“Il crepuscolo del funzionalismo” di Paolo De Nardis: è la sociologia una scienza sperimentale?
Nel primo capitolo de “Il crepuscolo del funzionalismo” (intitolato non a caso “Sociologia e ‘sociologie’”) Paolo De Nardis esprime le perplessità e i fraintendimenti di chi si riferisce dall’esterno alla sociologia. Mi pare di capire che l’autore voglia fondare un paradigma che sia poliparadigmatico, “almeno secondo l’accezione kuhniana del concetto”. Lo scopriremo leggendo cosa vuol dire tutto ciò?
Sintetizzo le prime idee dell’autore. Occorre decidere se sia possibile la società. Se la risposta fosse negativa, cesserebbe la cogenza e della necessità del suo studio.
Mia reazione: la società è stata possibile fino a oggi, ed essendo variegata e continuamente in fieri, la domanda posta mi pare oziosa. Oppure provocatoria. Infatti l’autore immediatamente si risponde da solo: sì, è possibile.
A questo punto, il nuovo quesito che mi pongo è perché fosse necessaria la prima domanda.
Mi rispondo: ogni scienza esatta richiede almeno un postulato. Le scienze naturali, in tal modo, se lo ritrovano già. Che cova sotto le ceneri.
Seconda domanda: “Com’è possibile la società?”. O meglio: Com’è possibile una varietà tanto elevata di società, le cui variazioni in itinere conducano, con diversa velocità, in luoghi sempre più divergenti? Ha senso parlare di organizzazione sociale, che contempli tutte le correlazioni fra persona e persona, persone e gruppi, e persone e mondo esterno, volte al fine della “produzione e riproduzione materiale, ma anche simbolica, della loro esistenza”?
Quindi: “individuo, azione, organizzazione sociale”. I tre elementi, i tre gradi di libertà, direbbero in fisica, le tre dimensioni, a cui io aggiungerei la quarta, già indicata da Albert (Einstein): il tempo, quel tipo strano (che forse non esiste ma) che di certo produce entropia, disordine, decadimento e… riformulazione della materia. Questa è la prima analogia che colgo col mondo delle micro-particelle atomiche e dei macro-corpi relativistici.
La terza domanda: sono le grandi strutture sociali a determinare i comportamenti individuali, o sono questi ultimi alla base di tutto, inseriti nella rete sociale che si costituisce attraverso azioni e inter-azioni?
Secondo Albert (Einstein) lo spazio-tempo è un reticolato che (forse) non esiste, che viene deformato da ciò che (forse) esiste (con la sua gravità). I forse li hanno messi dopo, Julian (Barbour) e Carlo (Rovelli).
Il problema è che la gravità occorre per spiegare il mondo, ma non si ha la prova che esista, in quanto non è stato mai rinvenuto, ma solo ipotizzato, il gravitone, il suo (segreto) agente. Chissà se, studiando una scienza umana (anzi, umanistica), potremo aiutare, anche solo come ipotesi intellettuale, la scienza fisica.
La sociologia, come tutti i metazoi (a parte certi molluschi), ha un doppio genitore (chissà quanto sono virtuosi?): il positivismo comtiano e lo storicismo. Inoltre, deve districarsi dall’ultima (al momento) dicotomia: idio-logia (partire dall’individuo ἴδιος), oppure nomologia (partire dalla legge, νόμος).
Io partirei, ma sono un caso clinico, dall’Idiota dostoevskiano, o dallo Joseph kafkiano. È come se Herbert (Marcuse) ti proponesse di scegliere, fra Eros e Civiltà, avresti dei dubbi, specie d’estate, quando sei in vacanza? Ma ogni scelta si paga e spesso muta nel tempo. Si differenzia, infine, non fra teoria vera e falsa, ma fra quella inutile e utile (nella sperimentazione sociologica), quando le “proposizioni che compongono la teoria possono essere operazionalizzate”, cioè “sottoposte alla regola dell’indagine scientifica”, che contempli i crismi di “controllabilità, ripetibilità e pubblicizzabilità”. Chissà che ne direbbe Karl (Popper)?!?
Lo scopo non è tanto descrivere, quanto spiegare. Pertanto la sociologia si è adeguata (molto a modo suo) all’ottica popperiana: è diventata una somma di teorie non religiose, ma (ehm ehm… quasi…) scientifiche.
Nel secondo capitolo, si prosegue la disamina di come dev’essere inquadrata la ricerca sociologica. Quel dev’essere m’inquieta leggermente. Secondo Émile (Durkheim), operante alla fine del XIX secolo, fare sociologia è fissare in primo luogo l’oggetto e conseguentemente strutturarne in maniera rigorosa il metodo. I fatti sociali, da una parte sono distinguibili da quelli organici, in quanto forniti da azioni e rappresentazioni umane; dall’altra da quelli psichici, in quanto non solo individuali. Le due caratteristiche sono principalmente l’esteriorità e la coercitività, pur non negando una minor parte di libertà e di coscienza individuale. Fatti sociali par excellence sono quelli giuridici, morali, religiosi, organizzativi, economici. Insomma tutto quello che trattiene l’uomo con catene più o meno arrugginite (o zincate di fresco), con pericolo tetano.
“Quindi fondamentale per Émile (Durkheim) è l’elemento istituzionale e l’analisi sociale delle istituzioni.”
Le sue tre regole sono:
1 – i fatti sociali sono cose, oggetti esterni al soggetto cosciente, da esaminare senza prenozioni;
2 – devono essere rappresentabili e confrontabili scientifiche con altre rappresentazioni, “consentendo la ripetibilità dell’indagine da parte di altri analisti”;
3 – deve essere confrontato nel fenomeno anche se apparentemente isolato e individualistico.
Si tratta di regole un po’ troppo ferree e fondate sulla dicotomia individuo-società, stando dalla parte della seconda. “Essendo l’indagine scientifica un’intrapresa tutta ‘umana’, anche l’analista sociale è, nelle sue operazioni, nella sua scelta, nei suoi interessi, in qualche modo ‘assiologicamente’ relazionato al fatto umano che sta indagando”.
Qui scatta la seconda analogia con la fisica: il principio d’indeterminazione della meccanica quantistica di Werner Karl, detto Wernie (Heisenberg): ogni osservazione muta la cosa osservata. Questo mi permette di asserire che, qualsiasi cosa sia, anche la sociologia non può essere che sempre un po’ locale e imprecisa. La teoria di Albert (Einstein), invece, prevede una fenomenale prenozione: l’insuperabilità della velocità della luce nel vuoto. La sociologia non ne consente, al momento della mia lettura, mezza. Secondo Albert (Einstein), il relativista, ogni ente ha la sua visione del mondo (che finisce per diventare più assoluta in tal senso, che relativistica). Secondo Niels (Bohr), il quantistico, ogni visione è in fieri e diventa fenomeno visionato. Il che ricorda l’immagine buddistica dell’unico fenomeno del tiro della freccia, dove arciere, braccio, arco, freccia, percorso e bersaglio sono, anzi, rappresentano UNO.
Paolo (De Nardis) assicura esservi una minor rigidità della sociologia rispetto alle scienze esatte e quelle naturali, per la sua “stessa natura generalmente probabilistica”.
“Non è sufficiente un caso negativo che contraddice la proposizione generale in forma nomologica (di legge) a far rifiutare come falsa e non veritiera la legge annunciata. Il “fattore x che il più delle volte appare in funzione causa rispetto al fattore y”.
Terza analogia con la fisica delle particelle: questa è proprio la meccanica quantistica, cioè la funzione d’onda probabilistica. Noi sappiamo da dove il fotone viene emesso, ma non dove andrà a ficcarsi; questo, almeno, secondo gli attenti studi di Richard (Feynman) e tutti quelli successivi. Possiamo solo prevederlo. E di solito l’ottimo nonché ironico Richard ci azzeccava, ma non sempre. E questo, per lui, era rimasto fino alla fine un mistero, come lo è ancora: ma lui se n’era fatto col tempo una ragione. Diceva ai suoi studenti: non so dirvi perché è così, ma è così. A proposito: esistono sociologi, almeno quantisticamente, ironici? Se spari una particella contro una barriera iper-densa essa verrà ogni volta bloccata, anzi, quasi ogni volta. Una di loro (non una su mille, ma su miliardi di miliardi) ce la può fare, e ce la farà necessariamente. Così è previsto dalla scienza più previdente del mondo, la fisica delle particelle, che è fondata sulla propria mancanza di certezze, che non significa assenza nomologica, ma adattamento di ogni legge all’ipotetica e, prima o poi, certa trasgressione. Nulla di più vero dell’antico adagio che ogni regola ha le sue eccezioni.
L’effetto tunnel è un effetto quanto-meccanico che permette una transizione ad uno stato impedito dalla meccanica classica. Quindi, per andare oltre, bisogna recedere da qualsiasi assoluta e imprescindibile classicità, mantenendo solo quelle localmente necessarie.
Nel terzo capitolo si riconosce ad Auguste (Comte) un merito, in quanto egli considera il diritto come un fatto sociale, e non dogmatico in senso assoluto. Con l’aggiunta, però che lo stesso diritto diventa un fatto metafisico destinato, prima o poi, all’estinzione. Émile (Durkheim) invece contrappone una società di tipo caratterizzata dalla solidarietà meccanica (non umanistica?), con una giustizia di tipo repressivo, penale, a una di tipo transazionale, restitutivo, civilistico. Ferdinand (Tönnies) individua una connessione fra vita sociale, che produce lo strumento giuridico, e volontà individuale, in rapporto di causalità reciproca. Egli differenzia anche fra comunità di individui (possessori di proprietà) e società (luogo di scambio): al primo corrisponde un più immutevole status, all’altro un più dinamico contratto Henry Sumner (Maine).
Il pensiero marxista si inserisce, a gamba tesa, sulla questione, poggiandosi su una concezione conflittuale. Lo stesso diritto varia a seconda della parte (dalla classe) dove esso è esercitato, se da chi ha potere (economico-politico-sociale) a chi non ne ha alcuno. Non ha più diritto d’essere l’idea assoluta hegeliana che fonda la società e ne crea e determina le condizioni politiche e sociali. Tutto è relativo, poiché dipende dalla classe in cui è divisa la società. Non è la coscienza umana a determinare la vita, ma la vita (economica) a determinare la vita. La società è il mero teatro della lotta di classe.
Max (Weber) fonda la sua analisi sociologica sulla dinamicità degli eventi sociali, come, nello stesso periodo, Albert (Einstein), che cominciò ad occuparsi non di corpi, quanto di eventi spazio-temporali. E questa è un’altra analogia con la fisica del XX secolo. Per Max (Weber), la società necessita di un campo gravitazionale (ulteriore allegoria fisica, da me forzata), che si chiama stato, che si serve di un apparato burocratico istituzionalizzato: l’individuo agisce rapportandosi con il mondo esterno, in un’ottica che si pretende assoluta (in fisica relativistica, tale assolutezza consiste nella velocità della luce nel vuoto, che è costante, assoluta e immutabile).
Il punto di riferimento è sempre un potere che sta sopra: politico, tradizionale o carismatico. L’individuo è se stesso, unico fra unici, ma è sempre asservito a un punto di riferimento esterno. Ma chiunque è un individuo, anche chi ha potere. Anch’egli deve obbedire alla legge.
Secondo Hans (Kelsen) il diritto è di tipo piramidale, e prevede, al culmine, una norma fondamentale. La critica al suo sistema è l’ontologia di essa: da quale logica proviene? Talcott (Parsons) giunge a una teoria che ha un’impostazione struttural-funzionalistica, che si fonda su una divisione di 4 sotto-sistemi particolari: sociale integrativo, politico finalistico, culturale modellistico, economico adattativo. Il sistema giuridico deve legittimare, interpretare, sanzionare, giudicare. Occorre normare la società ed, eventualmente, reprimere. A questo diritto artificiale, Philip (Selznick) recupera quello naturale, secondo un ideale superiore, che s’identifica con la giustizia e con la legalità. Similmente, il mio omonimo Steven (Fuller) tenta di stabilire leggi naturali a cui adeguare e assoggettare la condotta umana. Georges (Gurvitch) conferisce a vari enti organizzati un pluralismo giuridico, togliendo allo stato la sua assoluta privativa: le varie e conseguenti fonti di diritto dovranno trovare un loro equilibrio giuridico in un ordinamento comune. Coesistono le due forze, centrifughe e, più forti, centripete, l’unità predomina sulla pluralità “delle forme integrate di socialità”.
“Ma non tutti i gruppi, secondo Gurvitch, sono alla stessa stregua in grado di generare ordinamenti giuridici.”
Queste due ultime affermazioni, richiamano altre due analogie fisiche. La materia tende ad allontanarsi (entropia), al disordine, alla differenziazione, alla diminuzione di potere, alla fuga. Ma anche alla riunione, alla gravità, alla singolarità (di cui il così detto buco nero è la migliore delle allegorie: in esso tutta la materia entra e si ordina, si unifica, annullando la propria individualità).
Esistono le particelle (che sono anche onde, dotate di qualità come lunghezza e frequenza), che appaiono e si trasformano in energia e poi ancora in particelle. Sono reali. Ma esistono anche le loro consanguinee virtuali, che non ce la fanno proprio ad esistere: veri aborti quantistici. Non riescono a legiferare, ma senza la loro non compiuta presenza, le reali, incoronate tali anche solo per un breve istante, non esisterebbero. E qui s’innesta l’ennesima similitudine: gli individui, le particelle, nel loro livello microsociologico, non possono produrre una sovranità, se non unendosi in modo macrosociologico, producendo una sovranità giuridica solo in gruppi globali sovra funzionali. Ha senso parlare di corpi solo se le particelle entrano in un’ottica relativistica, obbedendo allora a un ordinamento superiore che supera la ragione particellare, per cui le leggi stabilite sono diverse e rapportabili a gruppi estesi di individui.
Giova ricordare che la meccanica quantistica particellare ha regole e stati che obbediscono a leggi diverse dal corpo esteso. Inoltre, a livello microscopico, ogni osservazione muta il fenomeno osservato. Secondo l’ottica relativistica, invece, ogni soggetto ha una sua visione certa, anche se personale. E qui s’incrina un po’ (ma non eccessivamente) l’accostamento sociologia – fisica. Si cerca di armonizzare le visioni, ma la visione generale, che mai sarà raggiunta, sarà sempre in progress e fortemente instabile.
Nel quarto capitolo si descrive il rapporto, spesso riottoso, fra sociologia e storia. È come se fossero saperi cugini, tipo Paperino e Gastone. Propongo ora un esempio di prosa denardisiana:
“Troppo spesso si è detto che i sociologi, soprattutto i teorici sociali, per una propria forma mentis strutturale rifuggono dalla storia o meglio rifuggono da qualunque tipo di filosofia della storia e di teoria della storia. Sotto certi aspetti può essere vero, dato il rifiuto metateorico del rifiuto di ogni tendenza di assolutizzare concetti che hanno validità meramente euristica e operativa e come tali effimeri e transeunti secondo i criteri della strumentalità opportunistica e dell’utilità pragmatistica per la ricerca; ma, indubbiamente, quando ci si è cimentati con un problema come quello del mutamento sociale non è stato possibile non tener conto (se non altro) di un discorso relativo alla teoria della storia.”
Insomma, direbbero a Reggio, angh’è trest cavagn c’an viin boun’ na volta l’ann: non c’è triste, scarso, cavagno (cesta di vimini) che non venga buono una volta all’anno (per la vendemmia); e in na streca: e in un caso stringente e cogente. Anche se, nella fattispecie, essa più che servire, è servita dalla sociologia. Va bene, però… il suo interesse psicologico, empatico, spirituale, in qualche modo, non va affatto gettato… Attendo una risposta da parte di uno storico di genia scientifica (sempre che ci sia).
Nel resto del capitolo s’intende affermare che la sociologia offre alla storia il suo metodo scientifico, che permette di verificare qualunque carattere spirituale dei personaggi che fanno la Storia: messa qui con iniziale maiuscola, quasi fosse il nome di un Mega-Individuo. La società, e pertanto anche la sociologia, non è tale: quest’ultima è un mezzo, per capire, un metro per misurare la prima. Ma non merita una sua personificazione.
Questo descrivere la Storia come luogo del fenomeno dello Spirito, mi fa pensare all’aforisma di Pascal: “Se il naso di Cleopatra Tea (Filopatore) fosse stato più corto, sarebbe cambiata l’intera faccia della terra.” Se Adolf (Hitler) non avesse creduto all’astrologia, forse non si sarebbe suicidato nel bunker… e chissà se…
Émile (Durkheim) ne ha accennato nel suo ottimistico “Le suicide. Etude sociologique”…
Si dice anche: “Dietro a un grande uomo, c’è sempre una grande donna.” Forse la Storia varia a seconda di cosa prepara a cena la sera prima della battaglia. Di tutto questo pare non si occupi la sociologia.
Si giunge al quinto capitolo, ove Paolo (De Nardis) drammatizza il mestiere del sociologo, che come un fisico sperimentale è alle prese, senza soluzione di continuità, con sempre nuovi valori, su cui produrre equazioni simili a quelle matematiche, e con risvolti scientifici. Quello che rende difficile la sua attività è la continua circolazione di detti valori, il loro mutare di posizione e di quantità di moto: da cui si deduce, con Werner Karl, detto Wernie (Heisenberg), che ogni asserzione, ancorché scientifica e il più possibile minuziosa, è sempre approssimata. A rendere sempre più complessa la disamina è la presenza ignorante dell’etica, che non ha sapienza, che può derivare o da un fondamentalismo, oppure da un relativismo: o da un (unico) credo (atteggiamento fondamentalistico che dà “un’oggettività ontologica al mondo dei valori”), oppure da un politeismo poliedrico e cangiante (atteggiamento non cognitivo e relativistico). La scienza non è adatta a risolvere tale questione, come non può definire l’essenza o l’assenza della divinità.
La ragione può solo tentare di individuare:
- i mezzi più utili a raggiungere un fine;
- la carenza di ragioni di una loro realizzazione;
- eventuali antinomie teleologiche: cosa si vuole e cosa non si vuole o si rischia di raggiungere;
- le conseguenze;
- le ipotetiche alternative.
Per Max (Weber) il mondo dei valori è politeista. Ad un certo progresso ne fa seguito un altro, ipotizzabile in senso probabilistico, ma non certo (altra analogia quantistica). Compito dello storico è (ri)costruire un’astrazione, ricavata da alcuni eventi, e che deve (re)inventare. Il suo è un compito, per come viene qui presentato, di tipo artistico. Egli può anche essere un pittore alla Eugène (Delacroix). Se non ce la fa ad essere un Francesco (Guicciardini). Quello del sociologo è semplicemente attestare, come se fosse uno scienziato. Sperom!
Però ora interviene lo smilzo e sbrigativo sesto capitolo, di appena 4 pagine e un po’. All’inizio denuncia un fatto: che “un ‘fatto puro’, libero da ogni connotazione teorica, non può esistere.”
“In realtà ogni fatto che diventa oggetto di una indagine è ipso facto pregno di teoria, perché in qualche modo già interpretato.” Non esiste un fatto non impregnato, religiosamente, aggiungo io, di teoria.
Lo storico deve prima definire le cause scatenanti il fatto, cercando nella propria immaginazione cosa sarebbe successo, se non fossero presenti ed operanti le suddette cause. Da cui può (come fa un fisico teorico con un’equazione) affidare a un elemento un valore causante, per cui si può rilevare un’induzione alla probabilità che il fatto avvenga. Max (Weber) rifugge da un determinismo assoluto che permetta di far assoluta luce sulle (infinite) possibili condizioni genetiche del fatto. Non esiste una causa unica, necessaria e sufficiente, ma un crogiuolo di concause. “Per cui, attraverso la categoria della ‘possibilità oggettiva’ tutt’al più si avere una grado più o meno alto di probabilità a che si verifica una determinata conseguenza.” La conoscenza può essere solo intuita e mai certa. L’analogia con la traiettoria imprevedibile della particella è sempre più stringente. Si potrà mai arrivare ad affermare, unitamente a Niels (Bohr), che la particella (sociale) esiste solo quando la si attesta?
Nel settimo capitolo s’identifica, come se ce ne fosse ancora bisogno, l’oggetto (anche l’unità di misura) dello studio sociologico: l’azione sociale, l’interazione. Una particella sola non è sociale, due sono correlate. Una volta tali, lo saranno per sempre. Non cesseranno mai d’essere influenti e influenzate, in azione reciproca. Questo è il principio della fisica detto entanglement, che tanto fece litigare (dialetticamente) Albert (Einstein) e Niels (Bohr).
Vorrei porre un caso. Un essere è sociale, ma fugge dal mondo, inforestandosi: diventa quel che in indiano si chiama sannyasi. Nessuno lo vede più, ma se lo vedesse egli apparirebbe vestito di color zafferano. Come si vede, egli non rinuncerebbe facilmente e in toto alla tradizione. Ma potrebbe anche denudarsi, come fece san Francesco. Le sue azioni che hanno mutato gli altri, li stanno (laggiù, in città) mutando ancora: coi suoi retaggi parentali, amicali e sociali tout court. Cessa, dall’eremo sperduto nella foresta, si essere sociale? O rimarrebbe entangling e entangled? Nell’anima di chi è rimasto colà, lui rimarrebbe come prima, anche se diversamente: cambierebbe la qualità della presenza e forse anche la quantità. Costì, nella foresta, egli vivrebbe come San Giovanni Battista, nutrendosi di lumache e locuste, oltre che di erbe spontanee e ortiche cotte.
Diverso ragionamento va riferito al clandestino proveniente da un paese negletto, seppur antico. Là egli sarebbe, forse, presto dimenticato, essendo il suo ricordo superato da altre urgenze. E qui? Se anche fosse, come dicono a Pixuntum e a Palermo, ammucciato, dal suo nascondiglio cittadino, egli rimarrebbe economicamente presente, non potendo vivere d’aria, dovendo poi eliminare i suoi rifiuti organici e non. La mia opinione è che, in entrambi i casi, i due rimarrebbero affatto sociali. Del resto, uno lo rimane anche dopo morto (grazie alla messa in suffragio, al cippo mortuario, alla lampada votiva, etc).
Torniamo al settimo capitolo. Si parla del lavoro. Una volta non era a-familiare. Cambio la frase, una volta era familiare. Il capo-famiglia era anche il capo-struttura, il dirigente. A tal fine racconto un aneddoto. Mio zio Mario era nato per fare il contadino. Fin da ragazzo, era il più bravo di tutti a potare, seminare, piantare, raccogliere, anche perché aveva più energia di chiunque e, soprattutto, più olio di gomito. Se ne fregava dell’etichetta cittadina: per lui la campagna era tutto. Ricevette un giorno un cappello nuovo in regalo, se lo calcò immediatamente in testa e corse a faticare nei campi. A sera tardò un po’, come sempre, rispetto agli altri, e quando si ritirò dovette subire i rimbrotti da parte della mamma, non per essersi fatto aspettare (era la norma), ma perché aveva bucato il copricapo. Se la cavò con una battuta delle sue, detta col viso serio: “mentre e lavureva, aiò fatt na riduda e s’è rott!”, mentre svolgeva le sue mansioni di agricoltore, s’è messo a ridere e il cappello s’è spaccato. Fu perdonato, l’importante era, per la comunità familiare, che continuasse a lavorare come sempre. Passano cinquant’anni, Mario è ultra settantenne, ma lavora quasi come prima. A mezzogiorno va a casa e chiede se è pronto. No, non ancora, le dice sua moglie, l’atarassica Palma (l’aveva sposata perché era stata la perpetua di un prete, quindi di natura calma). Mario torna un po’ sbuffando nei campi. Da cui si ritira poco dopo, chiedendo ancora se è pronto. No, ancora no. E Mario ritorna sbuffando a faticare: “am toca lavurer ancòra mès’ora!”
Questa è l’alienazione del lavoro di cui diceva Karletto (Marx).
Si parla di tele-lavoro (detto anche, in certe sublimi occasioni, come durante la pandemia del coronavirus, smart-working). Quando fu decretata la sua possibilità, molti colleghi esultarono: potevano lavorare a casa, in mezzo ai loro affetti. Uno solo si rifiutò, preferendo le mura non casalinghe: fra quelle domestiche, aveva subodorato troppi impegni extra (cioè familiari: lavoro più famiglia, non famiglia meno lavoro). Questa è una delle ragioni per cui molti lavoratori in smart-working, spesso, dopo un po’, vi rinunciano, ritornando all’ufficesco ovile. Salvo poi, optare di nuovo per esso. Granera nova spasa bein: scopa nuova, si sa, scopa meglio, ma presto si deteriora come tutte le altre. L’intero capitolo mi ha fatto venir voglia di introdurre la nozione fisica di campo fisico, che è una grandezza che è una funzione della posizione come spazio-tempo: l’insieme di valori che essa assume nello spazio-tempo. esso descrive la dinamica dei corpi, le loro evoluzioni nel tempo, la loro storia.
In un campo isolato, la quantità di energia è immutabile (primo principio della termodinamica), variando solo nelle sue in(finite) forme. Ma di fatto, si sa, non può esistere in assoluto un campo isolato. Se si è nati da una singolarità, tutto è entangled. Ora, più che mai, anche in sociologia, stante il villaggio globale, esso non può essere ridotto, di poco o di tanto. Ogni riduzione è un arbitrio. Può servire a esaminare meglio un particolare, ma non ha valore nell’esame generale della tribù umana. Per questo, la distinzione che si fa nel capitolo tra gruppo e organizzazione può essere di tipo operativo, non ontologico. Quello che cambia, tra e due forme societarie, è la quantità e la qualità delle regole. Non la loro necessità.
Nell’ottavo capitolo si discute sulla necessaria differenziazione fra micro e macro-sociologia.
Prima affermazione necessaria: una non è il contenitore dell’altra. le sue sociologie coesistono con azione diversificata. Non sono riducibili l’una all’altra, ma nemmeno antitetiche, né frutto di un dualismo. Quel che cambia è il punto di vista dell’attore sociale: il quale è limitato in quanto attore al ruolo di colui che deve comprendere ciò che vede: il suo agire e, contemporaneamente, l’esterno del suo agire. Per cui:
“Più si avvicina, in questo senso specifico, a teorie ‘macroscopiche’, più ci si allontana da quel suo ‘punto di vista’, sicché l’ottica che guarda alle dimensioni ‘grandi’ non può che essere l’ottica dell’osservatore interprete.”
Questo mi fa venire in mente anche le teorie cosmologiche, ad esempio a quelle di Stephen (Hawking) che, per anni, disse che nulla poteva fuggire al e dal buco nero; poi scoprì, senza essersi mai recato, ovviamente, all’interno dell’orizzonte dello stesso, che, invece, da esso fuoriusciva necessariamente una radiazione, detta di Stephen (Hawking). Nel caso in questione il buco nero non è solo lontano, ma imperscrutabile, essendo oscuro. Ma se ne possono scorgere gli effetti gravitazionali, si dice, che partono dal centro dell’universo, il quale pare non ce l’abbia il centro, ma come per dire: colà. La differenza fra le due questioni è questa: Stephen (Hawking) non può andare, né vedere, ma può calcolare un po’ tutto, con la matematica, soprattutto la geometria e l’algebra (egli perciò credeva in una prossima e comtiana teoria del tutto); il macro-sociologo può recarsi in loco, osservare tutt’intorno, ma resta sempre isolato e sprovvisto di un numero sufficiente di informazioni: purtroppo anche la società non ha un centro, e ovunque uno si trovi è sempre in periferia.
Quello che manca è, mi dispiace doverlo dire al caro Paolo (De Nardis) è l’uso intenso e imprescindibile della matematica, e la capacità di organizzare delle equazioni sufficientemente complesse. Sto anche pensando a Albert (Einstein), che aveva una teoria bell’e pronta, ma scarse conoscenze di matematica, non rispetto a un sociologo, ma, a un Kurt (Godel). A forza di cercare trovò nel tensore introdotto da un matematico italiano, Gregorio (Ricci Curbastro), il modo di misurare la curvatura riemmaniana. Ricorse poi ad altri, e a Kurt (Godel), quando volle rinvenire alcune soluzioni dell’equazione finale. Non so se sia mai esistito un sociologo che sia mai stato così umile da far risolvere a qualcun altro (magari a uno storico) una sua propria teorizzazione.
“… la deduzione macro della definizione di un ruolo nulla ci dice sull’agire situazionato di chi assume la titolarità di quel luogo…”, però: “… a tale agire situazionato (contesto micro) nulla sapremo di esso se non rinviando a ciò che trascende tale situazionalità.
Si distinguerà fra “istituzione” e “istituzionalizzazione”: la prima “designa gli insiemi invarianti della vita sociale, definibili come tali sia dal punto di vista dell’attore, sia dal punto di vista dell’interprete-osservatore. Il secondo designa le condizioni di prevedibilità dell’azione, ovvero i margini – ciò che Parsons chiama bondaries – entro i quali è lecito attendersi l’imprevedibilità: entro i quali, cioè, gli attori stessi, reciprocamente, ne avvertono la contingenza, la situazionalità.”
E qui giunge il momento di definire un’ulteriore similitudine con l’indagine fisica. Roger (Penrose) classifica alcuni problemi attualmente non assoggettabili a esperimenti tra gli X misteri, cioè quelli che non hanno (almeno per ora) ipotesi di soluzione, a meno che la meccanica quantistica si riveli teoria incompleta, fatto in cui egli stranamente non crede. Karl (Popper) la definirebbe, in quanto scienza, falsificabile. Quindi la situazione può sì migliorare, ma non guarire mai del tutto. Ed è il processo verso la guarigione che occorre seguire con attenzione. Si tratta di una crisi ossimorica, cioè senza alcuna previsione di sbocco, in un modo o nell’altro. Non è ammesso né il decesso, né la guarigione: è una malattia necessariamente continua. Una macchina emette una particella: la prima parte del percorso è abbastanza prevedibile (quasi) al 100%. L’arrivo no: si tratta di un x mistery. Questo in fisica, immaginiamoci in sociologia. La prima è fondata sulla matematica, anch’essa indecidibile, secondo Kurt (Godel). Ma almeno, se non si esaminano le radici (postulati), la pianta in genere cresce sana e robusta.
Questo vorrei capire, spero entro la fine del libro: quali siano e se ci siano postulati quasi certi, anche se magari indecidibili, alla base della sociologia. Ne bastano due o tre, di più sarebbero già una costruzione teorica. Quale può essere il primo mattone della sociologia: per me rimane la psicologia interattiva di una persona quando s’imbatte nell’altro. Cosa si può dire di quella piastrella primeva: è fondata su un legame o su una separazione sancita al nascere della relazione? È assoluta o relativa, a tempo indeterminato o precaria? Nietzschiana o cristiana? È legata all’io o alla specie umana? È gravitazionale o entropica?
Io credo entrambe (tutte le dicotomie), perché l’intero cosmo è così: fugge dal (non) luogo (non) tempo ove (non) avvenne il big bang ed è diretto al termine della conseguenza del secondo principio della termodinamica: un universo gelato e disperso al 100%. Ma c’è chi si augura che, ad un tratto, avvenga il big crunch. Che nessuna delle due antagoniste vinca, ma si alternino.
Forse il postulato è proprio questo: l’impossibilità di una vittoria fra ciò che è all’interno dell’ego e quel che è al suo esterno. Il secondo postulato è la necessità del conflitto. Il terzo è che… non lo so… e nemmeno lo immagino. Perciò lo invento: è eterno: Eros versus Civiltà. Dalla disamina della storia della sociologia, così splendidamente narrata da Paolo (De Nardis), emerge tutto un campionario (stavo scrivendo un bestiario), dove la personalità meno vistosa è stata forse dimenticata dall’autore. Tanti galletti in un pollaio!
In fisica, attualmente vi sono, principalmente, due tipi di ricercatori:
- quelli sperimentali
- quelli teorici (che non stimano granché i primi, ma ne aspettano nervosamente gli esiti degli esperimenti)
Vi sono poi quelli che hanno sposato una causa (i più famosi sono i stringhisti; ma stanno emergendo con sempre più virulenza i loopisti, cultori della gravità quantistica a loop), giudicati un po’ dai tradizionali, in modo simile a come la famiglia cattolica sbatte la porta quando suona la solita non sempre deprecabile coppia di Testimoni di Geova.
Infine ci sono i modellisti, come Lisa (Randall), una newyorchese che sforna in quantità industriale diversi modelli fisici, e prima o poi ci azzeccherà e vincerà il Nobel, non appena gli sperimentali, le daranno una pur risicata ragione. Nella sociologia tutto questo non esiste? Non si evince dal libro. In nuce pare ci sia già, e da un secolo almeno, ma senza decollare. I tempi paiono lunghi come la quaresima. Probabilmente la loro pia ricerca non è destinata a raccogliere frutti economici, ma solo a dialogare l’uno con l’altro sociologo. All’economia interessano assai di più le analisi di mercato.
Quando lessi, in “I persuasori occulti” di Vance (Packard), che un’etichetta più rotondina e femminile attirava di più di una più greve e maschia, mi misi a sorridere, ma il fatto mi aprì gli occhi sulla mendacia di cui ha bisogno il capitale per sopravvivere. C’è ancora il problema del linguaggio da verificare. Solo qualche anno fa, grazie a Google, ho compreso cosa intendeva affermare l’autore dell’introduzione a “Eros e civiltà” di Herbert (Marcuse), libro da me amato più di altri, con catessi della libido. Lo chiesi al mio prof di filosofia che cominciò a spiegarmi cos’era la catarsi. No, prof! La catessi! Al che, anche lui, parve arrendersi; ma quando poi gli portai lo smilzo tometto di Herbert (Marcuse) sentenziò: “è un errore di stampa”. No, caro prof. Beggi (non ricordo il nome), gli direi ora: “catessi era quello che provavo per quel tometto!”
Anche il libro di Paolo (De Nardis) è oscuro, ma un po’ riesco a intuirci qualcosa, una specie di luce accecante in fondo al tunnel. Quindi: questi micro-macro-medio sociologi sono astrusi come equazioni matematiche, ma non ne posseggono la logica, poiché vanno per tentativi, come fa Lisa (Randall), ma costei la matematica la sa usare, eccome.
Queste sono le impressioni a pelle, leggendo il primo capitolo della seconda parte del libro. Altre impressioni, altre reazioni: non da aspirante studioso, ma da curioso lettore, sento il bisogno di specificarlo, semmai ce ne fosse la necessità reale, ma non credo. L’esempio di mio zio Mario, che parte da un fatto storico (il racconto di mia madre di Mario ragazzo) e giunge a un mio ricordo personale, biografico, che rammento solo perché ho una certa psiche che ama tenere in serbo queste piccolezze, e magari raccontarle in maniera letteraria, tutto questo diventa un piccolo saggio sociologico, privato e dilettantesco, ma significativo. Mia madre che ha vissuto il primo episodio e mia zia Palma che ha vissuto il secondo, entrambe non hanno colto il rapporto fra i due momenti sociali e storici, come l’ho ravvisato io. Solo mettendo in relazione due fatti, ne ho colto un terzo: anche per zio Mario è giunta, verso il declinare della sua esistenza, la spersonalizzazione del lavoro che attestò Karletto (Marx). Il fatto che lo vidi ridacchiare, la seconda volta che dovette, obtorto collo, tornare nei campi, è un ulteriore attestato: ancora la definizione marxiana non era giunta a co’. Mario era ancora libero, d’altronde era lui il padrone; quando voleva poteva smettere, quando gli pareva bene poteva ricominciare. Quindi, la mia tesi, non va tanto bene, va corretta. Come si vede, quella risata la sconfessa quasi tutta. Più microsociologia di così non si può mica.
Niklas (Luhmann): “costruisce un agire che è sociale proprio in riferimento e secondo il senso intenzionato di altri individui”. Io sono io, gli altri sono tanti un altro, con cui occorre stringere accordi e relazioni, per il buon vivere sociale, da cui non si può prescindere: “ogni esperire vivente e agire, riferito ad altri uomini, è doppiamente contingente, per il fatto che dipende non soltanto da me, ma anche dall’altro”. In Niklas (Luhmann) “il concetto di senso, intrappolato nella teoria del sistema” diventa “il congiungimento della prospettiva micro con la prospettiva macro.”
Alfred (Schütz): parte da un “Io solitario”, “momento originario della costituzione della coscienza interiore de tempo”, che prima o poi si rapporta con uno o più “alter ego”, fenomenologicamente parlando. Si tratta di un “individualismo fenomenologico”. Ego-stato che si rapportano fra loro. Arcipelaghi. “Siamo isole nell’oceano della solitudine…”: Giovanni (Scialpi)
Arnold (Gehlen): l’uomo in crisi da quando nasce si barcamena in un mondo difficile, in un sistema di azioni autoregolate, al fine principale di sopravvivere in un mondo troppo poliedrico e complicato: ormai non c’è più, per tanti, quell’ideologia unitaria che ti rassicuri: l’uomo è empio e se la deve giocare da solo, o con mezzi che trova in giro o, meglio: “nel solco di ciò che ha ricevuto fissazione e definizione”.
Ancora Niklas (Luhmann): sistema di un sociale “olistico”, che “acquista senso solo se rapportata a ciò che non è oggetto di trasformazione e di mutamento, ma rappresenta ciò che permane e che causa la produzione della processualità: la sostanza, identificata con la struttura.”
Non so se sia l’ultima, o soltanto l’ennesima analogia con la fisica, in questo caso relativistica (quella afferente i corpi grandi, come sono gli orologi, i pianeti e le società): la luce è costante, come dissi sopra, ed è grazie a questo miracolo straordinario, che si possono misurare le quattro dimensioni, tre spaziali e una temporale. Qui, non si capisce cosa sia immutabile, e perché lo si definisca tale.
“Il processo si compie lungo un vettore cronologico che permette di individuare la variabile del tempo.” Sperom!
Wilhelm (Dilthey): l’uomo è una variabile che accade fisicamente, non meta-fisicamente. Non è possibile “arrivare a uno schema unico di ragionamento metodologico per scienze sociali e scienze fisiche.” Si distinguerà fra scienze dello spirito e scienze della natura. Ritornando sempre a Niklas (Luhmann), la disamina del processo mentale di quest’autore, complesso e fatto anche di clamorosi sbandamenti, pare che tutto si possa risolvere solo partendo dall’uomo e dalla sua etica. Solo in tal modo la socialità diventa un dover far così perché così è bene.
“Quindi le persone, a differenza dei ruoli, non sono comparabili e ‘diventano oggetto di un giudizio morale solo se viene rispettata questa incomparabilità’.”
“…‘la condotta morale deve trovare valore in se stessa: per essa non valgono né il confronto sociale (compreso il cosiddetto rispetto umano e il conformismo) né l’orientamento strumentale verso l’approvazione”.
Ancora e sempre di più: sperom!
Nel secondo capitolo della seconda parte, si riparla di Talcott (Parsons) e del suo sforzo di riportare il discorso fuori da ogni filosofia, logica, ontologia, ma alla realtà reale della società. Il sistema istituzionalizzato “deve adempiere la sua fondamentale funzione che è quella dell’integrazione, che deve essere salvaguardata attraverso una serie di meccanismi di controllo sociale.”
“… il sistema postula le sue condizioni e le sue condizioni postulano il loro sistema…”: questo conato euristico richiede una grande forza sociale aggregante, il Potere, il cui effetto viene mitigato (o celato?) da qualche forma di pluralismo. La società è, sempre con Talcott (Parsons), assimilabile a un campo fisico dove esistono varie reti interorganizzative, mai del tutto aperte e mai del tutto chiuse; divergenti e convergenti; in moto continuo; sistemi astrali che coesistono e interagiscono.
Secondo Michel (Crozier) “la regolazione degli schemi d’azione, in ordine a problemi e a schemi di soluzione, in realtà non avviene ‘né per l’esercizio di una costrizione anche inconscia, nemmeno attraverso meccanismi automatici di adattamento reciproco: la regolazione si effettua mediante meccanismi di giochi mediante quali i calcoli razionali strategici degli attori vengono integrati in funzione di un modello strutturati. Non sono gli uomini a essere regolati e strutturati, ma i giochi a loro disposizione.”
Secondo Edward Alsworth, detto Ted (Ross), quello che cambia fra attività naturali e istituzionali è semplicemente il significato loro conferito dalle regole costitutive. Sono diverse, ma solo per come sono state regolate. Sono diverse!
John (Searle) differenzia fra fatti brutali e fatti istituzionali. I primi sono imprevedibili, grezzi, sregolati (non si sa fino a quando, forse); i secondi sono lindi e pinti. La loro esistenza dipende logicamente (ed esclusivamente) dalle regole costitutive. Un esempio di interpretazione magico metafisico è quella di quell’altro John (Langskaw Austin): quando uno dice “prometto” “giuro” “ti assicuro che” si compie un’assolutamente non falsificabile azione, che può recare felicità oppure infelicità. Buon Dio!
Si ha la sensazione che la società sia composta da una miriade di ego (singularia tantum) in continuo tentativo d’inganno l’uno dell’altro. Essa è fondata sulla mistificazione. Solo così si possono mantenere inalterati gli equilibri sociali.
Alla fine, Paolo (De Nardis) conclude il capitolo dicendo: “… gli insiemi vengono costruiti a fini analitici con determinati confini che vengono stabiliti ai soli fini dell’indagine…” Ad hoc! Ogni ontologia diventa una zavorra da gettare dalla mongolfiera. Per volare dove si vuole, non necessariamente più in alto: altrove.
Nell’ultimo capitolo della seconda parte Paolo (posso finalmente chiamarti col solo nome?), riferisce la sua attenzione alla contrapposizione fra informale e formale. La conoscenza è di per sé formale: “Essa si basa infatti su procedimenti di astrazione e categorizzazione intellettuale e su un processo di rendimento geometrico della rappresentazione delle cose.” E su tutto ciò si fonda anche la sociologia: “…sulla tipizzazione e sull’estrapolazione di tratti particolari dell’esperienza sensibile al fine di costruzioni idealtipiche.”
Il sociologico “è un luogo di valori, un peculiare segmento culturale al cui interno il mondo normativo che lo compone si esplica attraverso una serie di enunciati in lingua di tipo, ovviamente, volutamente, e, in ultima istanza, prescrittivo.” Ahi ahi ahi! Ne riparleremo.
Si scopre poi che nulla può essere assolutamente informale: anche due tipi che chiacchierano al bar, mentre si fanno una briscola, hanno elementi formali in comune come la lingua, gli atteggiamenti, talune espressioni. Quando a un compagno di carte si getta un fante (due punti a briscola): l’elemosna ed Crest! – l’elemosina di Cristo; trî cavâi cun un fânt inséma, j’hân vînt la guèra: tre cavalli con un fante sopra, hanno vinto la guerra: undici punti. E via discorrendo. Mi sa che anche non possa essere assolutamente formale. Ma ne parlerò forse alla fine della mia lunga concione-disamina-reazione. Allora, di cosa stiamo cianciando? Vediamo…
Interessante per il lettore di questa mia reazione, perché non so quali occasioni ne avrebbe per venirne a conoscenza: Paolo cita Richard Merwyn (Hare), famoso per i suoi infami termini, frastico e neustico. “Neustico” (dal greco “neuein”, “inclinare”); “frastico” (dal greco frazein, “dichiarare”). Da notare che in Google traduttore, “neustico” si traduce in inglese “neustic”; “frastico” non pervenuto.
Un paio di esempi:
“Prima o poi dovrai andare in bagno…”: frastico, descrittivo;
“Ma va’ a cag…!”: neustico, prescrittivo.
E dopo questo sarebbe meglio chiudere la porta. L’amico Paolo invece la lascia spalancata: formalizzazione significa rendere ciò che è neustico sempre più frastico, apodittico, enunciativo.
“Quindi come si è visto il formale può essere inteso come il normativo (enunciato prescrittivo in lingua) che raggiunge il proprio acme nel processo di positivizzazione (giuridica).” In Cassazione, immagino.
In sintesi: “… il processo di formalizzazione può essere inteso come: a) il processo di normalizzazione dei comportamenti b) il processo di oggettivazione delle regole che già erano sotteso allo studio informale c) il processo di astrazione di un’istanza ontologica (stadio informale) nella geometrizzazione deontologica (che si conclude al processo di positivizzazione giuridica).”
A mio parere, questo processo rischia di creare degli atti anti-sociali, che, quando va bene, diventano “dada”, quando va male “spari all’interno di un college”.
Nella quinta sezione, si esamina la preoccupazione di tale tensione, anche secondo lo studio di Georges (Gurvitch). Il continuo travaso da informale a formale viene definito: non sempre anodino e asettico, “ma che può essere frastagliato, conflittuale, nient’affatto indolore, ai fini del processo di positivizzazione giuridica.” Jürgen (Habermas) propone “un salto di qualità dal descrittivo al valutativo, introducendo proprio le categorie valutative più semplici: buono e cattivo”.
La sociologia diventa una lavagna.
Per finire ancora con Talcott (Parsons), che introduce (mi mancavano, in effetti) le pattern variables, che creano quattro sottosistemi: adattamento, raggiungimento dei fini, integrazione, latenza”, che entrano a fare parte dei quattro sottosistemi strutturali specifici (economia, politica, norme, riproduzione).
Adieu! Prima, però, mi lasci sfogare un attimo, e riprendo le distanze…
Signor Paolo (De Nardis), innanzitutto la ringrazio, perché mi ha aperto la mente come già mi capitò leggendo “Eros e civiltà” di Herbert (Marcuse) e i “Persuasori occulti” di Vance (Packard).
Allora provai una sorta di felicità, oggi di mestizia incazzata. Come dicono a Pisciotta (sorridente cittadina quindici chilometri a sud di Elea) “chi rice a verità vol essa accisu” (chi dice la verità vuol essere ammazzato o, in ogni caso, rischia grosso). Secondo me lei l’ha detta, la (sua) verità, e di ciò le rendo merito.
Sono certo che almeno un (bel) po’ ho frainteso, mi auguro solo parzialmente, le varie tesi dei numerosi autori proposti, ma di un fatto sono certo: la sociologia comprende un aspetto scientifico (che rimane purtroppo ontologico, come in tutte le scienze, anche la meccanica quantistica: occorre rendersene conto) e quello tecnologico-operativo, che vuole mutare la cosa osservata; diversamente dalla fisica, che ha già attestato che l’osservazione muta la cosa osservata (perché ne fa parte).
La tecnologia arriva mesi, ma più spesso anni dopo la scoperta scientifica, a volte anche decenni. Pensi al coronavirus: individuato, ma ancora non neutralizzato. Dapprima Max (non Weber, ma Planck), nel 1900 e poi Albert (Einstein), nel 1905, introdussero le basi della quantistica. Solo nel 1919 la IBM ha proposto il primo computer quantistico. Specialmente nelle ultime pagine, nella contrapposizione fra formale e informale, ho immaginato dove possa forse essere la soluzione del busillis: non so se esista sociologo che riesca a liberarsi della toga giuridica.
Non si può essere scienziati e ingegneri al contempo: aut aut.
La sociologia, fino a quando il primo sociologo non imiterà San Francesco, andando nudo, la sociologia sarà sempre intrisa di religione, di etica, e non sarà completamente scienza. Almeno così, mi disse, ieri notte, mentre dormivo, in sogno, un certo Karl (Popper). In un certo punto del libro, che non leggerò mai più, stante i conati di… conoscenza che mi stanno venendo, ma che avrò sempre caro, e che talvolta forse tornerò a sfogliare, qualcuno dei suoi autori citati parla di diritti naturali o moralità interne del diritto: mi pare sia stato il mio assurdo omofono, Steven (Fuller).
Non esistono! Glielo giuro, secondo le direttive impartitemi da John (Langskaw Austin). O almeno, che io sappia, nessuno li ha individuati in laboratorio. Non sono scientifici, ma, appunto, filosofici ed etici. Come lo è lei, prof. Come lo sono io, spero.
Altrove, anche qui non ricordo chi Lei citasse, come e perché: si parla di differenza fra essere e dover essere. La scienza si occupa della realtà. La filosofia delle altre due questioni.
Il lavoro dello storico Nicolò (Machiavelli), con la sua verità effettuale, a mio parere, ha in qualche modo preannunciato il metodo sperimentale di Galileo (Galilei). Si descrivono le cause e se verificano gli effetti.
A conti fatti, non si possono comparare storici e sociologi, a giudicare chi sia più scientifico dei due. Dipende dalla loro personale bravura e onestà intellettuale.
Ultimissima (e potrei evitarla) connessione con la fisica. Quando, due chimici inglesi s’illusero di aver scoperto come produrre la fusione a freddo, esperimento poi risultato fallace, il fisico Carlo (Rubbia) sollevò scalpore, affermando che quei due non erano scienziati. Poi si corresse, aumentando la gaffe: gli scappò detto che non erano fisici. Queste sono diatribe miserrime.
Che io sappia il buon storico lavora su fonti che vengono raccolte ed esaminate, come fanno i fisici sperimentali con le particelle: alla fine del loro arcanissimo e imperscrutabile tragitto, da qualche parte esse baccano da qualche parte.
Così, a mio immodestissimo parere, dovrebbe fare il sociologo: seguire continuamente i mutamenti sociali, differenziando la loro ricerca nei vari ambiti, senza perdere di vista il movimento generale, e non giudicare, MAI, secondo le motivazioni di alcuna etica, religione o ideologia.
Non informale versus formale.
Semmai, il particolare nel generale, il generale nel particolare.
Buon lavoro, prof!
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Paolo De Nardis, Il crepuscolo del funzionalismo, Bordeaux Edizioni
Attraverso questa analisi, Stefano Pioli ha ripreso e sollevato praticamente tutte le domande, le aporie e le criticità che convivono con la sociologia fin dalle sue origini ufficiali, ai tempi di Auguste Comte. La materia è da specialisti in quanto si riflette su se stessi, sul proprio statuto fondativo; non è una riflessione sulla società, ma sul proprio ruolo nella società. Una metariflessione direi. Che nella materia sociologica si confrontino diverse scuole e diversi approcci non è certo una novità, che, tuttavia, condividono un assunto di base, cioè che la società esista. È famosa la frase di Margaret Thatcher che sosteneva il contrario. La sociologia è stata sempre una materia particolarmente scomoda per il potere, il quale ha sempre cercato di osteggiare, negandola, o cercando di metterla sotto controllo. Da qui, dal fatto che l’uomo sia un animale sociale, come diceva Aristotele, che spenda la sua vita all’interno di gruppi creando valori, simboli, miti e ritualità, caratteristici di luoghi e di epoche diverse nasce l’istinto sociologico. Scienza o costruzione e ricostruzione soggettiva di una realtà interpretata e filtrata? Vecchio dilemma sul quale ci si ingarbuglia da tempo. Eppure, il metodo di osservazione sperimentale adottato dalla sociologia che, giustamente, non può non modificare in qualche modo l’oggetto osservato, alla pari delle scienze naturali, è fondamentale per conferire alla sociologia il suo statuto di scientificità. Assieme al metodo corre il senso, anzi lo precede, vale a dire l’epistemologia che sta alla base della ricerca sociologica. È precisamente il dover agire su queste basi che determina la scientificità della sociologia e delle sue annotazioni. L’individuazione delle costanti e delle uniformità nel tempo e nello spazio, così come delle specificità e delle differenze ha sempre caratterizzato lo studio sociologico. Tutto ciò passando dalla teoria alla prassi e viceversa, in una costante opera di verifica e ridefinizione dei postulati che stanno alla base dell’esistenza sociale umana. Ovviamente, il ruolo dello studioso assume un carattere fondamentale per attribuire uno statuto di scientificità alla ricerca di carattere sperimentale, tale da poter essere di volta in volta certificato o smentito dall’insieme della comunità scientifica di riferimento.
Grazie delle varie considerazioni espresse.