secondo Cicerone si cerca nell’amico un Autre se stesso, ossia una copia di sé, da moltiplicare in vari esemplari.

Tornando indietro ad Aristotele, si scopre che lui, nello stesso calderone, inserisce l’amicizia, la conoscenza, la morte e la sopravvivenza, in un’unica configurazione. E afferma che è meglio amare così e così, ed amare piuttosto che essere amato. L’amicizia è riscontrabile dal lato dell’amante, più che dell’amato. L’amante sa di essere amante, l’amato non ne è necessariamente consapevole.  Si può amare un morto (il ricordarsi di lui, e non necessariamente, immagino, il suo corpo in putrefazione). La sensazione è che in tal eventualità uno ami sé, più che l’Autre. Il morto non può amare chi l’ama, né alcun Autre. L’affermazione è per metà di tipo religioso e per metà falsificabile. Nessuno sa cos’ha in mente e nel cuore un deceduto, lui che forse non ha e non è più nulla. Mistero insondabile, in cui qualsiasi tesi è infalsificabile. Esiste veramente un’incommensurabilità fra amante e amato morto, quando quest’ultimo è/non è nel mondo di chissà dove. So che, in taluni momenti, si fa ricorso a chi non c’è più, anche da parte di chi non è troppo credente, nel senso di dire: “Proteggimi tu, ovunque tu sia, mio amato!

Aristotele divide arbitrariamente i philétikoi (chi è portato ad amare, baciare, accarezzare) e i philótimoi (amandi, baciandi, accarezzandi). Un ambiguo sillogismo: si preferisce conoscere che essere conosciuto, quindi è meglio amare che essere amato. Il filosofo ipotizza che si tratti di due fenomeni inconciliabili al medesimo tempo. Se amo non posso essere amato, e viceversa. Amare è come respirare. Il morto non può più amare. Il suo spirto è spirato per sempre. Egli è privo del tempo come spirto, mentre sta macerando come corpo. L’amicizia va testata nel tempo, perché è nel tempo che essa vale. E nel tempo può essere eventualmente confermata o falsificata. Chi è amico lo è nel tempo, anche nei confronti di chi non è più dentro il tempo. Non si può essere amico di una salma, per quanto cara. Mah!

Scendo nella mia profondissima cantina, ove accendo la luce e saluto i miei più prossimi amici. M’appoggio allo stipite della porta che reca al garage e con la mano destra e con la sinistra faccio presa sulla sella di una delle due biciclette che quasi ostruiscono il passaggio. E penetro nel luogo dove mi aspettano gli amici. Che saluto tutti. Accendo la luce del garage. Di passaggio dico: “Ciao Papà!”, “Ciao Mamma!”, una foto a testa. “Ciao Claudio!”, “Ciao Paolo!”, due foto a testa, “Ciao Maurizio!”, una foto sola. Dentro di me, ogni volta, mi aspetto che le loro effigi mi rispondano. Prima o poi lo faranno.

A posteriori, nell’evento spazio-temporale, direbbe Albert (Einstein) l’atto dell’amicizia, in quanto atto consumato nel tempo è verificabile. Non si può misurare prima: e in questo caso, l’analogia corre verso l’altra visione del mondo fisico, quella quantistica: solo dopo, Erwin (Schrodinger) viene a sapere se il suo gatto è vivo oppure morto: nel frattempo, almeno come ipotesi, il felino è sia vivo che morto, è un amico in fieri, ma parziale, a seconda di quale equazione risulterà vincente. I malvagi non possono essere amici perché non vogliono condividere le cose con gli amici, anzi, le pretendono per sé. Il concetto di amicizia di Aristotele si fonda, almeno in parte, sul profitto: mi conviene frequentare da amico quell’Autre, quando potrò attestare la sua positività nei miei confronti?

Do ut des ?

Per cui si può dedurre che bisogna avere un numero limitato di amici, senza che sia indicata la quantità, perché sarebbe quasi impossibili metterli alla prova (soppesandoli in misura del sale consumato insieme) tutti e nel medesimo momento, che di fatto, si sa non esiste. Scopro così che mia mamma, Rosalinda (Borghi), era inconsapevolmente aristotelica, quando affermava: “Per cgnòsser na persouna a môd bišògna magnêr un quintêl ed sêl insèm”: per conoscere una persona a modo bisogna mangiare un quintale di sale insieme”. Aristotele parlava di μέδιμνος, médimnos.

Sorge qui il problema della democrazia, che deve conciliare il problema di una comunità di uguali che siano anche amici. Non troppi, però.

Forse quindi una democrazia è possibile solo in scala minima? In attesa di una risposta, si fonda l’amicizia sulla virtù, perché le dia la stabilità di cui necessita. Le altre amicizie, quelle puerili, quelle malvagie o quelle fra le bestie, si fondano su altro e quindi non valgono affatto. Mah!

L’amico è un Autre me stesso che però esiste per conto suo. Si tratta di un ossimoro?

Amare d’amicizia – forse: il nome e l’avverbio

La frase di Aristotele, unica insieme a quella di mia mamma che riporterò testualmente, diventa per l’autore un brusio significativo, essendo un ammonimento di tipo testamentario. Mi domando se per lui un filosofo evacui come tutti gli altri, oppure se egli nobilmente e sagacemente doni al mondo la sua massa energetica, ponendola consapevolmente sul terreno (come un cane, nel caso sia cinico).

Jacques riesce a creare quella distanza tra quel che è filosofico e quel che non lo è, in una misura sufficiente per indispettire. E se avesse detto: “Se vi chiamo stronzi miei, stronzi miei, se vi chiamo, stronzi miei, come osar dire ancora, e proprio a voi, che non c’è nessuno stronzo”? Sento che non cambierebbe granché.

Parmenide di Elea
Parmenide di Elea

Sarebbe come Parmenide, che decreta che ciò che è è e che ciò che non è non è. Poi aggiunge che certi enti lo sono sì, ma un po’ meno (questione mai capita). Quindi la divisione non è fra due concetti, ma soprattutto fra due. No! spiega: noi vediamo il mondo spezzettato, ma esso è, anzi È. Noi siamo in quell’È, pur leggermente minori. E Parmenide che ebbe forse per allievo Socrate, che ebbe per allievo Platone, che ebbe per allievo Aristotele, sconfessa a priori il bis-nipotino Stagirita: se È È, lo È per l’Eternità, anzi per l’Èternità. Un amico, come un gioiello, È per sempre.

Aspetto con viva trepidazione che il discorso si rischiari anche nell’opera di Jacques. Ma siamo très loin de l’arrivée. Egli si comporta probabilmente come un buon scrittore di thriller, che dissemina il terreno narrativo di indizi, molti dei quali fuorvianti, forse tutti, meno uno. Ho l’impressione di star leggendo un romanzo, una fiction. La domanda è: almeno lui, il giallista, conosce il nome dell’assassino o brancola comme un aveugle dans le noir?

Ennesimo colpo di scena: Jacques arriva a dire che la frase è sì testamentaria, ma nel senso che a morire sono gli amici, non il filosofo. Per nemesi storica, anzi, filosofica, il detto diventa memoria, quando è utilizzato da Michel (Foucault) o parafrasato da Friedrich Wilhelm (Nietzsche). Ai loro tempi, Aristotele non era più amico di nessuno, in quanto già era trasformata in autre (minuscolo pulviscolo) la sua materia fisica, e qui colgo una contraddizione.

Egli, post mortem, continua a dare sé agli Autres. A donarsi, consapevolmente, cioè in seguito a consapevolezza. Quando era ancora un bipede implume sapeva che, scrivendo, avrebbe donato sé ad amici che non avrebbe conosciuto, e che l’avrebbero amato (o odiato) per l’eternità. Ognuno per la sua infinitesima eternità.

Friedrich Wilhelm grida che non ci sono nemici, ora, al presente, riportando da vivo quel che è morto, ma mutandolo con la sua (folle) esistenza, violentando il pensiero, al fine di riportarlo nell’hic et nunc.

Ma ora io, Stefano (Pioli), dico:Cari Stagirita, Friedrich Wilhelm e Jacques, anche se a vostro illustre parere non siete più miei amici, io vi parlo ed evito al momento di prendervi a calci, perché la gamba girerebbe a vuoto, eppure io vi sento hic et nunc, come se foste presenti fisicamente, per la magia di quella tecnica che si chiama scrittura, la sesta grande transizione, secondo Edward (O. Wilson), che è vivente anche di fatto, forse meno di voi: che tanto state mutando la mente dell’uomo, di tanti milioni di uomini, ogni santo giorno che sgorga dal Nulla Eterno.”

E se ognuno di noi fosse afarensis? Mi verrà in mente qualcosa, lo so già. Tiremm’innanz! Colgo un buco della traduzione di quel forse, di cui dice il filosofo. Da fors-fortis, caso. In francese, immagino che l’autore abbia scritto peut-être. La differenza è minima: la fisica quantistica attribuisce al Caso un potere totale, un peut-être assoluto, sul destino del mondo, su tutto, anche riguardo la traiettoria che seguirà ogni particella, ogni suo stato, e questo vale per tutte le particelle del cosmo. Ma è quel forse, e quel peut-être che rende vivo quel che lo è: fino a che… non si compie il suo destino, che origina dal peut-être.

Terza citazione (finora Aristotele, mia mamma e ora Friedrick Wilhelm): “Ah, se sapeste quanto presto, quanto presto tutto sta per cambiare – dai!, dai!Jacques deduce che ogni sapere fa cessare ciò che si sa: leggasi che lo trasforma. Una volta che si sa, il (vecchio) sapere non può più vivere, respirare. Muore. Questa è solo la mia interpretazione. Come prima quando si diceva che solo il vivo, colui che inspira e respira, può essere amico. Anche il filosofo non sa, altrimenti non potrebbe trasmettere la vivezza di quel che afferma che gli altri non sanno (ma anche lui).

Il vecchio sapere ignora il nuovo. Il nuovo non ignora il vecchio. Non può farlo! Quindi, poiché non appena si sa, il sapere muore, non può esserci più amico? Mah! Anche Aristotele, Friedrich Wilhelm e lo stesso Jacques non sono più amici di nessuno. Anche il loro sapere? No! Qualcosa, che ha che fare con la sesta grande transizione, ha concesso un’apparente immortalità alle voci dei non più amici. E se poi la terra venisse inghiottita dal sole? In tal caso (non) se ne riparlerà, peut-être. Chi potrà farlo, peut-être, lo farà, oppure no.

Questa è il mio tradimento del traditore di Friedrich Wilhelm, che fu a sua volta traditore di Aristotele. Ogni frase ricca di sapere è una freccia che parte e torna, circolarmente, al suo arco, ma intanto ha sforato qualcuno, mutandolo, facendolo esistere.

Diceva Niels (Bohr) che solo una sua misurazione rappresenta una possibilità d’esistenza per una particella, che altrimenti rimarrebbe enigmatica onda.

Teleiopoetico: parolina che Jacques crea (non dal nulla però, diciamo azzecca cose già generate, non create, da altri) e a cui dona il senso di evento di una frase che è esistita nel suo dirsi da parte di qualcuno. Come minimo, la parola ha il dono della sintesi.

Il filosofo vero è amico giurato della solitudine. Come può quindi comunicare con me? Vero? Specie se quegli amici (im)probabili devono ancora nascere? Peut-être! Il peut-être permette una successiva esistenza ontologica. Il se, si, if, wenn: è una sua ipostasi. Se una cosa forse c’è, non è detto che sia. Se divento un filosofo nuovo, grazie a quel peut-être, allora… mi pare quasi un ricatto. Da amici giurati della solitudine, si diventa congiurati. Qual è il fine di tale congiura, la conoscenza? Rischiare (e raschiare?) peut-être la verità, se ho ben capito.

La telepoiesi (sic: chi fine ha fatto l’io?, chiedo a Gaetano (Chiurazzi, il certamente ormai stremato traduttore-traditore) si ritira nell’annunciare l’evento, che essa crea. E qui casca il filosofo. La quantistica ha dimostrato che l’osservazione che crea la cosa osservata, diventa un neo-unicum che prima non esisteva: essa deforma la realtà, creandola, e la sua energia (quella del fotone che viene utilizzato necessariamente nell’osservazione) si mischia all’oggetto osservato. In tal senso la freccia torna al bersaglio, perché l’arciere, il suo braccio, l’arco, la freccia, il bersaglio e ogni punto dello spazio percorso sono uno. Nulla torna, tutto è statico, anche se apparentemente dinamico.

Va bene, ti cito, caro Jacques (una volta sola, però!): “Gli amici della verità sono senza la verità, benché non vadano senza verità. La verità è uno e basta, sennò parmenidianamente non sarebbe.

Martin Heidegger
Martin Heidegger

Ricordo ancora il fastidio che provai nel leggere la risposta di Martin (Heidegger) a un suo allievo, che gli chiedeva perché non poteva essere più chiaro nei suoi scritti. Lasciamo perdere il mio sentimento negativo e quel che replicò Martin, che gli rispondo io a quel giovane amico:

Il filosofo fa quel che può, non quel che vuole. Se poi la sua frase-evento ti sommuove, vedrai, che ne dovrai scrivere anche tu.

E se Friedrich Wilhelm dice ai rari le cose rare”, io gli rispondo: taci, morto. Amico mio morto, ovviamente. Ma taci. Che hai parlato fino ad adesso. Mâgna e têš e spâs-t al nêş! Detto così, come si farebbe con un amico. Peut-être.

Questa folle verità: il giusto nome di amicizia

La frase di Friedrich Wilhelm:Folle vivente che io sono”. “E forse”, così egli ha iniziato la frase in cui gira la frase di Aristotele: “Nemici! Non ci sono nemici!

Secondo Jacques, “forse”, o “peut être” a dir si voglia, ha una funzione d’effrazione. Peut-être, dirò d’ora in poi, e basta. Solo allorquando apre la scatola del mondo, dov’è nascosto il vivituro-morituro miagolante, di nascosto, il fisico sconvolge il mondo esterno, violentandolo. Così la realtà appare a lui.

La Natura, chiunque sia ‘sta donnetta di malaffare, lo guarda indifferente. Però egli si butta fuori di sé e diventa parte della cosa osservata. Non lo dico io, lo dicono Werner Karl (Heisenberg), Niels e tutti i professoroni e finanche gli operatori scolastici della Scuola di Copenaghen. Ed è come fotografare: solo la luce ti permette di farlo (lo dice la stessa parola). Più luce c’è e più l’immagine diventa luminosa e nitida. Ma essa non sarà mai infinitamente tale, perché è limitata. Puoi sempre limitare la zona osservata, il resto sarà una prospettiva aerea leonardesca. I fiamminghi hanno realizzato quadri mirabili e impossibili. Il cocuzzolo lontano non può essere del colore che assume (sempre grazie alla luce e alla sua lunghezza d’onda) da vicino. Per questo e per tanto altro, Leonardo è stato quello che è stato. Anch’io mi sono da tempo immemore iscritto alla corporazione dei matti di cui parla Friedrich Wilhelm (forse quando a tre anni finalmente dissi mamma). E sulla pazzia sono un’autorità. Perciò, prima di commentare il resto del capitolo, riporto quanto detto all’inizio: amore e amicizia hanno lo stesso etimo. Di fatto sono la stessa cosa, c’è la stessa differenza che a gh’è fra córer e scapêr, fra correre e scappare. Si tratta di una passione. Ma non si creda che una sia migliore dell’altra e che, in simbiosi con ambedue, anzi, come parassita di entrambe, non esistano diversi animaletti perniciosi: nell’amore è soprattutto l’eros, ma anche i soldi, e altro ancora; nell’amicizia c’è posto per tutto, tranne che per l’eros. William (Blake), qui citato, è deluso da un amico e gli ordina di diventare suo nemico. Ignoro la diatriba, ma noto due egoismi. Questo è il problema.

Se la passione nasca necessariamente dall’egoismo, oppure da qualcos’altro: dopotutto Once, una volta si era tutti azzeccati in quella singolarità che precedette il Big Bang. Allora forse era evidente la risposta. Ora non più. Citerò, a mo’ di concia, il solito fatto di vita vissuta che, banalizzando, fa comprendere. Esisteva negli anni ’80, a Reggio Emilia, una tale che era soprannominata la Şìa. Era sbeffeggiata dai ragazzi del centro, perché era un po’ matta, e gridava sempre contro la sua acerrima nemica, la cognata: “Cla putana dla me cugnêda!” Questo andò urlando per svariati decenni, fino a che… la cognata morì. A quanto si dice, quando la Şìa venne a conoscenza del decesso, disse semplicemente: “Am dispies!”, mi dispiace! E anche lei lasciò i suoi pochissimi amici poche settimane dopo. Senza la sua antagonista, la sua Autre, era cessata ogni ragione del contendere e di sopravvivere: peut-être.

Torno al testo. Se la passione amorosa è follia, lo è anche l’amicizia. Non peut-être, è (quasi) certamente così. Di (quasi) sicuro c’è però solo la morte. Non concordo che l’amicizia si debba tenere nel silenzio. La vera amicizia no: patti chiari, amicizia lunga. Dall’amico esigo sincerità.

Ma è ovvio che poi non è così: se Riccardo, amico come pochi, mi critica un po’ ne soffro. Poco, ma un po’ sì. Se mi elogia, un po’ ne gioisco. Molto. Però sarebbe giusto che l’amicizia fosse basata sulla lealtà non solo nei fatti, anche nelle parole. Ma chi sono io a dire che qualcosa sarebbe giusto? Uno. La mia morale è unica. Tutte le sono. E forse sono anche unicamente ipocrite: peut-être. Differenza fra uomini e donne: peut-être. Esperienza quarantennale d’ufficio: due colleghi che non vanno d’accordo si affrontano a brót grógn, a muso duro, e poi se lo girano, quel grógn. Due colleghe che non vanno d’accordo si sorridono appena quando s’incrociano e poi si sparlano dietro. Non è una regola generale, però, è una frequente differenza che ho attestato negli anni. Poi non so, dovrei essere una donna per dirlo meglio. Oppure un guerriero Woodabe, di quelli che amano truccarsi da donna e paiono tante femmeniélle.

Che dietro la maschera del folle si celi un saggio mi pare un’assurdità: quindi è assai probabile. Luigi (Pirandello) ci ha insegnato che le maschere nude sono le più difficoltose da togliere e le più agevoli da portare. È una vera auto-violenza. Nella mia ingenuità pretendo che il mio amico Riccardo si tolga ogni possibile maschera. Credo che sia l’amico la cui ultima maschera sia più prossima a quella che mi esibisce ogni volta che, in assenza di coronavirus, ci abbracciamo.

Il sentimento dell’amicizia, secondo Friedrich Wilhelm, nell’antichità era considerato il più alto e nobile: un’altra assurdità forse probabile.

Tra gli Spartani l’amore (anche erotico) pederasta si mischiava con l’amicizia, tanto che fu codificato da Licurgo, ed includeva un’intimità tanto amicale che sensuale fra educatore ed educando. Il che rappresenta una splendida eccezione. Eispnelos (εἴσπνηλος)-ispiratore era l’amante anziano che conferiva il coraggio al giovane, che era detto aïtas (ἀίτας)-appartenente a. E poi c’era tutto un regolamento che non mi va di riportare. L’amore fra guerrieri rendeva più eroico il loro combattimento. Diversa era la situazione a Roma, dove l’omosessualità era sì tollerata, ma ne veniva deprecata la forma passiva: occorreva esercitare il ruolo di maschio copulatore, pena l’ignominia. Cesare, detto anche Cesarina, rappresentava una disprezzata eccezione fra i potenti. Per testimoniare che l’amicizia in Grecia e a Roma, pur essendo entrambe mischiate all’eros, avevano due dinamiche differenti.

Woody Allen
Woody Allen

Anche fra un uomo e una donna può esistere amicizia priva di eros. Woody (Allen) dice che dopo dieci anni di matrimonio solo due coniugi depravati continuano a fare sesso. Subentra una forma di amicizia o di inimicizia dalle variegate conseguenze.

Non ha senso la dicotomia, che Jacques riporta, fra amicizia che allontana e differenzia e che avvicina e eguaglia, che ti lega o t’invoglia alla fuga. Tale situazione esiste da sempre e per qualsiasi aspetto della vita. Su questo argomento Erich (Fromm) ha detto molto. La non reciprocità e assimetricità che Jacques evidenzia fa parte anch’essa della vita. Io amo, provo amicizia per Riccardo grazie a un sentimento fisicamente diverso da quello che egli manifesta per me. Non esistono nel cosmo due fenomeni identici, semmai simili. In ogni atto della mia vita io utilizzo il mio vissuto, lui il suo. L’amicizia non è un affatto noumeno, bensì un fenomeno quadrimensionale e relativo, come qualsiasi altro. Se l’amicizia fosse esteriormente uguale sarebbe noiosa: sarebe un valore aggiunto doppio, inutile. Il mondo è bello perché è vario (difforme). L’amicizia è una specie di amore, ma non, caro Jacques, un amore che ama più dell’amore: è un’illogicità. È come affermare che il celeste è più figlio del blu che dell’azzurro. Inoltre c’è anche il color cobalto.

È vero che l’amore vuole avere, ma è l’Io che vuole sempre avere. E si dice: Io, cari miei amici, vi dico che l’amicizia non esiste. E si dice amore mio. Fra córer e scapêr…! L’amicizia non si pone al di là dell’eros. Aspetta semplicemente che passi, oppure, se non passa, ne approfitta per entrare in te! Per penetrarti e farsi penetrare.

L’aimance, l’attrazione che Jacques riferisce all’amicizia, che attraversa tutte le figure per entrare è evidentemente un’illusione. Oppure no: peut-être! Jacques conclude che i concetti amico/nemico s’incrociano e non smettono mai di scambiarsi. Sì, così è la vita. Quanti veri amici hai perduto ed anche ritrovato, caro il mio Jacques?

L’amico fantasma (in nome della “Democrazia”)

Jacques comincia in modo esoterico, che poi, l’oscuro Monsieur, a leggerlo con attenzione, diventa il più essoterico di tutti. Specie quando arzigogola su cose ovvie a cui nessuno pensa mai.

Lo cito per la seconda e spero ultima volta: “Esiteremmo, tuttavia, sul bordo di una finzione.”

L’inizio del capitolo è imperniato su una serie di problematiche già affrontate da Hilary (Putnam) in “Ragione, verità e storia”, il quale si pone la domanda, che riporto a braccio: siamo enti liberi oppure cervelli in una vasca che credono di essere enti liberi (nel senso di semoventi esistenti in una realtà esterna, ma a cosa?, ma alla vasca!, mi risponde Hilary! Jacques crede di rimanere sul bordo di quella vasca: è il peut-être che lo minaccia e al contempo lo trattiene dallo scivolare, forse per sempre, in acqua. Come capitò a me alla piscina di Sant’Ilario, in cui m’immersi convinto di toccare coi piedi e, trovandomi nell’estremo della vasca dove la profondità era maggiore, oltre tre metri, in due attimi di terrore scoprii di saper nuotare e seppi riemergere. Jacques e Hilary non sono certi di essersi mai immersi e, conseguentemente, ri-emersi. Hilary, alla fine, per non far brutta figura, peut-être!, disse che sì, lui era sicuro di essere un animale terricolo. E Jacques? Vedrò, spero, l’evolversi del suo stato d’animo.

Terza e mi auguro ultima citazione: Se non temissimo, per fretta di determinazione, di precipitare le cose verso una realtà troppo assestata, potremmo proporre un esempio alla buona.”

Il capitolo è un guazzabuglio, come lo è un intricatissimo e onniavvolgente gomitolo, che basta trovare il bandolo della matassa e… Ci provo… L’io appartiene al noi: che di fatto è un’accozzaglia non sempre intricata, non sempre ordinata di io. Il difficile è provare il contrario.

La Russia appartiene a Vladimir (Putin)? Si è sempre detto che quell’immenso paese ha sempre avuto bisogno di un Padrone (assoluto). Jean-Jacques (Rousseau) diceva che più lo stato è grande e meno è possibile (né augurabile) la democrazia. È facile intuire il perché: se siamo in tre, si decide secondo una semplice maggioranza, se siamo tre miliardi il discorso non si complica, si auto-ridicolizza.

Quinta ed ennesima citazione: L’io “è sospeso in questa supposta contemporaneità” del noi. Tento un approccio relativistico: ognuno reca le sue coordinate spazio-temporali dove il tempo è la quarta dimensione, ontologicamente non diversa dalle altre. Eppure se io e te, caro Jacques, ci diamo appuntamento al 29 febbraio del 2464, alle ore 9, sento che potremmo trovarci (se entrambi ci saremo). Il semaforo rosso è maya, illusione, ma funziona per tutti. In caso di disobbedienza si rischiano multe o incidenti con annessa multa. In tal caso l’io non è nel tempo di noi, ma è sospeso in qualcosa che assomiglia all’idea di tempo comune con gli altri. Un esempio sono le votazioni, quando tutti vanno a votare all’interno del medesimo intervallo spazio-temporale: hic et nunc.

Il nemico e l’amico appartengono alla stessa spazio-temporalità: ergo, se non ci fosse l’uno, non ci sarebbe l’Autre, perché non ci sarebbe la comune spazio-temporalità. Banale, no? Tutto sarebbe un difforme e inconoscibile Autre. Tutto quello che non può esistere qui lo è. Esiste semmai Altrove.

La politica, lo stato fisico in cui c’è il politico che governa la città e quello che è all’opposizione, ma sempre dentro di essa, prevede l’esistenza del nemico, di chi la pensa diversamente: diversamente sarebbe un orpello.

Carl Schmitt
Carl Schmitt

Secondo Carl (Schmitt), l’eroe del capitolo (in relazione al quale pare non abbia alcun senso chiedersi se sia stato nazista e che si difese in modo cervellotico dalle accuse ricevute a Norimberga), “non si può ragionevolmente negare che i popoli si raggruppano in base alla contrapposzione di amico e nemico e che quest’ultima ancora oggi sussiste come possibilità concreta…” Ove vi sia la politica, ovvio, no? Che una guerra sia in atto, o virtuale, poco cambia: il nemico c’è. Chi ha vissuto gli anni della guerra fredda lo sa. Il solo fatto che sia eventuale, la rende presentemente ed effettivamente strutturante.

La guerra è utile al concetto di politica, senza che il discorso riguardi le risorse umane (vite) o economiche (beni): e non necessita dell’odio. Il nemico può essere privato, oppure pubblico. Ma sempre nemico sarebbe. Ma no. Secondo Carl il nemico è sempre pubblico ed è rappresentato da un insieme, un insieme di cellule belliche che formano un organismo (l’allegoria è mia). La guerra con gli altri è polemos, quella civile è stasis. Entrambe sono fenomeni naturali. La seconda (non sono affatto d’accordo però) sarebbe, secondo Jacques, una forma patologica. La prima rientra nella normalità.

Un esempio socio-biologico (tratto da ”Le origini profonde delle società umane”, proficua opera scritta dal citato Edward): all’interno del medesimo alveare esiste una sola regina. Le api operaie uccidono le proprie consimili qualora possano danneggiare quel che è l’ascesa al trono dell’ape più anziana aspirante regina. Le altre aspiranti, sono trafitte dalle loro stesse sorelle e consanguinee. Si tratta di nemici privati o, come pare assai più probabile, pubblici? Polemos o stasis? Tutte le ideologie politiche sono fondate su finzioni, su credenze, che stabiliscono una fittizia fraternità. Lo sono anche i concetti di uguaglianza razziale e di patria. L’uguaglianza di necessità crea una necessità di uguaglianza giuridica. Esiste un legame fra i due legami. politica e consanguineità. Questo pare una finzione di tipo mistico. Detto volgarmente: una balla grandemente utilizzata nel corso dei millenni della Storia. La fraternità è basata su una negazione del peut-être: dà per scontata una comune verità, libertà, uguaglianza, necessità.

Sempre nella disamina del libro di Edward, colgo che, presso il popolo amazzonico degli yanomamö, i villaggi sono spesso in conflitto l’uno con l’altro, ma quando aumenta la complessità delle relazioni individuali, le coalizzazioni sorgono anche fra individui che provengono da villaggi distinti. Il che fa stupire, ma alla lunga è pratica comune dappertutto. La fraternità è una balla che si gonfia sempre di più. In arsan bala è sia la palla che la bugia, che rotola e mentre lo fa acquisisce nuovo materiale, come la valanga, oppure lo perde a causa dell’attrito. L’allegoria vale per il principio di fraternità, di solidarietà.  Il prossimo è sempre indeterminato in senso assoluto, ma viene determinato in senso transeunte. Prima o poi finirà, ma ogni volta si riformerà. Come tutto il resto del mondo fisico. La Sampdoria è una delle due squadre di Genova ed è nata dall’unione fra la Sampierdarenese e l’Andrea Doria, quasi cinquant’anni dopo le loro rispettive nascite. Il Genoa è l’altra squadra cittadina, l’acerrima nemica, ma fino a quando? Un ufficio parastatale e una compagine governativa italica danno ancora meglio l’idea della provvisorietà di ciascuna fratellanza.

Finora il Cristianesimo è l’ideologia più aggregante che l’uomo abbia mai inventato: ora i suoi adepti, da pochi ed eroici martiri perseguitati dal Potere, sono diffusi dovunque nel globo terrestre, in miliardi di esemplari, e sono divisi in cattolici, copti, ortodossi e protestanti (diversificati a loro volta in una miriade di sette, alcune televisive e forse anche radiofoniche). Il cattolicesimo (kathólikos, universale), che è la più diffusa e in teoria la più unitaria, è diversificata come poche altre. Ci sono, esempio lampante ma non unico, i cattolici propriamente detti e gli Amici del Movimento di Comunione e Liberazione, che non si mischiano affatto fra di loro. Negli anni ’90 ho frequentato i Ciellini per un’amicizia che mi legava ad un paio di loro: attestai delle differenze comportamentali fra quelli di Carpi e quelli di Reggio Emilia. Don Luigi (Giussani), il loro ideologo, o il suo avatar (quando fu scritto “Perché la Chiesa – tomo I”, egli era parecchio infermo), diceva che la verità non è tanto una luce, ma una rupe a cui aggrapparsi: ognuno ha la sua. C.L. ha sempre avuto un’ottica gerarchica e verticista. Quel che conta è attaccarsi all’appiglio del Movimento, ma secondo una sequenza diretta di personaggi: io seguo le tue direttive, tu quelle del tuo superiore etc, attraverso una serie finita di scuole di comunità, che scorre dall’ultimo arrivato fino al numero uno del Movimento che, in teoria, dovrebbe osservare il precetto papale.

Recentemente però il papa attuale criticò fortemente la loro tendenza separatista, negando alcun valore positico a una “spiritualità d’etichetta”. Rimasi stupito quando seppi che uno dei suoi slogan era: “che il movimento era la tua ragazza!”, e quando scoprii che due di loro si stavano sposando. Mai li avevo visti ravvicinati quando li vedevo partecipare alle varie uscite gestite dal Movimento, all’interno del quale rimanevano separati. I ciellini s’incrociano fra di loro, ma non devono mai differenziarsi quando partecipano ai vari eventi. Presi individualmente, tutti i ciellini non valgono, se sommati, quanto l’intero movimento preso nel suo insieme. Il fenomeno è comune anche alle varie particelle elementari che, unite, possiedono un’energia complessiva che vale di più di quella della somma dei loro valori singoli.

La tribù yankee è un’altra immane e terribile testimonianza della diversificazione nell’unità e dell’unità nella diversificazione. Ogni yankee afferma con orgoglio di essere di origine italiana, olandese, messicana, irlandese, afro-americano, ma tutti, pur con qualche eccezione, si sentono yankee. Nulla è più instabile della fratellanza. Martin (Luther) voleva salvare il Cattolicesimo e per farlo, dopo che fu chiamato eretico, dovette gioco forza fondare un’altra religione. Un altro esempio: la Lega Lombarda riunì vari comuni, precedentemente divisi dai rispettivi campanilismi, contro il comune nemico, alla stessa stregua delle città-stato greche. Poi ci fu l’annessione all’Italia. Poi due guerre mondiali, in cui lombardi e calabresi e tutti gli altri italioti combatterono eroicamente insieme. Poi, alla fine degli anni ’80, fu fondata una Lega Nord, movimento laico e separatista, che comprendeva soprattutto il Veneto e la Lombardia, con annesso Carroccio. La sede storica della Lega era Mantova (scelta che fu a lungo oggetto di controversia all’interno di quel medesimo movimento), dove vige il detto: “Sotto il Po tutti terroni.”.

Oggi i leghisti sono detti sovranisti, e l’appellativo Nord è sparito dal simbolo di partito. E il suo Leader è stato sorpreso a ostentare il rosario e a votarsi alla Madonna calabra, che non è meno Salvinifica di quella che a Milano brilla de lontan. Era un chiaro e volontario messaggio rivolto a chissà chi ed anche ai propri elettori. Questo è oggi l’uomo politico. Un essere che gesticola e comunica ai suoi adepti e scagnozzi.

Per finire la disamina del pletorico capitolo: il concetto di democrazia confligge con quello di aristocrazia: dipende dal numero di amici, questo è il succo della Storia. Quanto ho assimilato del capitolo? Non lo so. Quanto credo, dentro di me, di averlo fatto: tanto.

Dell’ostilità assoluta

Jacques Derrida
Jacques Derrida

Comincio la reazione (che consiste innanzi tutto in un’aereazione dell’ambiente che precede il conflitto bellico occorso contro il capitolo stesso), partendo dalle note 17 e 19, che citano ancora le idee di Carl, che dice che l’uomo, a dispetto di quanto affermava Jean-Jacques, non nasce buono.

Ad osservare il pianto a volte isterico di un neonato, per cui se non frigna il fatto desta preoccupazione, non ho dubbi a riguardo: la nostra anima coincide almeno a metà col nostro Io, l’altra metà è da definirsi. Il nemico dev’essere un vivente, altrimenti che gusto c’è: “Vile, tu uccidi un uomo morto!” apostrofò malamente Francesco (Ferrucci), ormai morente, l’impietoso Fabrizio (Maramaldo), che non aveva saputo resistere al piacere della vendetta, e che volle trafiggere il nemico, quando era già condannato all’estinzione perpetua. La maggior parte dei dissidi giuridici nascono tra condòmini: eppure alla scomparsa di uno di loro, tutti gli altri, o almeno un rappresentante di ciascuna famiglia non rinuncia a onorarne le esequie.

È arduo trovare un filosofo così amichevole come Jacques. Ti fa sentire a casa tua, in smartreading. Prâxis e léxis: pratica e parola significante: questo è il problema. Fra il dire e il fare c’è di mezzo la Côte d’Azur. La parola non è solo comunicazione, ma è anche enzima, senza di cui le reazioni non avvengono, o avvengono dopo, è meglio precisare. Spinge, procura energia, favorisce le interazioni: léxis è bosonico, non ha massa, ma la causa. La politica è prâxis massiva.

Da sempre i politici utilizzano la parola, con tutta la sua vuota enfasi, per trascinare le masse (oggi il mezzo più utilizzato è twitter). Ogni aspetto della politica ha un senso polemico, che induce al dissidio: esprimere un’opinione significa schierarsi contro quella dell’Autre. Il tuo solidale acquisisce l’energia che gli sarà necessaria alla lotta. La parola crea conflittualità, che serve alla politica: in tal modo, fra le due parole, c’è sinergia, e non conflitto.

Le parole non sono mai conflittuali: sono quasi sempre le medesime ad essere usate, sia pure in senso divergente, da tutti i politici nella lotta per il Potere: l’ovulo che il Politico vuole fecondare per trasmettere al futuro la sua progenie. Quest’inseminazione è il frutto della conflittualtà concreta di cui si parla. Guerra e rivoluzione: sono due gemelle, ove a cambiare è solo lo scenario della rappresentazione. Lo Stato fornisce allo Statista lo Statuto perché Statalizzi. Questo è il tragitto umano a cui ambisce il Politico. La correlazione dialettica fra amico e nemico segue tre deviazioni del percorso. Ipotesi funebre, in quanto i soggetti interessati sono mortali, in quanto vivi. Il non voler uccidere l’amico distingue l’opposta intenzione nei riguardi del nemico. L’amicizia sospende, fino a diverso ordine, l’ipotesi omicida espressa da un individuo nei confronti del suo prossimo. Ama oppure desidera di uccidere il tuo prossimo: aut aut, non ci sono terze chance.

Il Politico gestisce tale collegamento amore-morte fra gli individui e decide chi è il nemico (e l’amico). In tal senso ogni uomo è, come dice Carl, un combattente (almeno potenziale). La guerra è il presupposto di ogni pensiero e ogni conseguente azione sociale. La neutralità: nel libro viene intesa come impossibile, o fittizia. In una società dove potesse vigere una reale neutralità, non vi sarebbe più guerra. Significherebbe aver risolto il problema del conflitto: essa potrebbe diffondersi come un’epidemia e uccidere il desiderio della guerra. Ma è un sogno: accolgo la tesi della natura fittizia della neutralità.

Esiste un paese costiero del Cilento, dal nome semi-fittizio di Pixuntum, ove, al tempo delle elezioni, si presentano due raggruppamenti politici: Libro Aperto e Ramoscello d’Ulivo. Io amo sia i Libri Aperti che la poesia dei Ramoscelli d’Ulivo. Non voterei però in base alla léxis, semmai a seconda della stima per un candidato anziché per il suo antagonista. Dopo aver votato, tacerei per sempre, la mia scelta: un giorno potrei pentirmi di averla espressa! Infatti: “cu li sordi e l’amicizia si vai ‘nculu a giustizia.” Ed anche: “chi tene santi vai mparavisu”, i Santi giusti ti conducono in Paradiso. Ma occorre stare attenti perché esiste il “futticumpagni”, il danneggiarsi tra amici per questioni privatissime. In quella perla immersa nel Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diana esiste un proverbio che si confà al discorso amico-nemico: “megliu nu male maritu che nu male vicinu”. Il marito è difficile da cambiare, il vicino quasi impossibile. Nonostante tale ritrosia, facilmente attestabile per chi viva per un po’ a Pixuntum, un altro proverbio pare contraddire la mia tesi: “amici e cumpari si parla chiaru”.

Cito (cos’è la sesta o la settima volta?) le parole di Jacques:Un evento non può essere evento, e decisivo, che essendo eccezionale.” Si tratta di un discorso fisico ineccepibile. Qualsiasi azione della materia segue una sua geodetica, che è unica, la più breve, secondo la logica della minor azione possibile che accompagna ogni atto fisico, dalla particella in su (Jacques compreso: anche se la cosa pare paradossale). Se emetti una miriade di particelle contro una barriera quasi insuperabile (e tutti gli oggetti del cosmo, anzi, tutti gli eventi, anche quelli che formano le barriere insuperabili, sono soggetti a questo avverbio: quasi), ognuna sarà respinta, a parte quella che, eroicamente, ce la farà a passare, fischiettando anche lei, forse, dopo una serie (quasi) incredibile di slalom. Una su un miliardo di miliardi di miliardi, non peut-être, sicuramente ce la fa. Prima o poi. Il peut-être riguarda quale tragitto seguirà stavolta. Tutti i percorsi sono possibili.

La meccanica quantistica può prevedere la traiettoria finale, ma solo a livello probabilistico. Il peut-être è eliminabile allorquando è occorso il singolo fenomeno. Prima e dopo di cui, esso è sostituito dall’indeterminatezza storica (e scientifica): ogni osservazione in qualsiasi istante muta l’ente osservato e crea il fenomeno. Inoltre, pare assodato ma non comprovato che una particella, per esistere, necessiti della non-esistenza di altre particelle che non ce fanno ad esistere, soltanto virtuali, senza di cui nulla può accadere. Esse si sacrificano come tanti imenotteri operai affinché la Realtà Regina, l’unica degna di esistere, semini altre eventualità. Segnalo la teoria dei multiversi di Hugh (Everett) III (gli Autres, I e II, sono in autres multiversi, peut-être), perché ha senso farlo. Peut-être. Una particella vaga nel mondo e dove la ricerchi a volte, peut-être, la trovi, ma se non la cerchi non si sa dove sia. Né se sia. La particella esiste solo quando la si trova. Diversamente, non è che null’altro che un quid che si giova di un’incertissima probabilità.  Che però si può prevedere, peut-être. L’attesterai, peut-être, quando giungerà a destinazione, sullo schermo che hai preparato per accoglierla. Ma non qui, non là, ma qui o là, come ipotesi. : come tesi conclusiva. Oppure , peut-être, dove non avresti mai creduto. Non bisogna credere in nulla, con le particelle. Non sono Dio: che non gioca a dadi secondo Albert, e che invece gioca, ma bara, secondo John Stewart (Bell). Peut-être. Puoi soltanto lavorare sulle possibilità. Lei invece può scegliere (o chissà chi può davvero scegliere per lei) dove andare, non tu, caro scienziato. Peut-être. Poiché, finora (peut-être) ogni singola particella è partita e ogni volta è arrivata dove ha voluto (forse) lei, cosa sarebbe successo se lei fosse andata da qualche altra parte? Il mondo sarebbe stato diverso. Sarebbe stato quell’altro. E se invece…? Sarebbe stato quell’altro ancora! Così nasce l’ipotesi (peut-être assurda, forse no) tutti gli universi immaginabili. Peut-être.

Settima estrapolazione:la rarefazione intensifica la tensione o la potenza rivelatrice.” Le particelle virtuali, che esistono almeno a livello matematico, nei calcoli, esistono per far esistere ciò che esiste, zigzagando (ma non si sa quanto o che verbo usare per loro) nel vuoto, che tale non è affatto: il vuoto brulica in quanto tale. Il mondo definitivamente pacificato, di cui parla Jacques, privo di conflitto, dove regna esanime la quiete neutrale assomiglia allo scenario a cui sembra condannato il cosmo, che soggiace agli effetti del secondo principio della termodinamica: tutto è destinato al disordine massimo. Ogni ente vive solo, a temperatura nulla, allo zero assoluto, privo di energia e di calore. Prospettiva a cui molti cosmologi si sono ribellati: potrebbe non acacdere questo nessun evento, qualora, cessato lo slancio del Big Bang e assisterà un inevitabile Big Crunch, che però condurrà a un ordine ordinato in maniera perfetto, una singolarità dove non ha alcun senso parlare di conflittto, né di possibilità eventuale: dove l’evento non accade. Dove il Nulla-Rien (non) accade. In quel non-luogo non-esiste il Politico (né lo Stato). Né la triplice realtà-possibilità-presenza, di cui ciancia Jacques. Fino ad allora, ad allora-non, la Storia è quello che dice il Monsieur.

La guerra sarà l’estrema possibilità, l’extrema (e quindi unica) ratio. Il conflitto, l’interazione, unico progetto esistenziale possibile. Un particolare: esso prevede la morte, cioè, ai sensi di legge (E = mc2), la consumazione di talune masse, per cui avvenga un’emissione energetica tale da condurre in avanti il cosmo, dove non esisteranno più direzioni sbagliate, e forse nemmeno direzioni, forse soltanto maya, illusione, una piscina profonda Nulla-Rien, che ospita, insieme, politici particellari e innumerevoli masse singole, amiche e nemiche, senza più alcuna differenza, senza alcun calore. E non ci saranno bagnini, per cui, non fate attenzione: tanto succede il Nulla-Rien. La guerra, dice ancora Jacques, permette di distinguere fra amico e nemico: è indubitabile, anche se tale distinzione rimarrà sempre incerta e transeunte. Poni il caso di due fraterni amici lombardi degli anni ’40: uno va sulle montagne e diventa partigiano, l’altro mette a repentaglio la sua vita in nome della Repubblica di Salò. Che la guerra abbia sempre un senso, dice Carl: è una sciocchezza, se intesa in senso assoluto, ed è veritiera in senso relativo. Ha sempre una direzione, che collega due o più enti, che interagiscono grazie al bosone responsabile dell’interazione. Il senso viene dato alla fine, da chi risulta vittorioso: ed è sempre l’arbitrio che fonda la Storia.

Filippo Tommaso Marinetti
Filippo Tommaso Marinetti

Caro Jacques, tu dici che la guerra è una possibilità reale: è la possibilità reale di ogni singolare evento. Senza conflitto non c’è Storia, non c’è fenomeno spazio-temporale. L’ostilità assoluta è il motore del mondo. È il fotone che illumina, oppure brucia (come il laser, che da fotoni in fase è composto). La guerra non la sola igiene del mondo, come assurdamente scriveva Filippo Tommaso (Marinetti): è una torcia che brucia continuamente. L’immensa scoperta dei primi uomini. Tutto rimane da vedere come utilizzare questa luminosa assolutezza.

Giuramento, congiura, fraternizzazione

Il rischio a leggere con attenzione un saggio filosofico serrato come quello di Jacques è di finire per condividere le tesi riportate. Mi propongo di non farlo assolutamente, anche se finora ho ceduto a tratti. Ripropongo il mio concetto di amicizia: è una forma di passione, come l’amore.

Dopo questa necessaria abluzione igienica, ora torno a cercare di comprendere il pensiero del filosofo. Jacques esamina quella particolare forma di guerra che è quella rivoluzionaria. Quella di Mao (Zedong) e di Vladimir Il’ič Ul’janov (Lenin), per intenderci. Quella che ispirò a Giuseppe (Tomasi da Lampedusa) la famosa frase “Bisogna cambiare tutto per non cambiare niente”.

Rovesciare una clessidra significa rinnovare la sua azione, facendole fare un giro ulteriore.

Null’altro. Jacques, il filosofo fatalista e idealista, che cita il filosofo Carl attribuisce alla Politica un predominio di tipo autoritario sull’amicizia (ottava citazione): “Amicizia-filosofia: sin dall’inizio svolgiamo un interrogativo sul politico seguendo questo trait d’union.”

L’ostilità assoluta è un’asserzione filosofica. Secondo l’uno che riporta l’altro, ogni filosofia dell’amicizia e dell’inimicizia tratta non un sentimento, bensì una logica dell’alleanza. Da cui deriva tutto il resto. Quale può essere il nemico? La risposta varia a seconda del filosofo della politica a cui la si pone: Karletto (Marx: uno che aveva tanti fratelli comicissimi) risponderebbe quello di classe. La guerra partigiana, a cui poco fa ho accennato, è la più fratricida di tutte, poiché l’ostilità assoluta può prendere di mira il consanguineo e trasformare la guerra interna in guerra vera, cioè esterna. Non necessariamente due consanguinei combattono all’ombra della medesima bandiera. Poniamo il caso che esistano due fratelli, Alberto e Zeno, diversamente amati dai genitori, uno di più e l’altro meno. Alberto crede che il più amato sia Zeno, e viceversa. Scoppia una guerra civile. Per mero spirito di contraddizione, poiché Alberto manifesta il desiderio di entrare nella Schiera Bianca che lotta contro il potere, Zeno entra in quella Nera, che lo difende. I due si accusano l’un l’altro di ogni genere di colpa, offendendo il nome dell’Autre con tutti gli epiteti, tranne ovviamente figlio di meretrice. Comunque finisca, è evidente che il conflitto sia nato prima dell’inizio della guerra civile. Non sempre è così e si assiste al dramma: la passione bellica, che c’è (o non c’è), al di là di ogni politica, che era tanto nel cuore dei partigiani che in quella dei militi repubblichini, si può scontrare con quella parentale, che c’è (o non c’è), al di là di ogni stato civile. Si respira aria di tragedia. Per cui passiamo oltre.

Il fratello non è sempre un fratello di alleanza, è quello che è. Alcuni di loro si amano, chi poco, chi tanto, chi niente affatto. A volte si odiano per motivi economici, per motivi anche politici. In genere il sentimento d’amore è più diffuso dell’atarassia politicamente orientata. Di tale sentimento il libro non va trattando: quando dico sentimento, intendo passione sentimentale, che nel libro brilla per la sua assenza, almeno finora. Quando Jacques parla di oikós (focolare), intende il luogo dove viene negoziata l’economia familiare, non l’affetto. E infatti poco dopo, per non intralciare il pensiero politico, si dice che qui interessa l’amicizia priva di focolare. Il filosofo ammette alla fine che non si sa cos’è un amico: neanch’io lo so, ma lo sento vibrare e splendere dentro di me.

Quando poi dice che la virtù è virile, è come se affermasse che la rosa è in genere rosa. Occorre capire se e quanto un uomo sia comunemente più virile della donna. Non c’è nulla di naturale nella figura del fratello? No, soltanto una somiglianza genetica, che non influisce più di tanto nella passione umana, ma in quella di certi animali sì.

Il solito Edward spiega che, qualora venga catturata una formica quando è ancora una pupa immatura da una colonia di formiche schiaviste, subisce l’imprinting dell’odore della colonia dei rapitori e attacca le sorelle geneticamente uguali. Tutto ciò è naturale. Naturale è la splendida giornata che poco fa ammirai dal balcone, quanto l’aria appestata di Hiroshima il 6 agosto del 1945, intorno alle 9 di mattina. Non ha senso parlare di naturalità: tutto lo è.

Il fratello è un fatto esistenziale, più che biologico: è un fatto naturalmente naturale, come l’alterità razziale. Solo se considero me stesso un nemico di me, posso considerare l’Autre un nemico. Lapalissiano: il nostro Io è la palestra in cui alleniamo la nostra tendenza al conflitto, dove impariamo a giudicare il mondo esterno, e a entrare in conflitto con l’Autre. E il fratello è il primo sparring partner con cui ci si allena, fin da piccolo. Esiste, pare, anche la patologia del cosiddetto figlio unico: colui che vede solo sé nel mondo, e il cui Io, pur auto-conflittuale, predomina nella sua stessa visone: fra sé e il mondo esiste al centro di un ego¸che è una specie di Mostro di Victor (Frankenstein). Quest’anomalia impedisce di vedere il proprio nemico. L’Io è il proprio nemico interno che cela quelli che cessano di essere propri, essendo esterni, ammucciati e confusi tra di loro, e che finiscono per colpirti alle spalle, at once, all’improvviso, proditoriamente, inopinatamente, assurdamente. In tutti gli ego-umani, forse negli ego-figli unici c’è un quid di più.

Lui è mio fratello, Io sono l’Autre: spesso, dentro di sé, ci si sente così. Jacques dice bene che in tal caso il focolare è il luogo dove regna il nemico. Amen.

Colui che mi accompagna

Michel de Montaigne
Michel de Montaigne

Se questo fosse un incontro di pallacorda fra Jacques e me, direi che è senza storia. Esso attesta la mia netta supremazia su di lui. D’altronde non è difficile battere un filosofo che ha già scritto, specie se egli è da tempo evaporato: basta dire “aggio vint’io!”. Il presente capitolo m’illumina nel senso che vedo tanto buio nelle sue parole, che la mia luce fa ancora più effetto. La modestia non è il mio forte. Ancora però non ho capito se egli stia ancora riportando le idee altrui (specie di Carl, ma ora anche di Sant’Agostino e di Michel de Montaigne), in attesa di tirare fuori la sua arma segreta, o se… Ma tiremm’innanz! E sempre sia peut-être!

Secondo Aristotele l’amico “è una sola anima alloggiata in due corpi”. È ma non è. Mah!

Aut aut, e non aut et aut! – diceva Soren (Kiergegaard)[1].

E se uno ha due amici? Con chi dividerebbe il suo B & B? Se questo mio corpo è dell’amico, più che mio, non glielo posso donare, poiché è già suo. Non posso chiedere il suo, che è già mio. Questa comunità d’anime è un idealismo che non è per nulla reale. Riccardo mi vuol bene, ma né lui né gli altri amici del cuore darebbero per scontato che qualcosa di intimo che fa parte della loro vita (moglie, oggetti personali, ricordi, dolori, imbarazzi) siano ugualmente miei. Anche per me è così.

Chi dona non è chi riceve! Se un elettrone vuole salire di livello, un quid deve regalargli un fotone (energia); che, se vuole scendere, lo restituirà, cedendo un po’ di sé.

Forse in tali orbite non esistono amici? La perfetta amicizia è indivisibile e l’ordinaria distribuibile? L’unica amicizia perfetta è quella morta. Poi ci sono le ordinarie e le straordinarie.

Jacques, tu distingui tra fraternità naturale e spirituale. A mio immodesto parere, tutte le amicizie, comprese quelle che tu definisci naturali, sono spirituali. E nulla, ma proprio nulla!, di quel che esiste non è naturale. Meglio dire che tutto lo è.

Michel de Montaigne afferma che l’amicizia dura finché Dio vuole. E che la Natura ci ha indirizzati alla società. Alla prima teoria, religiosa, non rispondo. Alla seconda dico che la Natura ci ha indirizzati, insieme a tutto il resto, di volta in volta dove le è parso bene. Non necessariamente ci condurrà alla società. Non siamo in grado di prevedere con certezza dove termina il suo iter una particella una volta che è stata sparata: come potremmo asserire concetti così impegnativi?

L’amicizia è come l’interazione nucleare forte: due quark sono collegati tra loro da un gluone. Più sono vicini, meno intensa è la forza necessaria all’unione; che cresce man mano che i due amici si allontanano, e quando l’elastico gluonico è teso in maniera eccessiva, si spezza: quante amicizie hanno fatto la stessa fine? L’esperimento filosofico e mentale insegna che esistono differenti valori di amicizia. E che essa varia storicamente, transit, panta rei, come ogni cosa. Se n’è accorto William. Opponi come divergenti la fraternità greca e quella cristiana, che non prevede scelta, ma è onnicomprensiva. Ama il tuo prossimo come te stesso (perché ce lo ordina Lui). In questo ti do in parte ragione: si tratta di due situazioni diverse, ma non eterogenee. Dipende dalla quantità, composta da poche unità la prima, da svariati miliardi di persone la seconda. Ma nessuna delle due è assoluta. René (Descartes), anomalo cristiano, diceva che un animale è una macchina, per cui il suo corpo non era suo ma di proprietà dell’uomo. Al che mi augurerei che, se esistesse la reincarnazione, egli divenisse un topo ballerino! Molti di noi rimarrebbero incerti fra il salvare la vita al proprio amabile pet o l’arcigno vicino di casa. Un’aberrazione? Un fenomeno diffuso, la cui etica si può discutere.

Ripieghi

Jacques, ti cito per la nona volta:Il legame che mi unisce all’anima dell’amico non è solo il nodo di un attaccamento tra due, tra due uguali, tra due soggetti o due volontà simmetriche. Mi sottomette alla legge dell’altro.

In natura non esistono due cose uguali: lo Stefano che ha scritto la riga sopra è sparito, ora c’è costui che sta sparendo: sono variati, fra i due soggetti, n stati fisici e, da un punto di vista relativistico, tutte e quattro le dimensioni spazio-temporali. Immagina quante differenze ci sono fra me e te, fra me e Riccardo, fra Riccardo e te.

Isaac (Newton) scoprì la relazione gravitazionale che intercorreva fra due corpi, la cui intensità variava a seconda della massa degli stessi e dalla loro reciproca distanza. Sappi che non è facile calcolare con esattezza tale interazione, specialmente ora che Albert ci ha messo lo zampino, complicando enormemente il tutto. Ma già ai tempi di Isaac, risultava impossibile calcolare l’interazione quando i corpi erano tre. Se io divergo da Riccardo, e tu divergi da me, e voi due divergete per conto vostro: che fine fa il mio, il tuo, il nostro ragionamento? Il nodo è scioglibile?

Tu dici che si è uguali, in quanto amici: dimostralo. Io vedo soltanto differenze, almeno fra me e Riccardo. Ho colto una certa somiglianza fra te e Gian Maria (Volontè). Vogliamo inserire anche lui nel calcolo, ipotizzando che sia (stato: il tempo è illusione, maya) nostro amico?

Se per essere amici occorre una comune identità, non vi sono amici. Caro il mio amico! Che sia questo il messaggio lasciato volutamente oscuro dallo Stagirita?

Caro eventuale lettore di queste note, sappi che se pensi di cogliere l’essenza del libro di Jacques leggendole, compi un errore madornale. Il bello della storia, il ritornello della canzone è la frase di Aristotele che ho indicato all’inizio. Jacques ci sta giocando dall’inizio, variando in mille modi, insistendo soprattutto sullo stato fisico di quell’Omega che adorna la frase in greco: l’ultima àncora a cui si può aggrappare l’esegeta. Su tutto questo, tacerò, poiché non voglio compiere l’azione bieca di uno spoiler. Leggi il libro e (non) capirai. Peut-être. Michel de Montaigne si fida più dell’amico che di sé. Anch’io di Riccardo, specie se c’è da correggere le mie bozze. Egli è un uomo lento, ma preciso. Il discorso non è mai simmetrico. Lui potrebbe affidarmi la correzione delle sue bozze. Non delle mie. Questo significa che, essendo reciproci ma non del tutto biunivoci, non siamo amici? Pensiamoci su…

C’è una soluzione, insita in un’affermazione che espressi poco fa: l’amico, che ha bisogno, si affida al solidale, perché solo lui, più di se stesso, può aiutarlo. Quando l’amico si trova in analoghe ambasce, sa che solo il suo compagno, più che sé, può aiutarlo. Si tratta di due coppie di soggetti, due Riccardo e due Stefano: non due, ma quattro, otto, sedici, trentadue, infiniti amici.

Giustamente, ricordi che la traduzione politica di tale (pur sforzata) uguaglianza perde tutta la sua gagliardia: la politica, feroce belva, può sbranare qualunque conato di purezza amicale. Si fa deformare da taluni interessi disonesti, se è coinvolta da un numero troppo elevato di persone.

Tralascio l’orrore che suscita in me la tesi aristotelica che uno schiavo, essendo mero strumento (inumano), non può essere mai considerato un amico. Egli assicura il genere umano che solo i suoi esemplari possono, pur con immensa fatica, meritare il titolo di amici. E Phoebe? La borkie tanta amata da mia figlia? Io amo e sento che anche loro trovano un analogo sentimento nei confronti dell’umano. Che si tratti di una pazzia, la mia, poco me ne cale: io ci credo. La mia fede non è eterogenea rispetto a quella di Aristotele: sono entrambe teorie religiose e non falsificabili.

Amo i miei libri, che ricambiano il mio sentimento. Confido più in loro che in me. Mi elargiscono più doni loro di quanti io ne saprò mai conferire a loro. Lo stesso vale per il tuo tomo, Jacques! Mi sento animista, che male c’è! ma se ce ne fosse, che me lo si provi prima di condannarmi! Altra credenza dello Stagirita: l’atto del politico consiste nell’aumentare l’amicizia. Quale? Quella perfetta, sento rispondere da qualche millennio di distanza. Se è esistita sì. Quando è esistita? Nome, cognome, indirizzo, codice fiscale. Si tratta, a quanto pare, di quella che è basata sull’utilità: di tutti gli amici del politico; ma non di tutti, peut-être, solo di quelli che girano intorno alla sua figura: i suoi satelliti.

Sospendo il discorso, in quanto… mi sento incapace di… commentare alcunché. E lo riprendo solo per riportare l’opinione dello Stagirita che anche il rapporto matrimoniale è fondato su un’amicizia di tipo politico, in quanto anch’essa di tipo utilitaristica. Si tratta di una “comunità di servizi” (decima citazione). Afferma anche che essa vale prima dello stato, nel senso che è anteriore. Il povero Stagirita ignorava il popolo dei Pigmei che da tempo immemorabile rigettava (peut-être non l’ha mai conosciuta) questa forma di micro-socialità: tra loro, il consiglio degli anziani (ignoro il termine del loro idioma che corrisponde ad aristocrazia) gestisce la cosa pubblica e provvede all’educazione dei giovani.

Esistono tre tipi di amicizie, fondate:

  1. sulla virtù
  2. sull’utilità
  3. sul piacere

L’amicizia, secondo lo Stagirita, si divide in… si fonda in… consiste in… Cito per un’undicesima e salvifica volta Jacques, e lo approvo, quando dice: “Ma forse è venuto il momento di tagliar corto.”

Riporto anche un pensierino di Pierre (Aubenque):L’amicizia perfetta si distrugge da sé”.

Se si desidera il massimo dei beni per l’amico, che diventi Dio, contraddittoriamente non lo si deve volere:

  • Dio non è lontano, è imperscrutabile e la mancanza di prossimità fatalmente riduce l’amore:
  • Dio non è un uomo, non può essere un amico
  • Dio non ha bisogno di amici

L’amicizia perfetta non può pertanto esistere. Meno male: sarà ancora viva per un po’.

Voglio focalizzare il (mio) discorso partendo da quello di Aristotele che cita Esiodo: “Per l’amico occorre un pegno”. Un impegno. Che assomiglia ai detti citati “Patti chiari, amicizia lunga” e “Amici e cumpari si parla chiaru”. Un impegno che viene definito politico e legale. Occorre ammettere che qui ci si trastulla con le parole.

A me preme invece ribadire il discorso della passione: l’amicizia è tale, come stato psicologico, comportando anche dell’altro, sovrastrutturalmente. Dell’altro lasciamo che se ne occupi lo spettro di Aristotele. In che senso per me è tale? Sento che qualcosa in me si assimila in qualcosa che è in Riccardo. Giro la frase: la simpatia indica che sento qualcosa in me che mi assimila all’amico. Questa è per me l’amicizia. Riccardo e io siamo diversi, non viviamo l’uno per l’altro: nessuno dei due crede che l’essere più caro che vi sia al mondo sia l’altro. Ma non pesa il saperci estranei in qualcosa. Amicizia è coltivare questa simpatia, il sentirsi consimili.

Essa vige nel terreno comune in maniera simile a quello che Mircea (Eliade) identificava come il terreno sacro in cui il divino si incontra con l’umano. Nulla di divino né in me, né in lui. L’umano stesso non conta. Quel che conta è ciò che ci accomuna. Che io ignoro cosa sia: ma sento che c’è.

E che ci fu nella singolarità da dove entrambi deriviamo: allora e in ogni attimo di vita successiva del cosmo. Quest’entanglement, legame, correlazione, è l’amicizia. Un quid di emozionante. Nulla di codificato. Non so se sia. Esso, lo sento, esiste. Al contempo non nego che esiste, in maniera ugualmente importante, la tendenza ad allontanarci: diversamente io sarei là, a Roma, con lui; o lui da me, a Reggio Emilia. Ecco che vorrei finire con una battuta che qualunque filosofo serio (io non sono né l’uno, né l’altro) s’azzarderebbe a pronunciare: il terreno comune fra noi due consiste in quel simbolo che affratella le due città: S.P.Q.R.

Caro Jacques, grazie alle tue elucubrazioni e ai tuoi continui rimandi a tutto quel bestiario di antichi e nuovi filosofi, sto finalmente avendo una pur pallida idea di cosa significhi per me kam’a). Mi stai partorendo, come se fossi un ostetrico: respira! Dai! Uno! Due! Ritmo!

In lingua d’uomo, la fraternità

“Oh bein bein!” Questa è stata l’esclamazione che mi è sfuggita, mingendo, non appena finito di leggere il Capitolo 9, il più lungo e il più… “Oh bein bein!” Espressione intraducibile (come del resto il tuo peut-être), che non vuol dire: “Oh, bene bene! ”, ma nemmeno “Oh, male male! ”, ma qualcosa di simile a “Ahhh!”, “Accidenti!”, ma con conseguente atteggiamento rassegnato per cui s’intende: “Portiamo pazienza!” “Oh bein bein!”

Il capitolo comincia bene, forse il parto occorso alla fine del precedente sta facendo partorire a sua volta l’ostetrico. Che dice: nei primi otto capitoli mi sono limitato a riportare le opinioni altrui… Finora, ma… “Oh bein bein!” In questo predominano cambiano i precettori: François (Chatelet), a cui sarò sempre grato per essere stato il curatore degli otto volumi della “Storia della Filosofia”, Immanuel e Michel de Montaigne. “Oh bein bein!”

Carissimo, m’interessa quando scrivi che nel presente non ci sono amici, che appartengono al futuro, come prospettiva, e al futuro. Non esistono nel presente, amico mio, perché esso non esiste. “Oh bein bein!” L’amico e il nemico prescindono da qualsiasi astrazione o norma. Quindi? Finora si è scherzato? “Oh bein bein!” Il movimento che, a tuo dire, fa debordare il presente (che non esiste) partendo dall’inconfutabile futuro e dall’ormai assoluto passato, rappresenta il movimento e il tempo dell’amicizia. “Oh bein bein!”

Immanuel: l’amore è attrazione (chiaro!), rispetto è repulsione (rispettare le distanze, per proteggere dal coronavirus caratteriale). “Oh bein bein!” Anche il mantenere le distanze diventa una forma di attarzione, di stare sempre a tiro. Ovvio. “Oh bein bein!” L’eccesso di attrazione porta al male. La distanza di sicurezza al bene. Ricordi l’elastico gluonico che si spezza? “Oh bein bein!”

“Il male è l’abbandono a sé o all’altro.” “Oh bein bein!” Inutile dire che il male, inizia, sulla soglia con il sentimento, la passione, kam’a.” “Oh bein bein!”

Secondo Michel de Montaigne, kam’a, la passione “è cieca nella sua scelta e svanisce nell’incostanza”

“Oh bein bein!” Immanuel poi parla dell’amico che è come un cigno nero, rara avis, colui che sa mantenere il segreto. Per me questo pennuto non è Riccardo (che mai ha tradito finora un mio segreto, per quel che ne so), ma colui che gli amici (ne ha tanti, il poveretto!) definiscono il Segretario. Tu gli confidi un segreto e lui tacerà per sempre. Sia perché è una persona corretta, sia perché lo cela anche a sé, se lo scorda. “Oh bein bein!” Il problema, dice bene Immauel, è quando si hanno due amici: a chi confidare il proprio segreto? A entrambi! E ognuno di loro a tutti i loro amici. Alla fine lo sanno solo in tre: “Òm, dòni e ragâs!”, uomini, donne e ragazzi. “Oh bein bein!”

Questo cigno nero, proveniente dallo sconfinato allevamento di cigni neri, è un fratello. “Oh bein bein!” Ah, dimenticavo, le sorelle non sono ammesse. “Oh bein bein!”

Parlo ora della francità che tanto appassionava (anche in questo caso di tratta di kam’a) l’altro Victor (Hugo), detto anche Marie. “Oh bein bein!” Assomiglia tanto al white man burden (dove white sta per albionico) di cui sproloquiava Rudyard (Kipling). “Oh bein bein!” Ho la massima stima per questi beneamati cugini d’oltralpe, ma… “Oh bein bein!” Victor parlava però di affrancamento, che significa, ad occhio, assimilare il mondo a quello che è già: la Francia. “Oh bein bein!” Rinuncio, per pietà, ad aggiungere quanto vorrei. Se non: “Oh bein bein!”

Per la prima volta nella storia dell’umanità

Dai, Jacques, che fra poco avremo finito di soffrire (insieme). Ma non di patire, non d’appassionarci. Ti chiedi (tra parentesi, dodicesima citazione, ormai potresti anche citarmi per plagio): “Un buon computer filosofico potrebbe convertire questa storia kantiana della virtù come storia dell’errore in software hegeliano, poi nietzcheano – e lo fa già, non è vero?” No. Non esiste un computer filosofico, né buono né cattivo: fino a quando “Io, robot” di quell’altro Isaac (Asimov) non diventerà realtà, i computer non avranno né etica, né coscienza. D’inaspettato c’è che non cambia nemmeno ora l’andazzo dei primi nove capitoli: non accade nulla di nuovo, oppure no, cambia tutto, senza cambiare nulla. Rimane un leggerissimo, quasi impalpabile velo anti-muliebre, ad esempio quando qualcuno dei tuoi maestri accenna alla doppia esclusione della donna: non amica dell’uomo, né di altre donne; ma ti affretti a dire che il loro riscatto “non ancora” è possibile (tredicesima, che porta fortuna, mini-citazione).

Finalmente, a nove pagine dalla fine, ti chiedi:Perché non sono l’amico di chiunque? Non lo sono, d’altra parte, già sottoscrivendo questa proposizione così forte e insieme così disarmata, così disarmante? Non potrebbe esserci risposta tranquillizzante a tale domanda.”

Ne fai una questione comunitaria, non psicologica tua. Anzi, dici che non può essere comunitaria, e poi chiacchieri tanto che mi fai venire un bel mal di testa, per cui ti seguo ora a distanza di sicurezza, però ti seguo sempre. Citi Maurice (Blanchot) che cita Michel de Montaigne , che disse, lui, Michel de Montaigne, non te, non Maurice: “Oh io mi occupo soprattutto di me!” Questo è quello che desidero tanto facessi tu, mio giovane amico. Finisci il libro chiedendoti quale sia la politica implicita nella parola fratello. Ovvio che non rispondi, ma concludi con un punto di domanda, uno dei 3.642.328 che ti fai e poi aggiungi, manco fossi l’Aristotele del tuo tempo (ultima e funerea citazione): “O miei amici democratici…

Diversamente dalla mia costumanza, ho citato pochissimo del libro, per legittima difesa. Per legittima offesa, invece mi cito me, ora, esageratamente.

Una volta Riccardo mi chiamò e un po’ emozionato (e carezzevolmente dolce) mi sussurrò che da vari giorni desiderava telefonarmi (vederci era più difficile, in quanto abitiamo in città differenti). Poi mi chiese, con quella sua flautata voce, la cortesia di aspettare un attimo che avevano suonato al citofono. Quando riprese in mano la cornetta mi congedò (più emozionato che pria!, ma anche un po’ bruschetto), dicendomi: “Stefano! Caro amico! Ti devo ora lasciare, che è tornata Michèle, che è da stamattina che non la vedo! Ti chiamerò più tardi, se riesco!” E se fosse successo a me? Avrei sbuffato, dicendo a Riccardo di pazientare un attimo, avrei aperto la porta abbasso e quella di casa, e sarei tornato al telefono dicendo: “Ah, era solo mia moglie, dimmi pure, amore mio…!”

Poco fa mi ha ri-chiamato un amico, mi pare si chiami… Riccardo… affezionato come pochi (tre? quattro? cinque? o n?) o come nessun Autre, che subito premette che era in casa e all’improvviso ha avuto un grande desiderio di parlare con me.  La passione amicale, per noi due, è reciproca e disinteressata. Gran cosa è l’amicizia. Da meditare. Un giorno bisticciai con Tonino.  Michele mi chiese un giorno se era vero il fatto. Io e Tonino facevamo coppia fissa da alcuni anni.

Sì, gli dissi, mi ha deluso come amico.

“Ma hai passato un bel pomeriggio con lui?

“Sì”

“Quando?”

“Oh, tante volte!”

“Almeno una volta?”

“Beh sì!”

“Allora dovresti essergli grato per tutta la vita!”

Me lo ricordai, questo passaggio, quando mi riappacificai con Tonino.  Bella frase che mi disse! Da meditare. Ciò che Andrea conosce a livello intellettuale mal si collega a quanto egli percepisce a livello psichico, mancandovi un collegamento o due. Una sera mi confidai con lui… con tono affannoso e melanconico: “Ho degli amici qui ad Amalfi… ne ho nel Cilento… ne ho a Milano… ne ho a Bari, a Roma… ne ho in Sicilia… e vivo a Reggio Emilia!… Peccato non vederli tutti insieme!” “È bello avere tanti amici!” – mi seppe rispondere. Non aveva capito nulla del mio strambo malumore, ma me lo fece passare.

Da meditare.

E intanto Jacques è ancora lì che blatera tesi altrui, mi pare che il discorso verta che io è in noi (quarta citazione, che riporto dopo la quattordicesima, per dare a me, a tutti, anche a te, Jacques, la speranza di una Resurrezione): “… da lungo tempo, il tempo lungo di un tempo che non appartiene al tempo, un tempo fuor di sesto, seguiamo, attendiamo, precediamo, la freccia di questa teleiopoiesi.”

Qualche annetto fa, quel tipo strambo di nome Albert disse più o meno che esiste un unico tempo assoluto (quello del fotone, che lui ipotizzò per primo o, meglio, per secondo, insieme a un tale di nome Max, di cognome Planck, peut-être), mentre tutti gli altri sono relativi. Questo ha condotto a due paradossi:

  • dei gemelli: uno di essi resta sulla Terra, mentre l’altro parte per Altrove a velocità quasi pari a quella della Luce. Quando torna, nel frattempo è morto il trisnipote del fratello, anche lui da tempo immemore evaporato;
  • degli orologi: Hilary e Jacques si fronteggiano, avvicinandosi l’uno all’altro; nel frattempo misurano, seguendo le indicazioni di Albert, lo scorrere del tempo: ognuno di loro scopre che l’orologio dell’amico-nemico che gli sta di fronte è più lento del proprio.

Arrivò poi la quantistica a stabilire che, peut-être, la freccia del tempo, in teoria, poteva procedere anche all’indietro (forse una miriade di tachioni lo stanno facendo in questo non-momento), e che senz’altro, anzi, peut-être, il fotone ha tempo nullo (ma questo l’aveva già intuito Albert); che esisteva la bi-locazione, sempre sia peut-être.

San Bosone poteva essere in due punti contemporaneamente (tanto che qualcuno intuisce che o c’è qualcosa che tocca, come si dice a Reggio, cioè che non si configura in modo logico, oppure che possa peut-être esistere un solo bosone che agisce dappertutto).

Poi bussò alla porta un certo Julian (Barbour) che assicurò un mondo tra l’attonito e l’indifferente che il tempo non esiste, è illusione, maya. E Carlo (Rovelli) gli sta da tempo dando ragione, contrastato però da parecchi colleghi, completandone il messaggio: lo spazio, pure lui, è altro, peut-être una specie di grumo, boh…

La passione che governa l’amicizia e l’amore, Jacques mio, è un evento fisico che soggiace, come tutto il resto, al secondo principio della termodinamica, che prevede l’entropia, cioè l’aumento del disordine in funzione del tempo. La mia è qua, in queste mie parole. Non so dove sia finita la tua, ma credo si sia trasformata almeno in parte in un arcano luogo dentro di me. E ora, da pochissimo, anche fuori. Una spiegazione è questa: peut-être non esiste affatto un dentro e un fuori.

Ah! Chi ha avuto la bontà, no!, un’amicizia sufficiente a voler leggere e correggere le bozze, un tale di nome Ric, mi ha appena chiesto: Perché dici ‘caro amico’?  Risposta: perché l’amicizia si fonda su un’unità di cui ti accorgi quando scorgi nell’Altro un complemento di te. Non un uguale, ma un omogeneo che finalmente a te si è ricongiunto.

Come già dissi, la tua scrittura, mio ritrovato amico, è ricchissima di quei magici enzimi che fanno reagire gli organismi: è prodigiosamente catalizzatrice. Ed è chiarissima: tu, mio piccolo pied-noir, parli proprio come un libro stampato (da Raffaello Cortina Editore). Cosa ho capito di tutto il tuo finissimo ciarlare? Boh! Nulla? No! Non peut-être!

Jacques: un estremo saluto (ne riparleremo quel giorno). Tu sei un uomo pio. Pietas: Dei sono i tuoi folli predecessori. Tu sei anche púus, puro. Ti amerò per questo.  E ti chiedo venia se talvolta sono stato im-pietoso, ma sempre, credo, com-passionevole.

 

Written by Stefano Pioli

 

Note

[1] Il titolo esatto è “Enten – Eller”. L’autore impone una scelta, portare il lettore a prendere una decisione perché deve decidere come vuole vivere la sua vita, invece di andare passivamente alla deriva lasciandosi semplicemente scivolare lungo il “fiume della vita”.

 

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