Meditazioni Metafisiche #11: il problema della verità è il problema dell’uomo

Alcinoo, filosofo medioplatonico greco del II secolo d. C., scrive (Didascalico, IV): “La ragione è di due tipi: una è totalmente inafferrabile (alēptos) e verace (atrekēs), l’altra è veritiera in rapporto alla conoscenza della realtà. La prima è possibile a dio e impossibile all’uomo, mentre la seconda è possibile anche all’uomo”.

Le ninfe ritrovano la testa di Orfeo - Painting by William Waterhouse - 1900
Le ninfe ritrovano la testa di Orfeo – Painting by William Waterhouse – 1900

Il problema della verità è il problema dell’uomo. L’uomo non sa con certezza assoluta (la prima di cui parla Alcinoo) chi è, da dove viene e dove va, ma lo può ipotizzare con certezza morale dal confronto con la propria esperienza. Dato che la esperienza è per definizione relativa a tante variabili, di conseguenza l’uomo possiede solo una verità relativa.

La verità assoluta è appannaggio solo degli dei, l’uomo ha solo verità relative. È la verità assoluta che regge il mondo. Nel concetto sanscrito di dharma sono racchiusi entrambi i concetti: verità e ordine di tutto. Il metro che tutto misura e regola lo fa in quanto è connesso alla verità assoluta, altrimenti fallirebbe: la verità assoluta è appannaggio degli dei. Per questo Orfeo dice che l’inesorabile e veneranda Giustizia (Dike) è seduta presso il trono di Zeus, per scrutare dall’alto tutte le cose degli uomini, panta pa tōn antrōpōn (Orfeo, fr. 14 DK). Nell’antico Egitto vi è una figura analoga: Maat, che in egiziano antico significa “verità”, “ordine”, “giustizia”. È rappresentata dal geroglifico del cubito (unità di misura) e la parola egiziana etimologicamente significa “governare” (una nave).

La necessità della legge divina è presente in ogni dove: tutto è Essere necessario, altrimenti il mondo crollerebbe. Nell’antica Grecia Ananche, Necessità, è una dea. Etimologicamente il sostantivo greco rimanda all’idea della coercizione per via del collegamento ai bisogni corporali. Non vi è nella grecità il concetto di volontà come lo intendiamo noi oggi. Un po’ come per il sostantivo ebraico della filosofia medioevale hekreaḥ, “necessità” (filosofica), analogo al termine arabo corrispondente ḍarūra, che deriva da un verbo arabo che alla IV forma significa “forzare”. Ma il libero arbitrio degli esseri superiori (uomini, angeli, dei, Dio) permette il distacco dalle leggi fisiche della materia, sebbene la legge della verità divina si realizzi in un altro modo, nel quale il possibile è identico al necessario.

È l’Argomento Vittorioso di Diodoro Crono:Da ciò che è possibile non può seguire qualcosa di impossibile. Ora è impossibile che ciò che è passato sia altro da ciò che è stato. Ma se, in un momento anteriore, fosse stato possibile qualcosa di diverso da ciò che è stato, dal possibile sarebbe venuto fuori l’impossibile; dunque ciò che è diverso da ciò che è stato non era possibile ad alcun momento. Ed è per conseguenza impossibile che possa accadere qualcosa che non accade realmente”.

Quindi possiamo dire che tutto è verità.

Nella Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad (V, 5) si afferma che la verità (satyam) ha tre sillabe: la prima (sa) indica la verità; la seconda (ti) indica il non vero; la terza (yam) indica la verità. Quindi il non vero è racchiuso dalla verità, che allora ha la prevalenza. Ma l’uomo, essendo ottenebrato dalla materia, ha preclusa la verità assoluta e può solo andare a tastoni.

Proclo (Lettera all’inventore Teodoro I, 4): “Dal momento che anche il sapere rivela una propria duplicità, sarà chiaro come Platone e Socrate dicono che l’anima pur esistendo nel mondo terreno può conoscere la verità, una volta liberatasi dall’oscurità della materia e dalle passioni prodotte in lei dal corpo con il suo contatto. A maggior ragione la conoscenza risulta più perfetta una volta che si produca nel distacco dal corpo, dal divenire e dall’amara materia”, extra corpora et extra generationem et materiam amaram.  Ma sempre nei limiti dell’intelletto umano.

Proclo Licio Diadoco
Proclo Licio Diadoco

Giacché nessun uomo ha la verità assoluta, il relativismo è nel metodo il criterio più importante per dipanare in qualche modo il velo che ci separa dal vero, sebbene mai in maniera totale: più tentativi si fanno e più visioni del mondo si accavallano, più il velo tende a venire meno.

La psicologia fenomenologica parla di “realismo ingenuo”: le persone tendono a confondere i propri stati soggettivi per la realtà oggettiva. Vale a dire che tutti noi viviamo nelle nostre fantasie, che spesso anteponiamo a ciò che in qualche modo si può intendere come oggettività, se dopo il crollo del positivismo operato dal pensiero moderno ha ancora senso parlare in questi termini. La Programmazione Neuro-Linguistica afferma che “la mappa non è il territorio”. Le nostre strategie (coscienti) e i nostri meta-programmi (inconsci) sono visioni del reale che variano, nei particolari, da persona a persona. Ognuno di noi seleziona gli input sensoriali in maniera soggettiva e si costruisce una mappa originale, della quale gli altri non sanno nulla. Per questo gli esperti consigliano innanzitutto di non giudicare mai le altre persone, e poi di avere l’umiltà e la saggezza di cercare di capire la mappa altrui prima di ogni rapporto significativo.

Ricordiamo che la parola latina dubium deriva da “due” più una radice indoeuropea che significa “essere” (si ritrova per esempio nell’inglese to be). Allora il dubbio, stando all’etimologia, è la possibilità di una alternativa tra più opzioni, tutte equipollenti o quasi.

Per questo alcuni esseri umani, preda nella foresta del dubbio, hanno sentito profondamente la rivelazione divina come verità assoluta. C’è chi ha sacrificato tutta la vita alle parole del dio, spesso fino al martirio. Secondo una interpretazione, ogni rivelazione religiosa ed esoterica esprime la stessa verità assoluta, calata nella povertà della comprensibilità dell’uomo. Sarebbe insomma, in qualche modo, quella Filosofia Perenne di cui parlano i saggi, che si ritrova nei grandi messaggi dati dalle divinità agli umani.

Giovanni nel suo vangelo (8, 32) afferma senza mezzi termini: “Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”, gnōsesthe tēn alētheian, kai ē alētheia eleuterōsei umas. Nel Medioevo cristiano si dice che Cristo è il Verbum brevissimum: è una parola in sé breve ma dice tutto, è la parola perfetta, ultima, il sigillo di ogni altra verità.

Certamente non tutti possono o vogliono aprire il proprio spirito a tanta saggezza, che fa delle religioni e degli altri movimenti spirituali, lampada per i miei passi (Salmo 119, 105: nēr leraglī debārekā). Il Corano (6, 5) tradisce lo sconforto per questo atteggiamento tipicamente, anche se non esclusivamente, umano: gli uomini “chiamano menzogna la verità che giunge loro”, che nell’originale arabo è più icastico perché suona kadhabū bil-ḥaqi lammā jāahum.

Samuele 22, 1: “Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore”. Questa traduzione della CEI sembra sottintendere che sia una invocazione, ma, stando all’originale ebraico (in ebraico non c’è il verbo essere al presente, quindi la frase nominale può fungere anche da proposizione con verbo essere), si può tradurre anche: “Il Signore è mia roccia, la mia fortezza, il mio liberatore”. Nella Bibbia il simbolismo della pietra è vario: dona sicurezza dai nemici ma è anche il segno della fedeltà, della fiducia e della fede nei confronti della verità comunicata da Dio. Infatti, il verbo ebraico per “credere” (emin) significa etimologicamente “affidarsi a”, “appoggiarsi a”. La pietra evoca inconsciamente l’idea della durata e della importanza. Per questo le pietre sono nell’antichità spesso luoghi della teofania. Per estensione, nella Bibbia le cose importanti sono ricordate a volte mettendo una pietra al suolo (ancora oggi sulle tombe degli ebrei vengono posizionate delle pietre). La radice semitica RGM, “lanciare pietre”, è in accadico “chiamare” (ragāmu) e in ugaritico rgm(t), “messaggio”: forse la radice significa all’inizio qualcosa come “inviare”, quindi inviare la voce, i messaggi, in arabo è lanciare una maledizione, così come in etiopico. Quindi perché non pensare che nel contesto della pietra Dio invii i suoi messaggi?

Nella Bibbia l’acqua è a volte un simbolo negativo (“le grandi acque” alludono al Nulla e al male), a volte un simbolo positivo, come i quattro fiumi che sgorgano dal Tempio di Gerusalemme e irrigano tutta la terra. C’è poi un’acqua da usare, amica dell’uomo, da navigare, da bere, e un’acqua divina che rientra nel dominio dei miti cosmogonici. Nell’alfabeto ebraico la lettera Mem indica il primo tipo di acqua, invece la lettera seguente Nun indica il secondo tipo. Gli studiosi hanno ricostruito che nelle civiltà indoeuropee gli elementi della terra siano ai primordi considerati duplici: normali e divini. Pensiamo anche al fuoco: il latino ignis conserva la radice sacrale (il dio vedico Agni), invece il greco pur, puros conserva la radice quotidiana. C’è chi ha ipotizzato che questa idea attestata nelle lingue indoeuropee sia passata nelle civiltà semitiche, come quella ebraica. Questi scambi culturali tra civiltà vicine non sono rari: pensiamo altresì alla radice ebraica GRL, “parte” e quindi “destino”, che è analoga al concetto greco di moira.

Carl Gustav Jung
Carl Gustav Jung

Nelle società teocratiche l’insegnamento più importante è riservato alla verità di Dio. Per questo nel passato gli allievi sono educati alla disciplina sin da piccoli. Per estensione ogni maestro antico è severo verso i fanciulli, anche se insegna altre cose. È significativo che una delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico, la Lamed, deriva dalla stilizzazione di un pungolo, mentre il significato del nome riguarda l’insegnamento (Lamed contiene la radice LMD, “insegnare”, la stessa che si ritrova nella parola Talmud): chi riceve l’insegnamento viene spronato con un pungolo per imparare bene!

Il pensiero umano è particolare. Deve essere indirizzato con l’allenamento alla ricerca delle cause della realtà. Anche se si è persone intelligenti, non è detto che sappiamo usare l’intelligenza, cosa che si sviluppa con l’esercizio continuo, sin da bambini. Da qui le varie persone possono pensare anche cose diversissime tra di loro, pure con gradi differenti di correttezza e aderenza al vero.

Dall’altra parte, le persone hanno spesso pensieri e immagini comuni, fenomeno che Jung spiega ricorrendo alla teoria degli archetipi dell’inconscio collettivo. Gli archetipi sono nuclei energetici inconsci che ci spingono a fare esperienza e a pensare in un certo modo. L’immagine della croce che si ritrova in quasi tutte le culture dell’umanità deve rispondere a un archetipo inconscio sedimentato nella mente collettiva di tutte le persone. Pensiamo anche a come immaginiamo di solito la strega: una vecchia, grassa e brutta. Già nella letteratura magica ittita (II millennio a. C.) il sumerogramma SU.GI, letteralmente “la vecchia”, ha il ruolo di “operatrice rituale”, “maga”, “strega”.

Lo stoico Crisippo (Logica, fr. B.1-132 von Arnim) pone una differenza tra verità (alētheia) e vero (alethēs) “per tre aspetti: per la sostanza, per la struttura e per le conseguenze pratiche. Per la sostanza in quanto la verità è un corpo, mentre il vero un incorporeo. E dicono bene, dato che quest’ultimo è un enunciato, e l’enunciato è un esprimibile, cioè un incorporeo. D’altra parte la verità è un corpo in quanto pare essere la scienza che esprime tutte le verità, e ogni scienza è una certa disposizione dell’egemonico, esattamente come il pugno è una certa disposizione della mano. Ora, siccome per gli stoici, l’egemonico è un corpo, anche la verità, quanto al genere, è un corpo. Per la struttura, giacché il vero è per natura concepito come una realtà semplice e unitaria, mentre la verità, in quanto costituita in forma di scienza va concepita come un sistematico agglomerato di più elementi. Per le conseguenze pratiche si danno differenti casi, dal momento che il vero non si attiene in senso proprio alla scienza (e infatti anche lo stolto, il fanciullo e il folle possono dire qualcosa di vero, ma non hanno una scienza del vero), mentre la verità è vista in rapporto alla scienza. Dunque, chi l’ha è sapiente (possiede infatti la scienza di tutti i veri)… ”.

C’è la tipica distinzione greca tra il sapiente e lo stolto. Non tutti gli uomini sono uguali: il sapiente possiede la scienza della verità, lo stolto ha solo qualche frammento di vero. Non tutti dicono la verità, ma nemmeno tutti dicono il falso. Forse c’è un rapporto con la riflessione che fa Aristotele (Metafisica II. 1), per il quale la ricerca della verità è difficile e facile: nessuno è in grado di coglierla adeguatamente ma non tutti mancano di coglierla, mēt’axiōs mēdena dunasthai tuchein autēs mēte pantas apotugchanein.

Meditazioni Metafisiche 11
Meditazioni Metafisiche 11

Una famosa massima della Scolastica medioevale sentenzia che Ens et Bonum et Verum et Iustum et Pulchrum convertuntur: Essere, Bene, Vero, Giusto e Bello sono la stessa cosa!

Massimo di Tiro, esponente del medioplatonismo, così scrive (Dissertazione 29, 5): “E il desiderio del Bene è comune a tutti, eppure un uomo non ottiene l’oggetto della propria ricerca più di un altro, ma, come quelli che vanno alla ricerca dell’oro e dell’argento nel buio, poiché sono privi della luce che permette loro di saggiare ciò che cercano, facendosene una doppia immagine dal peso e dal tatto, imbattendosi uno nell’altro e mordendosi, non osano né abbandonarlo, per paura che sia ciò che cercano, né desistere dall’affaticarsi, per paura di non ottenerlo; lì allora vi sono tumulto, contese e d esortazioni… e tutti urlano ed esultano, come se avessero davvero trovato il Bene, mentre nessuno lo possiede, ma mediante tale finzione ciascuno scruta le scoperte del vicino”.

 

Written by Marco Calzoli

 

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Rubrica Meditazioni Metafisiche

 

5 pensieri su “Meditazioni Metafisiche #11: il problema della verità è il problema dell’uomo

  1. molto interessante…
    Solo un commentino: il dubbio nasce e si risolve con l’aiuto dei miei due filosofi preferiti: Socrate, che sa non di sapere (io vado oltre: non so se so) e Kierkegarrd, che ammonisce: AUT-AUT!
    Bravissimo, in ogni caso

  2. Alla luce della relatività generale, ognuno è portatore di una verità sua individuale e appunto relativistica. Di fatto è assoluta la sua relatività. Unico dato assoluto e, pare, certo è la velocità della luce nel vuoto: 299.997 km/sec.
    Secondo la meccanica quantistica esiste soltanto la possibilità di calcolo della probabilità. Tutto è possibile e nulla è certo. Ogni misurazione di in fenomeno è un evento che coinvolge osservatore e cosa osservata in una mutualità che ne varia i valori. Bohr dice che l’osservazione crea la particella osservata.
    Socrate dice che sa di non sapere. Io potrei anche dire di non sapere nemmeno se so. Se dio esistesse e io possedessi un’anima, forse una parte di me ‘or’ e sempre’ sa se dio esiste. Ma io non so se dio esiste e se esiste la mia anima che eventualmente sa.
    Tutte queste perplessità, a mio parere, rendono un discorso sulla verità sempre basato su una presunzione di sapere. Ogni discorso a riguardo dovrebbe essere sempre preceduti da un ‘non’.
    Scusa, caro, se sono probabilmente andato fuori tema, ma è stata una reazione al tuo articolo.

    1. La verità è mutevole. Ognuno ha la sua. Io ne ho una e tu ne hai un’altra. Il mondo è bello perché è vario

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