“Gli esordi” di Antonio Moresco: ogni storia ha la sua maschera
Letto “Scena del silenzio”, prima parte de “Gli esordi” di Antonio Moresco, primo libro della trilogia “Giochi dell’eternità” che comprende anche “Canti del caos” e “Gli increati”.
Siamo tutti abituati ormai ad ascoltare la nostra anima chiacchierona. E non scorgiamo più il mondo che ci circonda, per magari catturarci e, infine, ucciderci.
Non più, ormai fumiamo la nostra settemilesima e forse ultima sigaretta, ma anche la centoquarantaseimilesima, con indifferenza tale che può sempre succedere che ci infiliamo in bocca una seconda sigaretta, mentre ne stiamo fumando un’altra o che ci attardiamo incazzati contro la vita perché non rinveniamo le ciabatte che: “avevo messo lì, accidenti!, dove saranno mai, non possono sparire da sole, qualcuno se le sarà prese e intanate chissà dove!”, finché non ci accorgiamo che esse sono giacciono miseramente e quietamente ai nostri piedini numero quarantasei e mezzo…
No! Nel libro di Moresco, questo non può accadere all’io narrante che è sempre vigile e in grado di memorizzare, dopo averla assimilata, la più minuta delle esperienze materiali.
L’anima esiste ancora, ma è a sua volta rincantucciata nella mansione di analizzare e nella necessità assoluta di archiviare il mondo delle cose e del proprio corpo, del suo gestire insoddisfatto e limitato nei suoi infiniti micro-eventi, tanto da far apparire ogni atto come la conseguente risultanza di un’equazione di tipo relativistica.
Io sono qui e non là, perché così ha deciso il cosmo.
E il libero arbitrio? Ma esiste davvero?
La “Scena del silenzio” si conclude in un modo finalmente dialogato, dopo circa duecento cinquanta pagine di silenzio quasi totale, rotto appena da esclamazioni involontarie o da brevissimi commenti che si spengono, o è meglio dire che muoiono sul nascere. Troppo breve è la loro esistenza. Troppo scarsa è la loro energia.
Nell’ultima pagina, uno scambio di battute indica un’avvenuta, ma ancora non consapevole percezione di libertà.
L’evento finale accade mentre l’io narrante singhiozza un’impietosa bugia. La prima che quell’anima gemente è riuscita, finalmente!, ad esprimere.
Letto “Scena della Storia”, seconda parte de “Gli esordi”.
La prima parte mi ha detto tutto e non mi ha sottinteso nulla.
Chissà cosa ho capito!
“… Ero riuscito a sollevare il cofano tutto scentrato.”
“Il motore non è stato molto danneggiato, ma i fili elettrici sono intaccati, rosicchiati, ed è stata strappata via la batteria, sono state rubate tutte e quattro le ruote, con tanto di cerchioni! protestai chinandomi a guardare le pile di mattoni che sostenevano i mozzi delle ruote”… (pag. 410)
Se qualcuno non ha compreso com’è andata, è sufficiente che rilegga il testo.
Una, due, tre…! Tante volte finché il fatto non gli entra nella testa.
Una cosa non potrà mai intendere, ed è quell’interrogativo che distingue l’uomo dalla bestia, senza necessariamente favorirlo: “Perché?”
“… Qualcuno mangiava nel buio, arrivando da chissà dove in piena notte. Riuscivo a sentire anche dormendo il rumore del suo temperino che staccava pezzi di carne da una scatoletta. Tutta la ressa dei corpi cambiava posizione senza neanche svegliarsi, quando il nuovo venuto si distendeva sul pavimento dopo avere mangiato, e cercava di espandere poco alla volta il proprio spazio. La pioggia continuava a cadere…” (pag. 500)
La storia appartiene a numerosi individui, a tutte le persone, mi verrebbe da dire a tutte le maschere immaginabili, le quali, ognuna recitando la propria parte, si esibiscono, gente che è senza nome, ma è spesso dotata di soprannome, per lo più ricalcato su un attributo o una somiglianza, oppure semplicemente identificabile con un pronome, “qualcuno”, “egli”, “quello”, che hanno la funzione che, in guerra, ha il numero di matricola, mentre, in tempo di pace, è tipica del codice fiscale.
“…‘Ti darò anche un po’ di quattrini, ti rimetto in strada.’
‘Ma tu chi sei? Chi ti manda?’ chiesi quasi gridando.
Si tormentava le mani.
‘Non è facile neanche per me capirlo, in questa diaspora di gruppi che si sciolgono e si ricompongono subito dopo sotto altro nome, con intenti che non sono neanche più gli stessi, si contendono le sigle, i pochi soldi rimasti, le armi…’ cominciò a dire impallidendo di colpo ‘e non so neanche se ci sono ancora da qualche parte quelli che mi hanno dato l’incarico d rimettere in strada qualcuno, se lo trovo, che mi hanno dato persino dei quattrini per questo, arrivati chissà come, chissà da dove… se nel frattempo non ci sono già sciolti a loro volta, o non sono diventati un’altra cosa. Non so neanche più di chi sono l’emissario, chi mi manda…” (pag. 503)
Il mondo è un Caso, cioè un Caos, però estremamente ordinato, e ciò che non serve più deve necessariamente perdersi, riciclarsi. Il dato di fatto è qui ed ora, non è mai un rimando al passato, ma è il rimandante al futuro.
Il futuro però non esiste ancora ed è solo una scommessa che si finisce sempre per perdere.
Il passato invece è sempre una vittoria altrui, che è però finita e non vale più la pena di parlarne.
La cosa somiglia al dualismo fra materia ed energia. Non esiste una particella eterna, tutto si cor-rompe e decade in energia e/o in altra particella. Se una particella di materia ed antimateria si lambiscono, finisce che all’istante si annullano reciprocamente, liberando un fotone, un corpicino di luce, un’energia che verrà assorbita da un’altra particella più o meno massiva. Il paradosso è che più la materia è, appunto, dotata di massa e più breve è la sua esistenza. In fondo tutti noi abbiamo un tot di carburante addosso. Durerà finché durerà. Poi, amen.
“… la spinta dello zucchero che scendeva a cascata dall’alto era talvolta così improvvisa e così forte che finivo a mia volta nella tramoggia già piena per metà di zucchero…” (pag. 515)
Tutti i personaggi, io narrante incluso, diventano particolari di un cosmo, forse prestabilito, forse no, “assai casualissimo”, eppure estremamente ordinato, in un’ecologia “sociale” (probabilmente non umana) che è decisamente materiale.
“… Sì, sì, mi ricordo… ma quando è successo tutto questo? E adesso dove mi trovo? Che stagione è questa? mi chiedevo. “Da quando tempo sono in giro così, da un posto all’altro, da un rifugio all’altro, da un tumulto all’altro? Che cosa ho fatto in tutti questi anni? Dove sono stato?” (pag. 515)
Questo è il dramma (che sente il lettore e il primo lettore che, occorre forse ricordarlo?, è sempre lo scrittore), l’essere particella di un tutto ti fa perdere di vista la tua individualità.
Sei un quid immerso in un Quid infinitamente maggiore, uno sputo nell’Oceano. Una pagliuzza che finisce per rinunciare alla propria storia e forse anche alla Storia. Quest’ultima sì che esiste, che decide per tutti, che soverchia l’immensa distesa di corpi che si arrogano il nome di individui, ma chi la conosce mai? È come pensare che una formica sappia distinguere la città di Pompei nuova dagli scavi archeologici. La materia è una sola, per quanto disastrosamente polimorfica.
Anche stavolta la porzione de “Gli esordi” è finita. Prima di andare in pace, un’ultima confidenza da parte del mancato prete e dei suoi compagni d’eremo (la vita è infatti soltanto un eremo ricco di Storia, ma ora soprattutto di ragnatele, dove al massimo si può meditare e addirittura pregare, ma non consente nulla di più espressivo).
C’è, però!, infine una speranza!
La Guerra!
“… Teneva la testa leggermente inclinata.
‘Adesso sono un guerriero!’ Disse senza guardarmi…” (pag. 533)
“… ‘Ma ci sono ancora i guerrieri? provai a dire.
Sentii che stava ridendo, che si alzava.
‘Altroché che ci sono!’”
…
“‘Vorresti diventare un guerriero?’
Si sentiva quella musichetta snervare, imperversare.
Feci una smorfia.
‘Sì!”.
Anche la seconda parte finisce con un’affermazione un po’ estorta.
Scena della festa, terza parte de “Gli esordi”
Un’amica indeterminata di un mio amico determinatissimo mi riporta il parere espresso dalla prima su Antonio Moresco: “Anche bravo, ma nel sottosuolo c’è già Dostoevskij”. Probabilmente tale giudizio si può sottoscrivere anche per un giovane e sperduto Franz Kafka, l’autore che più mi sento di rassomigliare a Moresco, ma anche per Hamsun, Lautremont, Morselli e tantissimi altri.
Per quanto siano numerosi, questi geniali saprofiti non sono numerosi quanto i carnivori e gli erbivori che veleggiano liberi lassù, nelle terre emerse. Sulla crosta del pianeta ormai sono finiti anche i posti in piedi. È come il pullman che da Salerno conduce alla Costiera. Si vomita quasi, ma prima o poi qualcuno ti porta dove credi di aver scelto.
Ma nessuno azzarda più l’eroica avventura sugli oceani. Ergo, fra poco cominceranno ad ammazzarsi fra loro per la difesa del proprio spazio vitale. Sotto, invece, ognuno, di notte e di giorno, può allungare sorniosamente (e comodamente) i piedi all’interno della propria caverna, scegliendo, di volta in volta, se uscirne per una passeggiata serotina oppure no, se continuare a poltrire, oppure leggere, oppure scrivere. Insomma, tutta un’altra vita.
Il dramma risiede in questi limiti e in queste eventualità. Ciò che non si può “completamente” capire, fagocitare, da che mondo è mondo, ha sempre destato sospetto. Nasce qui il bisogno urgente, direi anzi cogente, dell’omogeneizzazione del prodotto, che non procuri problematiche nell’ingurgito e nella digestione del cibo, che altrimenti procura mal di pancia, diarrea ed inappetenza.
E anticipa la morte.
Nel più breve “Scena della festa” l’io narrante fatica a comprendere il mondo che lo circonda. Non che prima lo capisse, ma ora scopre di non saperlo decifrare. Lo osserva, stupito, ma, pur senza rigettarlo, s’incazza, reagisce, assiste all’evolversi tragicomico delle funzioni vitali del prossimo, (che, nella storia, svolge, anche se per pochissimo, il ruolo di biografo dello scrittore), che accompagna fino alla sua prematura ed anticipata sepoltura, ben sapendo che altri lo seguiranno e contribuiranno a confondere le sue idee. Il dialogo ormai la fa da padrone. Abbonda ad ogni pagina. Ma è un discorrere fra sordi autistici. Più correttamente: ognuno utilizza il suo strambissimo idioma, incurante dell’altrui.
La bocca non serve per parlare, ma per intercettare il nutrimento.
“…‘Ti è rimasto un filino di pasta, sulla bocca…’ provai a dire senza guardarlo del tutto.
Se lo staccò continuando a parlare, era caduto indurito nel piatto, raffreddato…” (pag. 607)
“… ‘Anche quelle stelline di pasta andrebbero bene!’ sentivo che stava dicendo dall’altra stanza. ‘Non c’è bisogno di masticarle, non si fa molta fatica a digerirle…” (pag. 608)
“… Lo guardavo senza fiatare, gli vedevo una stellina di pasta appiccicata alle labbra, se la portava in giro per molto tempo prima che si staccasse da sola, la rivedevo pestata più volte sul pavimento, ingigantita. ‘To’… da dove viene questa stellona?’ si stupiva scoprendola il giorno dopo…” (pag. 609)
Molti si sono chiesti: “Ma da dove viene questo Maresco?”. Anch’io. Perciò ho scelto di seguirlo. Voglio vedere fin dove mi condurrà.
“… Provai a dire con la bocca ancora un po’ deformata da uno spicchio di mela appena sbozzato, non ancora maciullato.” (pag. 608)
Il poeta pur ci prova a farsi accettare:
“…‘Avrei finito quelle stelline… gli dicevo con la testa girata, il giorno dopo ‘fa lo stesso se uso gli spaghettini? Li spezzo molte volte in un piatto…’ Lo sentivo smaniare per un istante, non mi rispondeva…” (pag. 610)
La lettura di Moresco ti induce ad uno spietato Aut Aut: o continui a leggerlo tutto, e solo poi passi ad altro; oppure, più seraficamente, scegli di gettare alle ortiche il tuo paio di occhiali, e fai fallire la Mondadori.
No, non sia mai. La Mondadori no!
A questo punto, converrebbe che: “…‘Pensa, potresti buttare tutto quanto nello scarico delle immondizie, dopo aver lacerato uno per uno quei fogli in mille pezzi, prendendone piccolissimi blocchi per poter strappare… hai presente?…” (pag. 622)
Ma attenzione: “…‘uno spazzino potrebbe avere il sospetto di avere intercettato una cosa proprio speciale, si potrebbe montare la testa, potrebbe appiccicare con cura tutti i pezzetti e poi correre a portarli a un editore magari in attesa da tempo di qualcosa, senza sapere cosa…”
Scuoteva due o tre volte la testa, si passava la mano sulla bocca esageratamente allargata prima di ricominciare a parlare.
“Meglio il fuoco, allora! Potresti dare tutto quanto alle fiamme, in quel tuo monolocale…” (pag. 623).
Esiste però un terzo scenario possibile: “… Potresti far mancare l’anello…”
Rendere cioè assolutamente impubblicabile un testo quasi assolutamente impubblicabile.
È il quasi assoluto che disturba il potere che si pretende assoluto.
È questo il piccolo sacrificio che l’establishment chiede ai suoi figli: rinuncia a un pezzo di te, a quasi tutto per sicurezza, a tutto per stare nel certo.
Solo così sarai uno di noi!
Per quanto mi riguarda, volendo proseguire il cammino, al momento faccio una sosta.
Prima la Costiera, poi la Sicilia, poi il Cilento e, finalmente, casa mia, dove, nel frattempo, Antonio mi starà aspettando. È tanta la fiducia in lui che gli ho lasciato le chiavi.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Antonio Moresco, Gli esordi, Mondadori, 2011
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