“La pelle di zigrino” di Honoré de Balzac: l’ottimo scrittore lo si vede dal primo capitolo
L’ottimo scrittore lo si vede dal primo capitolo. Che Honoré sia tale è un fatto assodato, ma lo è ancor più che è un grande… un grande veggente, pardon, un visionario diceva Charles Baudelaire.
Cosa vede Raphael de Valentin, il disperato, nell’emporio del misterioso mercante? Tutto ciò che è possibile avere in mente e, tra le migliaia di cose, un talismano. “Questa – disse con voce squillante indicando la pelle di zigrino – è il potere e il volere riuniti.”
Alcune frasi vanno messe in risalto: “Il materialismo e lo spiritualismo sono due belle racchette con le quali i ciarlatani in toga fanno andare lo stesso volàno. Che Iddio sia in ogni cosa, secondo Spinoza, e che ogni cosa venga da Dio, secondo San Paolo… imbecilli!”
E poi la (leggermente) ridondante frase: “Quella brigata in delirio urlò, fischiò, cantò, gridò, ruggì, tonò.” Si tratta di una polifonia di voci, e s’intuisce una regola armonica, ma le stesse mi paiono mosse, come le stesse figure, come dire, dondolanti, frizzanti e instabili. Se fossi un disegnatore di fumetti e volessi ritrarre le varie scene descritte userei un tratto ventoso, fremente e sincopato.
Il capitolo, nelle sue parti descrittive di oggetti, mi ricorda un altro esaustivo descrittore d’ambienti, il Georges (Perec) di “La vita, istruzioni per l’uso”, non per somiglianza, anzi, per contrapposizione: in quest’ultimo autore, la compilazione di oggetti, assomiglia soprattutto a un quieto inventario di anime racchiuse come reliquie d’origine umana. In Honoré è l’anima dell’autore che fa continuamente capolino, muovendosi in modo frenetico, da ognuno di essi. Essa pare come svolazzare, alla ricerca sempiterna di novelli enti da compenetrare.
Lo dice Raphael, l’eroe (si fa per dire) del romanzo: “La scrivania malconcia sulla quale scrivevo e la bazzana bruna che la copriva, il mio pianoforte, il mio letto, la mia poltrona, le bizzarrie della mia carta da parato, i miei mobili, tutte queste cose si animarono e diventarono per me umili amici, complici silenziosi del mio avvenire; quante volte, guardandoli, non ho comunicato loro la mia anima. Spesso, lasciando vagare i miei occhi su una modanatura incurvata, incontravo sviluppi nuovi, una prova impressionante del mio sistema e delle parole che mi parevano felici per manifestare dei pensieri pressoché intraducibili. A forza di contemplare gli oggetti che mi circondavano, trovavo ad ognuno la sua fisionomia, il suo carattere, spesso essi mi parlavano…” e non la smette mica qui, il Raphael, ma continua e continua a dir su.
Questa lunga citazione sarebbe potuta durare ad infinitum, ad libitum, ma soprattutto ad nauseam, ma lì la tronco. Essa mi fa male perché la sento mia. Lo stesso Raphael c’est moi! Anch’io riverso sui miei oggetti parte della mia anima, del mio horcrux. Com’è intuibile, il fenomeno riguarda soprattutto le cose che senti più tue: a me non m’è mai capitato per una vettura di lusso, che mai intesi possedere, ma per il tuo libro, caro Honoré, sì.
Raphael, tu sei un miserabile di tipo onesto: “… lo confesso a mia vergogna, non concepisco l’amore nella miseria. Forse in me è una depravazione dovuta a quella malattia umana che noi chiamiamo civiltà; ma una donna, fosse pur attraente come la bella Elena, la galatea di Omero, non ha più nessun potere per i miei sensi per poco che sia inzaccherata.”
Come mi pongo io di fronte a tale franca ammissione? Non lo so.
“Il giorno dopo, incapace di sostenere il supplizio di attendere a lungo la serata, presi a nolo un romanzo e passai la giornata a leggerlo, mettendomi così nell’impossibilità di pensare e di misurare il tempo.”
Su questo, caro mio, dissento: io compro, e posseggo, non prendo a nolo, un libro (qualunque esso sia). Esso sarà sempre più e mi aiuterà per sempre a pensare e a misurare quello che tu chiami tempo. Il mio destino? Cosa sarà, se non quello che Grossman chiamava destino? E mia madre (che lesse mi pare soltanto metà libro nella sua vita) diceva: “Agh’è piò teimp che veta!”, che significa che la vita dura poco, ma il tentativo di esistere, per noi, è un atto sempiterno.
Raphael, tu sì che sai discorrere! Non tanto quel tale, quell’Honoré, che semplicemente trascrive i tuoi pensieri!
Tu nascondi i tuoi pochi denari in mezzo a mille carte, “allo scopo di mettere fra una moneta da cento soldi e le mie fantasie la barriera spinosa di una ricerca e gli imprevisti di una circumnavigazione nella camera. Al momento di vestirmi, inseguii il mio tesoro attraverso un oceano di carta.” Ed anche: “… quanta ricchezza si portarono via i miei guanti e il mio fiacchiere; essi mangiarono il pane di tutto un mese.” (fiakier = carrozza).
Ora stai per incontrare Pandora, pardon, Fedora, donna strana e da evitare, che “… ha una memoria crudele ed è di una destrezza da far disperare un diplomatico.”
“… ella si alzò, venne verso di noi, sorrise con grazia, mi fece con voce melodiosa un complimento senza dubbio approntato…”
Con donne siffatte non si comincia mai dall’inizio, ma direttamente dalla fine.
Un esempio ristrettissimo, Raphael, della tua folle prolissità: “… il corallo intelligente delle sue labbra si animava, si spiegava, si ripiegava…”
Dopo varie situazioni (che glisso), tu dici: “Non ti dirò tutti i sarcasmi che le spiattellai ridendo”.
Al che lei: “Molte donne punirebbero la vostra impertinenza facendovi chiudere la loro porta.”
“Potete cacciarmi da casa vostra senza essere tenuta a dare il motivo della vostra serenità”, le dici, ma poi confessi che: “Dicendo ciò, mi sentivo pronto a ucciderla, se mi avesse congedato.”
Breve scambio di battute fra te e quell’algida creatura di malaffare:
“Un uomo preso dalla disperazione ha spesso assassinato la sua amante.”
Al che lei: “È meglio essere morta che infelice.”
“Ella era in piedi e mi gettava un sorriso trito, il detestabile sorriso di una statua di marmo, che sembra esprimere l’amore, ma freddo.”
Poi te ne vai, tutto solo, col cappello sgualcito e impresentabile e t’imbatti in Paolina, la pezzente, che ti vede pallido e allucinato e ti offre la panna che “era forse la sua colazione del giorno dopo, eppure l’accettai…”.
“Le nostre due fierezze si comprendevano: Paolina poteva soffrire della sua povertà e rimproverarmi la mia alterigia.”
Come la fotografi bene!: “La povera ragazza cercava di nascondere la sua gioia, ma essa scintillava nei suoi occhi.” Noti anche che “… il suo cuore batteva come quello di una giovane capinera tra le mani di un bambino”.
Pandora, pardon, Fedora ha una forza d’interazione attrattiva che la piccola non può (ancora) avere. Si tratta di due corpi dotati di una massa gravitazionale sproporzionatamente diverse. Non sono nemmeno incommensurabili. È come paragonare un fiocco di neve, un suo magico e perfetto cristallo con un ghiacciaio intero.
Si tratta però di due stelle doppie. Al decrescere dell’una, l’altra aumenta inesorabilmente.
Vai da lei. Quando ti ricordi di un appuntamento e ti appresti a salutarla, lei si limita a dirti: “Come! di già?” e tu pensi: “Ella mi amava!”.
Guadagni, chissà come, due soldi e subito ti riempi di debiti e ruzzoli nella miseria. Vai da un cugino riccastro, “che aveva troppi torti verso di me per non odiarmi”. Idiotamente lo presenti a quella misterica signorina, Pandora, pardon, Fedora, e lui, con la sua insulsa ricchezza, ti fa rimanere in un cantuccio, dov’ella manco ti nota. “Una sera ebbi il coraggio di dipingerle, con colori animati, la sua vecchiaia deserta, vuota e triste. Al cospetto di tanto spaventosa vendetta di natura ingannata, pronuncia parole atroci: ‘Avrò sempre della ricchezza, – mi rispose, – Con l’oro noi possiamo sempre crearci attorno i sentimenti che sono necessari al nostro benessere.”
Un bel giorno “Il suo volto aveva l’impronta di un fascino fuggitivo, che sembrava provare che siamo ad ogni istante degli esseri nuovi, unici, senza alcuna similitudine con il noi dell’avvenire e il noi del passato. Non l’avevo mai veduta così splendente.”
La guardai con apparente freddezza, “sedendomi accanto a lei e prendendole una mano ch’ella mi abbandonò.”
Chi sono io, chi sei tu, Raphael?
“… ottenni il favore di baciarle la mano; ella si tolse il guanto con un grazioso movimento…”
“… la mia anima si disciolse ed effuse in quel bacio…”
Amico mio: “… non accusarmi di stoltezza: se avessi voluto fare un passo più in là di quelle moine fraterne, avrei sentito gli artigli della gatta.”
“… la mia immaginazione la sposò.”
“… in quel momento, non ne volevo del suo corpo, bramavo un’anima, una vita, quella felicità ideale completa, bel sogno al quale non crediamo a lungo.”
“Non dite altro, – esclamai. – Vi amo ancora abbastanza in questo momento per uccidervi…”
“Se doveste essere di un uomo lo assassinerei.”
“Se questa promessa può consolarvi, – disse ridendo, – posso assicurarvi che non apparterrò a nessuno…”
“Ah!” – dissi sorridendo, – “sono senza dubbio ben criminale per non amarvi? È colpa mia? Non, non vi amo. Siete un uomo, ciò basta. Mi sento felice di essere sola; perché scambierei la mia vita, egoista se volete, con i capricci di un padrone? Il matrimonio è un sacramento in virtù dei quali non ci comunichiamo che dispiaceri…”; e, poi a prescindere dal resto, c’è la botta finale: “… io vi amo così poco che questa scena mi affligge spiacevolmente…”
Tra le varie altre sciocchezze che le disse (o le dicesti, o le dissi io?, Chi sono io? Chi sei tu, Raphael? Chi è lui?), questa: “Oh! vorrei poter firmare il mio amore con il mio sangue.”
“Tutti gli uomini ci dicono più o meno bene queste frasi classiche, – riprese, ridendo. – Mi pare che sia molto difficile morire ai nostri piedi, perché io incontro di codesti morti dappertutto… È mezzanotte, permettetemi di coricarmi.”
“Tu hai il presente, – esclamai, – ed io l’avvenire!”
“Il tempo è pregno della mia vendetta: esso ti apporterà la bruttezza e una morte solitaria; a me la gloria!”
“Grazie della perorazione”, disse trattenendo uno sbadiglio…
Buonanotte cara, e che ti colga il più insulso degli accidenti. Io ti amo tanto!
Mi dice il cinico Rastignac: “Ella è come tutte le donne che non possiamo avere.”
“Non si tratta più della Fedora vivente, della Fedora del Faubourg Saint-Honoré, ma della mia Fedora, di quella che sta qui!” – dissi battendomi la fronte.
“Lo stravizio è certamente un’arte come la poesia e richiede anime forti. Per coglierne i misteri, per assaporarne la bellezza, un uomo deve, in qualche modo, deve dedicare se stesso a coscienziosi studi.”
Questo è quello che mi frega: non ho voglia di far nulla di buono nella vita, se non inseguire sogni improbabili. Questa è la mia ricerca umana. E, grazie, a questo pellesco talismano, alla fine del II capitolo, succede un fatto imprevisto: nell’agosto 1828 è morto a Calcutta il maggiore O’ Flaharty, di cui io sono l’unico conosciuto erede. Sono appena sei milioni di franchi, ma penso che per alcune mie spesucce passate, presenti e future potranno bastare.
La pelle produce poco dopo un secondo miracolo: è tornato il milionario papà di Paolina. I due giovani si rivedono, Pandora, pardon, Fedora, sembra ora brutta al confronto di quel graziosissimo virgulto. I due si dichiarano il loro amore, si sposeranno una quindicina di giorni dopo questi leggiadri eventi, prima delle Idi di Marzo, e, forse, vivranno per sempre felici e contenti. Che bello!
“… mai due anime, due caratteri si erano tanto perfettamente uniti quanto essi lo furono dalla passione. Studiandosi, si amarono di più; da ambedue le parti la stessa delicatezza, lo stesso pudore, la stessa voluttà, la più dolce di tutte voluttà, quella degli angeli; nessuna nube nel loro cielo; di volta in volta i desideri dell’uno facevano la legge dell’altro. Ricchi entrambi non conoscevano capricci che non potessero soddisfare e pertanto non avevano affatto capricci.”
Che bello!
“Raphael aveva dimenticato il suo giornale, Paolina l’afferrò, lo spiegazzò, ne fece una palla, lo lanciò nel giardino e il gatto rincorse la politica che girava, come sempre, su se stessa.”
Sempre più bello!
Ma, attenzione: “… il giardiniere mostrava a Raphael l’inesorabile Pelle di zigrino che non aveva sei pollici quadrati di superficie.”
Raphael sta male, deve andare a curarsi, deve abbandonare il suo amore. Se ne va via, lontano da tutto e da tutti, presente solo a se stesso. Il mondo gli scivola addosso. Ogni cosa che gli accade è come se non lo riguardasse. Affronta in un duello un povero tapino. Spara a caso e lo colpisce al cuore. La pelle si restringe sempre di più. Non si può vivere senza desiderare. Ad ogni desiderio la fogliolina si rimpicciolisce. La pelle è come se evaporasse. Paolina ritrova l’amato. È un po’ tardi, però. Esamina “il volto del suo amante e l’ultima particella della Pelle magica…”
Non voglio essere ingiusto con te, Raphael. Tu cerchi, goffamente, di essere, ma sei ancora troppo avido e bisognoso di avere. Tutto lì.
Il finale è rocambolesco: Paolina ha risvegliato la tua brama, Raphael e, consapevole del pericolo che tu corri a causa sua, fugge “nel salotto vicino” e richiude la porta dietro di sé. Raphael, tu sei pazzo di desiderio. Lei capisce che solo uccidendosi può ritardare la tua morte, ma tu, sconnesso definitivamente dalla tua coscienza, con un impeto miracoloso e tragico al contempo, riesci a schiantare la porta. In tempo per vedere la tua amata “seminuda, rotolarsi su un divano.”.
“Il moribondo cercò delle parole per esprimere il desiderio che divorava tutte le sue forze…”
“… non potendo più formare alcun suono, morse Paolina al seno…”
Il servo Gionata “tentò di strappare alla fanciulla il cadavere sul quale ella si era rannicchiata in un angolo…”
“Che volete da me – ella disse. – Ella è mio, l’ho ucciso io, non l’avevo forse predetto?”
Ci sarebbe stata un’alternativa a tanto scempio.
Rinunciare a una vita trainata dai desideri e tentare di costruire con le proprie mani una realtà.
Una qualsiasi, ma non a scelta dell’individuo, bensì della società, questo mostro zannuto.
E occorre, a quel punto, lavorare senza se e senza ma.
Produrre febbrilmente per alcuni decenni.
Indefessamente.
Essere una ruota nell’ingranaggio del progresso.
Rinunciare all’Eros, inseguendo la meretrice di Babilonia, la civiltà (con tutte le sue mistificazioni scientifiche, tecniche, falsamente filosofiche che da tali intenti derivano).
Brigare come dei matti per cinquant’anni.
E poi andare in pensione.
E godersi gli ultimi lustri, passando a visionare, uno appresso all’altro, diversi cantieri edili.
Mano nella mano, fratello di chi è stato per anni recluso insieme a te.
Ti va di giocare all’uomo civile, Raphael?
No! Sarebbe peggio che morire!
Quindi, mio solidale, credimi, per te è stato un bene crepare in siffatta giovane età.
Puro e incontaminato.
Ed ora… Avanti il prossimo! – mi verrebbe da dire.
Se qualcuno ha il coraggio di desiderare il mondo intero, senza dare nulla in cambio, se non se stesso, si appressi pure.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Honoré de Balzac, La pelle di zigrino, De Agostini, 1983