“New Grub Street” di George Grissing: quando il dialogo si fa narrazione
Fraterno George, ieri ho iniziato il tuo romanzo, e già all’inizio del capitolo 5, una tua frase mi dice, ma che cosa? Che questo è un tuo libro, nel senso che non può essere che relativo alla tua strana e fugace apparizione umana, essendo tu sparito altrove, destino comune di ogni fenomeno, prima del tempo e avendo spesso vissuto con l’ambascia che recano le difficoltà economiche: “Uno strano periodo, ve l’assicuro…”.
Da cui deduco che l’io che narra e che apparirà probabilmente, assai spesso, è anche un sé narrato.
Tu hai vissuto, in parte almeno, le vicende dei vari characters, aspiranti scrittori di successo. Edwin Reardon, uno di loro, come te, ha viaggiato per diporto in Italia e nel sud d’Europa, e poi è tornato colà dov’è nato. Di più non so, al momento, se non che:
“Le storie che scriveva erano brandelli di psicologia… l’ultima cosa che una rivista avrebbe accettato da uno sconosciuto.”
Poche righe dopo:
“… la mancanza di un’occupazione fissa incoraggiava la sua naturale tendenza a sognare, a procrastinare e a sognare l’improbabile. Era un recluso in mezzo a milioni di persone e vedeva con timore la necessità di esporsi e lottare per il cibo quotidiano.”
Ed ancora, quando qualcuno ipotizza l’invenzione, da parte di Edison, di una Macchina letteraria: “Bastava mettere insieme un dato numero di vecchi libri, riassumerli, mescolarli, ricavarne uno solo adatto all’epoca moderna”.
Un passo ancora, molto inquietante, che riguarda il più disgraziato fra tutti, sempre Edwin:
“I vari suoni che segnavano le fasi che andavano da mezzanotte all’alba gli erano diventati tristemente familiari; la tortura mentale peggiore era lo scampanio e il rintoccare degli orologi.”
Questo passo e quelli immediatamente successivi indicano che il tempo appare a volte quel che è: una morsa tagliente. E poi un’altra, forse ancora più terribile frase:
“Un giorno o due di un’angoscia che non può essere descritta a chi non è pratico.”
Se ne deduce che tu sei pratico e che queste sono le tue memorie tradotte in finzione.
Leggiamo insieme questo periodo:
“Vedete com’era complicata la situazione; un problema ne portava un altro e ovunque si moltiplicavano i motivi di irritazione.”
È la terza volta, mi pare, che ti rivolgi al lettore. Mi sembra di vederti rimuginare i tuoi motivi d’irritazione, mentre cerchi di mostrarli, a quei fratelli lontani, ma già allora esistenti in modo virtuale, che decenni, anzi, un secolo dopo avrebbero letto il tuo romanzo di memorie in finzione.
Se cerchi empatia, da me ce l’avrai, te lo prometto.
Ancora, varie pagine dopo, quando Edwin, su cui sento stai riversando la maggior parte del tuo horcrux (della tua anima, poi, un giorno, se capita, ti spiego) è obbligato a vendere i suoi libri più cari (tali per l’affetto che prova per loro, ma anche per il costo) per poter vivacchiare qualche settimana ancora, poi non si sa, anche se il tapino sta finendo un romanzo di cui lui stesso non prova alcuna stima:
“Sapete i libri costano poco.”
Infatti ci rimedia poco, solo sei penny a volume (per quanto amati, sono visibilmente di seconda mano, con varie “annotazioni a matite”).
Tra gli horcrux, c’è Harold Biffen, il più malridotto della compagnia, che “a giudicare dal suo aspetto, non apparteneva alla razza dei comuni mortali” e la cui “magrezza eccessiva lo avrebbe senz’altro qualificato come scheletro vivente”, che non si decide a togliersi il soprabito, essendo privo di giacca. Egli sta lavorando da tempo a una grande teoria: “un realismo assoluto nella sfera della rispettabilità ignobile”.
Questo stramb’uomo continua a dire:
“Zola scrive tragedie intenzionali; le sue figure più detestabili diventano eroiche per il ruolo occupato in un dramma immaginario a tinte forti. Voglio occuparmi di quello che è essenzialmente non eroico, della vita quotidiana di quella gran massa di personeche sono mercè di di condizioni finanziarie disastrose. Dickens ha capito la possibilità di una tale operazione, ma la tendenza al melodramma da una parte e l’umorismo dall’altra gli hanno impedito di pensare a questa eventualità.
Poi Biffen accenna a un fatterello vissuto mentre passava:
“[…] per Regent’s Park mezz’ora fa, un uomo e una ragazza camminavano davanti a me, l’una accanto all’altra, e amoreggiavano: li ho superati lentamente e ho scoltato buona parte della loro conversazione… il fatto che non prestassero attenzione alla vicinanza di un estraneo rientrava nella situazione. Ecco, una scena amorosa così non è stata mai scritta: era assolutamente decorosa e tuttavia volgare all’ennesima potenza. Dickens l’avrebbe resa ridicola… una grossolana ingiustizia. Altri uomini che si interessano alla vita delle classi inferiori avrebbero magari preferito idealizzarla, un’assurdità. Per quanto mi riguarda, ho l’intenzione di riprodurla verbatim, senza un singolo indizio irriguardoso che indichi una volontà diversa da quella di rappresentarla onestamente. Il risultato sarà qualcosa di indicibilmente noioso, precisamente. Questa è l’impronta della vita decorosamente ignobile. Se fosse men che noiosa sarebbe menzognera…”
Mi domando se James Joyce abbia mai letto queste fantastiche righe, che mi conducono al massimo rispetto nei tuoi confronti. L’impegno di Biffen è il mio, da anni. Sia tu che Biffen mi avete preceduto. A voi va il merito di alcune mie idee.
Ha bussato alla porta qualcuno, è Amy, la moglie di Edwin, la domestica e, insieme a loro, poco gradito, appare Jasper Milvain, che non ho ancora citato, ma che mi parve inizialmente, forse a torto, un altro horcrux: forse lo è, sì, anche lui forse ne ha un pezzetto.
Egli rappresenta quel settore della tua anima che pare voglia più adeguarsi al mondo esterno, insomma l’opposto dell’horcrux che è in Biffen. Si tratta di un giovane ambizioso che intende avere successo e null’altro, e che sta studiando da qualche anno la più svelta strategia per raggiungerlo. Colloquio fra lui e Biffen, nel discutere su un romanzo di un altro scrittore in crisi, un certo Whelpdale:
“‘… consiste soltanto di una serie di conversazioni tra due interlocutori. In realtà è un dialogo, non è affatto un romanzo. Me ne ha lette una ventina di pagine e non mi sono più meravigliato che non risucisse a venderlo’
‘Oh, ma ha un pregio considerevole’ si intromise Biffen. ‘La conversazione è notevolmente conforme alla realtà.’
‘Ma cosa c’è di buono in una conversazione che non porta a nulla?’ protestò Jasper.
‘È un pezzo di vita reale.’
‘Sì, ma non ha valore di mercato. Puoi scrivere quello che vuoi, sempre che la gente sia disposta a leggerti. Welpdale è un tipo intelligente, ma non riesce ad azzeccare una riga utile.’”
Pochi anni dopo, nel 1925, “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald, molto dialogato, stupì il mondo, e lo conquistò. La successiva conversazione fra Edwin e la moglie Amy mi mostra di che materia sia composta la tua prosa. Me ne accorgo quasi all’improvviso, perché prima non ci avevo fatto caso, essendo oltre un secolo che la finzione è basata sugli scambi di parole tra i vari personaggi. Ma quando lo pubblicasti, senz’altro non era così.
La notevole tua acutezza e profondità psicologica ti permettono di cogliere particolari apparentemente inutili, ma molto significativi; e di andare veramente dentro la psiche dei tuoi horcrux.
Per esempio, aspetta che te lo cerco, ah sì!, qui tu dici che:
“Reardon imparò quanto era facile per una madre dimenticare che entrambi i genitori partecipano alla creazione della prole.”
Da cui si evince che alcune mogli (tre?) e figli (due?) ne hai avuti. Infatti, spesso mi coglie la sensazione che, assai di frequente, quello che hai scritto derivi da alcuni momenti, tristi o melanconici, della tua vita.
C’era un’altro particolare psicologico che hai riportato, ma non ricordo dove. Se riesco vado a ricercarlo, altrimenti me lo dirrai tu quando ci rivedremo. Ora ho troppa fretta, quasi ansia, di vedere come butta la storia (soprattutto quella dell’horcrux numero 1).
Tra il Capitolo 17 e il successivo si consuma un dramma umano e familiare. Amy lascia Edwin, per il periodo estivo dice, ma intanto lo invita a vendere i mobili. L’ultimo romanzo del marito è stato rifiutato dagli editori. Lo stesso Edwin lo ritiene un’opera da poco. Si sente un fallito. Cerca un lavoro da impiegatucolo a pochi (25) scellini la settimana. La moglie lo apostrofa malamente:
“Mi vergogno tantissimo che tu debba abbassarti fino a questo punto.”
Piuttosto che vivere con un marito subordinato, non morendo di fame, ma, peggio, vivendo di stenti, lo lascia a se stesso: in attesa che scriva un romanzo di successo; e si rifugia, col figlio, da mamma e fratello, che, obtorto collo, accettano di soccorrere i due consanguinei.
“Oh, che disonore, che disonore!”, singhiozzò Mrs Yule. “Non so pensare a cosa diremo.”
Sottinteso: alla gente, quale frottola dovranno inventare per ammucciare tanta ignominia.
E rincara la dose:
“Che intenzione può mai avere chiedendoti di andare a vivere con lui per venticinque scellini alla settimana? Parola mia, se la tua mente non è turbata, deve aver progettato deliberatamente un piano per sbarazzarsi di te.”
La regina madre (della casa) è in vena di sproloquiare:
“È davvero troppo ridicolo dire che non riuscirebbe a scrivere un romanzo se lo volesse fare. Guarda l’ultimo libro di Miss Blunt: suvvia, l’avrebbe potuto scrivere chiunque. Sono sicura che non esista una parola che io stessa non avrei potuto concepire.”
La famiglia Yule è orripilata dall’insensibilità dimostrata da Edwin, il quale si sente un fallito, ed è questa una colpa che non ammette scusanti. Che abbia tanto sofferto per l’abbandono da parte della moglie, a questo dramma nessuno pensa.
Anzi, Amy afferma, parlando del marito sapendo di stare mentendo:
“È debole ed egoista., tutto qui. Accetta il primo, miserabile impiego che si presenta piuttosto che affrontare il duro lavoro di scrivere un altro romanzo.”
John rincara la dose:
“Ecco qual è il problema di Reardon. Non gli piace lavorare.”
Anche lui si definisce pigro, ma non per questo si abbassa ad accettare impiegucci che portano a casa una manciata di scellini a settimana. Poco prima aveva anche detto con sarcasmo:
“Di questo passo credo che mi sposerò e vivrò al di sopra dei miei mezzi finché mi sarà possibile e poi restituirò mia moglie ai suoi parenti, con i miei complimenti. È la faccenda più impudente che mi sia capitato di vedere.”
Poco prima ancora aveva invitato la mamma ad andare a trovare il genero, per:
“[…] fargli capire che si sta comportando in un modo dannatamente inappropriato a un gentiluomo.”
Anzi, quasi quasi, ci andrà lui, se il cognato non è andato ad abitare in una zona in cui:
“si ha paura di beccarsi una febbre.”
La mogliettina a sera si ritira a dormire.
“Si svestì senza fretta e stirò le membra nel fresco, morbido, fragrante letto. Le sfuggì un sospiro di intenso sollievo. Com’era bello essere sola!
E nel giro di un quarto d’ora dormiva pacificamente come il bimbo che divideva la stanza con lei.”
Al mattino, a colazione, mostra un viso luminoso, quasi felice.
“Era passato assai tempo da quando aveva goduto una notte di riposo come quella, non turbata da pensieri sgraditi sul limitare tra il sonno e la veglia. Forse la sua vita era naufragata, ma il pensiero non la opprimeva; al momento godeva della propria libertà. Era come ritrovare l’adolescenza.”
Descrivi la scena con il solito acume, attento ai particolari e alle singole parole dette da ciascun personaggio. Mi domando se hai forse vissuto qualcosa del genere. Io no, ma sappi che a diciott’anni dissi a mia madre che non avrei lavorato un’ora in tutta la mia vita, quale è stato il sogno iniziale di Edwin. Ma, al pari di lui, mi sono adeguato. Non si vive in una società dove l’artista può campare sulle spalle degli altri, come nelle popolazioni australoidi, dove chi nasce con la camicia è esentato da ogni ruolo che non sia quello di pittore rupestre.
Da noi, vecchio mio, non basta essere letterati, poeti, pittore o quant’altro. Occorre commercializzare i propri prodotti, altrimenti o si muore di fame, oppure si ruba. In ultima analisi, per evitare entrambe le sorti, ho scelto di faticare, ma poco, per quattro decenni o giù, anzi, su di lì.
Tutti i personaggi sono horcrux dell’autore, anche chi è detestabile, come l’anziano scrittore semi-fallito, Alfred Yule, che ha trascorso la vita in cerca di quel successo letterario che sembra destinato a non giungere mai. Mai!
Egli pubblica ogni tanto articoli che paiono interessanti, ma che lasciano il tempo che trovano. Si tratta di un personaggio freddo, arido, monomaniaco, eppure… sono certo che tu gli conferisca un pezzo della tua sensibilità e dei tuoi sogni. La sua disgraziata vicenda, ne sono certo, ti ha emozionato. In tal modo hai ripreso l’horcrux che ha permesso la sua creazione.
Lo so, caro il mio albionico, che ogni personaggio racchiuda dentro di sé un pezzetto della tua anima. Questo accade perché sei sempre stato un uomo sensibile, incapace di scrivere qualcosa che non ti uscisse dal cuore. Le tue vicende, che non mi va per ora di narrare, lo testimoniano. Anche i tuoi matrimoni, per cui giudico che il Capitolo 22, in cui quell’ambizioso profittatore di Milvain discute con Whelpdale, il ridicolo ricercatore di donne, su cosa significhi innamorarsi sia uno dei più profondi e sentiti del romanzo, almeno fino a quel punto.
Jasper Milvain: lo tratti sempre con un tratto del pennello che mette in evidenza una sua grazia accativante. Il capitolo 24 s’intitola “La magnanimità di Jasper”, forse solo per una sua frase, come si dice, anodina:
“Oh, Miss Rupert può andare al diavolo, per quello che me ne importa. Mi sento di umore magnanimo.”
Poco dopo Milvain allontana di casa le sorelle, perché vuole incontrare Marian Yule, figlia di Alfred, che è segretamente innamorata di lui, mentre lui non lo è: ma non si sa mai, casomai potesse far gioco, la sposerebbe anche. Una sua affermazione è molto rappresentativa:
“Mi piacerebbe aver scrupoli, ma è un lusso che non mi posso permettere.”
E poi:
“L’amore è una faccenda antica e banale e io credo di amarla in un modo antico e banale. Credo che lei sia bella, mi sembra femminile nel senso migliore del termine, piena di fascino e di dolcezza. Al confronto, so di essere una creatura molto rozza.”
E poi, a somma di variopinte, calme e al contempo acrobatiche confessioni, Jasper Miilvain getta l’amo: dichiara il suo amore. E lei?
“Avvertì un cambiamento nelle maniche trattenevano le sue: un calore, un’umida dolcezza. Le provocò una scossa che le riecheggiò in tutte le vene.”
Stava abboccando.
“‘Mi ama, Marian?’
‘L’amo.’”
Interessante, George, il dialogo che intercorre, nel Capitolo 27 fra Edwin e Biffen, l’horcrux più simpatico. Discutono di tutto (anche, a mo’ di concia, dei “Frammenti” di Euripide, quest’altrettanto triste tragico che in fondo (lo sento) ti sta ispirando. Temo infatti che ogni cosa, gira che ti rigira, finera per esplodere in una vittoriana catastrofe.
Edwin vuole convincere l’amico, ma soprattutto se stesso, che non ci tiene troppo a riconquistare la moglie e a convivere con lei. Narra di una sua esperienza quasi mistica, vissuta ad Atene, quando poté ammirare (Alfred! c’eri anche tu, caro?) un arcobaleno, “un perfetto semicerchio che si stendeva dalla base del Parnaso a quella dell’Imetto, incorniciando Atene e le sue colline, e che diventava sempre più luminoso… di quella luminosità per cui non esiste un nome tra i colori.”.
Biffen lo blocca: “‘… ti afferro per la gola. Ti ho avvertito prima che non sopporto questi ricordi.’
‘Vivi e spera. Metti insieme venti sterline e vacci, a costo di morire di fame dopo.’
‘Non avrò mai neppure venti scellini.”
Edwin giunge a una conclusione, che quella è una soddisfazione “… infinitamente preferibile all’emozione sessuale. C’è da stare sicuri che non lascia amarezze di alcun genere.”, che “mi sembra al di là dell’ambito umano, immerso in una luce più divina.”
Quindi non c’è donna che valga quel tramonto! Detto da te, amico mio, che hai sposata un’etera, che indulgeva sacralmente nell’alcool, e poi una violenta schizofrenica, e che in seguito ti matrimoniasti con la tua traduttrice in francese, apparentemente sana di mente, beh… è tutto dire!
Da quel che posso intuire, in attesa d’incontrarti, tu hai sempre ben voluto alle tue consorti e ti sei curato di loro anche dopo averle abbandonate. Quindi, che ne dici di quest’affermazione: l’emozione sessuale è una balla cosmica, ma quando attacca non c’è forza più resiliente (tanto per usare un termine che va di moda oggi), dopo cosa resta: l’amore, l’amicizia?
Non sono anch’esse forme di passioni (vedi kam’a etc etc). Anche il kāma sutrā lo è…!
Il capitolo 28 lo dedichi ancora al più icastico e ottimista degli horcrux, il perennemente giovane e brillante Mr Jasper Milvain: il succo del suo discorso è che, coi soldi di Marian, che farà tutto quello che lui desidera, anzi, che lei: “approva ogni cosa io ritenga opportuna”, cioè si metterà in vista socialmente, offrendo “cene simpatiche e tranquille alle quali inviterò persone scelte.” E se qualcuno dubita che “sei o settecento sterline all’anno saranno sufficienti”, allora: “in caso contrario, sono pronto a spenderne mille.”
Soldi, non serve rammentarlo, ereditati dalla promessa Marian, che ancora non ha impalmato.
Egli professa una gran verità, unitamente a tante minori, come:
“Bisogna diventare famosi prima di riuscire ad assicurarsi l’attenzione che verrà con la fama.”
“Pronunciò questo apoftegma con grande enfasi e lo ripeté formulandolo diversamente. ‘Bisogna acquisire la fama in modo che quanto giustificherebbe la fama ottenga sufficiente attenzione. È la vecchia storia dell’editore francese che disse a Dumas: ‘Si faccia un nome e pubblicherò qualsiasi cosa scriverà’…’’”
Si tratta di un dramma, che definirei tipico dell’artista nato con la camicia in una società che va in giro nuda dal punto di vista etico, come il famoso re, e che diventa un incidente mortale per alcuni, ad esempio il mio amato Guido Morselli, i cui scritti furono rifiutati da fior d’intellettuali (Pannunzio, Calogero, Sereni, Pampaloni, Calvino, Luciano Foà, che fu responsabile di aver perso per sempre una sua opera, “Fede e ricerca”, Fruttero e chissà quanti altri).
Solo dopo la sua morte, tardivamente pentito, Foà gli fece pubblicare l’opera omnia.
La mia non vuole essere una polemica contro l’editoria, semmai verso l’evo moderno in senso lato. Si tratta di una realtà che colpisce anche gli autori serenamente deceduti migliaia di anni fa. Risulta infinitamente più facile pubblicare a un personaggio televisivo di serie D, che a un grande autore del passato o di poche decine d’anni fa.
La novità fa gola al pubblico, se accortamente pubblicizzata. Lo stesso motivo causa la crisi di vendite nei negozi che ospitano libri usati di sommi autori, e a quelle indipendenti, rispetto a quei titanici magazzini di proprietà delle maggiori case editrici.
Ma non si tratta della peggior ingiustizia che caratterizza l’immonda società, per cui tiremm’innanz!
Jasper Milvain si scoccia quando scopre che Maud, una delle due sorelline, ha speso non meno di venti ghinee per una giacca nuova, e si ripromette di farglielo notare, sia pure di sfuggita.
Ma intanto chiede a Dora, l’altra sorella:
“C’è un motivo particolare, una ragione speciale per questa spesa?’
‘Veramente non saprei, Jasper.’
‘Sai, è una faccenda ambigua. Forse significa che non vuoi dirlo?’”
La sorella tirata in causa, Maud, le fa leggere un articoletto destinato a un giornaletto femminile:
“‘Forse dentro c’è troppa filosofia. Supponiamo che tu elimini una o due delle riflessioni meno ovvie per sostituirle con qualche banalità all’ingrosso. Ti assicuro che avrai opportunità migliori.’
‘Ma gli toglierò ogni valore.’
‘No, farai in modo che valga all’incirca una ghinea. Devi ricordare che la gente che legge i giornali femminili si irrita, si irrita per qualsiasi cosa che sia manifestamente ovvia. Odiano i pensieri insoliti…’”
Poi la riprende, come potrebbe fare un padre, per un’eccessiva attenzione che presta a un corteggiatore ricco, forse poco affidabile.
Tu, George, ben hai descritto quanto quest’adorabile (nonché miserabile) giovanotto ha sperperato i denari della propria (ora deceduta) madre, per apparire in società, frequentando club esclusivi e vestendo abiti alla moda.
Malvain ha però il dono della sintesi e di un’impertinente sincerità:
“Suvvia, care ragazze, non sono il tipo che può permettersi di aspettare. Prima di tutto, le mie qualità non sono quelle che sollecitano il riconoscimento dei posteri. Io scrivo per la contemporaneità, assolutamente. Quello che io scrivo non ha alcun valore, se non in riferimento alla quotidianità. Il problema è: come fare perché lo sguardo degli uomini si fissi su di me? La risposta è: fingendo di non dipendere assolutamente dal loro sguardo…”
E poi, con una punta d’ironia, prende letteralmente per i fondelli i letterati che muoiono di fame:
“’Reputo sempre piuttosto umiliante’, disse Jasper, ‘non avere attraversato difficoltà troppo serie. Deve essere molto gratificante poter dire ai giovani che stanno appena cominciando. ‘Ah, ricordo quando sono stato a un passo dal morire di fame’, e uscirsene con i ricordi di Grub Street del genere più orrrorifico.’”
Sopravviene a trovare i tre orfani il faceto Whelpdale, il quale, su richiesta esplicita di Malvain, per rallegrare l’uditorio, racconta alcuni gustosi episodi di quando soffrì la fame a Chicago, dove vivacchiava alla meno peggio, nutrendosi di peanuts, scrivendo racconti brevi per i quotidiani (come facesti tu a diciannove anni, ricordi?).
“‘Che cosa sono le noccioline, Mr Whelpdale?’, chiese Dora.
Felicissimo della domanda, Whelpdale descrisse quel cibo poco appetitoso.”
Le cose precipitano, muoiono due esseri umani, mentre un altro diventa cieco, uno invece rischia di perire tra le fiamme insieme al suo manoscritto, ma salva sia sé che il suo piccolo tesoro, che viene letto, ammirato a metà e… chissà!
Dimostri una grande capacità di penetrazione psicologica quando descrivi il rapporto conflittuale fra l’anziano e semi-fallito scrittore Mr Yule e sua figlia Marian, quieta e amorosa, ma, se provocata, dentuta e artigliosa figlia.
Una frase dipinge bene lo scontro fra le due anime gementi:
“I loro sguardi si incontrarono e l’espressione di ognuno sembrò affascinare l’altro.”
Sono tipi diversi, opposti, ma in qualche modo omogenei: il primo è giunto alla mesta fine del suo percorso umano, costellato di scarne gioie, che tali non sono affatto e di amare delusioni.
La seconda ha una vita davanti a sé, che si prospetta ricca di incognite, anche a causa del suo rapporto col fidanzato, il cinico e splendente Mr Jasper Milvain, che non l’ama, ma l’ammira, specie perché è portatrice di soldi, utili per la sua carriera. Lei si accorge di questa differenza di sentimento fra i due fidanzati, e ne soffre. Il seguente scambio di battute rende l’idea:
“‘… Ritengo che sia irragionevole che un uomo tenga vincolata una donna in questo modo quando non ci sono speranze.’
‘Che significa, vincolata? L’amore dipende forse dagli impegni presi? Pensi che, se decidessimo di separarci, il tuo amore diventerebbe immediatamente una cosa del passato?’
‘Suvvia no, certo che no.’
‘Oh ma con quanta freddezza parli, Jasper!’”
Da notarsi la mancanza di punti esclamativi/interrogativi nelle battute di Jasper.
Il tuo libro, George, è stata una vera scoperta, un secolo dopo del suo parto.
Oggi sarebbe un capolavoro come tanti, allora fu un capolavoro innovativo, non so quanto compreso.
Sei stato capace di tessere un plot molto coinvolgente, sapendo unire finezza psicologica a una sapiente regia e caratterizzazione dei personaggi.
Un minimo esempio di acume psicologico:
“Marian sollevò gli occhi e fece per parlare guardandolo; ma con la prima parola abbassò lo sguardo:
‘Vorrei diventare tua moglie.’
Jasper attese, riflettendo e lottando con se stesso”
Il tuo libro è anche una metafora, amico mio: il darwinismo letterario esiste, come quello biologico, come quello sociale.
Alcune bestie letterarie devono morire o vivere fra gli stessi, con la speranza di essere valutati, prima o poi, come sentono di meritare.
Ad altre interessa l’hic et nunc. Ma anche fra loro solo taluni la spuntano.
È un mondo terribile, quello in cui vivevano tutti, comprese le vittime: Edwin, tu, Harold, Alfred.
Il tuo libro finisce bene, caro.
Le anime in pena finiscono di penare.
Una di loro, quella per cui ho provato più pietà (in senso etimologico: amore per quell’anima pura, a cui mi sento d’assomigliare) ha fatto la fine più gloriosa, la stessa di Guido e, immagino, del protagonista di quel romanzo ultimo, ove l’umanità s’era per sempre, finalmente?, dissipata.
Entrambe le sorelle di Mr Jasper Milvan si sposano abbastanza bene (una meglio che l’altra).
Anche lui, Mr Jasper Milvain si sposa: con la terza ereditiera a cui ha dato la caccia.
Compie un doppio e salvifico atto: finanziare le sue ambizioni di fama e recare una rinnovata speranza a una donna che pareva annichilita dai dolori che furono causati da due immense tragedie familiari e che, grazie al suo candido egotismo, rifiorisce, più bella e fascinosa che pria.
E vissero tutti felici e contenti.
Non proprio tutti, ma fa lo stesso.
The end
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
George Grissing, New Grub Street, Fazi Editore, 2020