“Cime tempestose” di Emily Brontë: una tragedia moderna
Il romanzo è sviscerato nell’ottima prefazione di Georges Bataille, il quale prende spunto da un’altrettanto acuta analisi di Jacques Blondel. Dopo di essa, come posso io commentare ora l’opera maggiore di Emily? Dicendo la mia? Ci provo.
Inizio a farlo citando entrambi gli scrittori: “Infine questo accordo intimo fra la trasgressione della legge morale e l’ipermorale è il significato ultimo di Wuthering Heights.”
“… È vero che il Male considerato come forza di attrazione disinteressata verso la morte differisce dal Male che coincide con l’interesse egoistico. L’azione criminale ‘turpe’ si oppone a quella ‘passionale’. La legge le condanna ambedue: ma la letteratura più umana è l’alto luogo della passione. Ciò non impedisce che la passione sia maledetta: soltanto una ‘parte maledetta’ è riservata a ciò che, in una vita umana, è più carico di significato. La maledizione è la via meno illusoria della benedizione.”
Poco fa, Georges tracciava un’analogia fra Justine di Sade e Cime Tempestose, citando Blondel che, a sua volta citava due frasi dei due libri:
“Che azione voluttuosa la distruzione! Non ne conosco altre che solletichino in modo più delizioso: non c’è estasi paragonabile a quella che si prova quando ci si abbandona a questa divina infamia.” (Justine)
“Se fossi nato in un paese in cui le leggi sono meno rigorose e i gusti meno delicati, mi concederei la gioia di procedere a una lenta vivisezione di questi due esseri, per passare una serata divertente.” (Cime tempestose)
Il primo è un libro notevole che prima o poi leggerò. Il secondo è uno che, ora, mi appresto a leggere. Lessi anche Le 120 giornate di Sodoma. Si tratta del lavoro più grande di Sade, fortunatamente incompiuto. Non sono contento né infelice per averlo letto. So di aver sofferto, con l’unica consolazione che una volta terminato di farlo, lo avrei sistemato per sempre in quell’ergastolo ligneo che è la mia disordinatissima e infame libreria, vera colonia penale per disadattati.
Un’amenità è che il tempo in letteratura ha un doppio e spesso ambiguo verso: per cui il prima e il dopo si confondono. Qualche mese fa tracannai Dracula di Bram Stoker. La rappresentazione che l’io narrante fa dell’incontro di Heathcliff (che vuol dire “Scoglierabrughiera”) pare copiata da quella che il primo io narrante, Jonathan Hark fa con quella del suo primo impatto col conte rumeno. Non dico che siano usate le stesse parole, né intendo paragonare la descrizione fisica, bensì quella psicologica e ambientale. Il problema è che il libro che stai leggendo è stato scritto circa mezzo secolo prima dell’altro. Poco importa: “Ogni scrittore crea i suoi predecessori” (Borges).
Tutto inizia quando viene trovato per strada “un ragazzetto sporco, cencioso, nero di capelli; grande abbastanza per poter parlare e camminare.”
Ora, invece, capita che un io narrante di nome Lockwood abbia preso in affitto Trushcross Grange e che ora si rechi a trovare il vicino di casa, a Wuthering Heights: qui s’imbatte n un torvo proprietario, di nome Heathcliff, che convive con due servi, un strano ragazzo, che pare e forse è un domestico, di nome Hareton, e una giovane ragazza di nome Catherine, con “un delizioso visino”, ma decisamente aspra e inquietante.
Heathcliff è un trovatello, forse di origine gitana: “… trovai che l’avevano battezzato Heathcliff: era il nome di un loro figlio morto piccino”. A parlare è la signora Ellen (Nelly) Dean, io narrante del tempo che fu, scelta come tale dall’io narrante titolare, il signor Lockwood. La di lei funzione è quella di narrare con dovizia di particolari una storia tanto lontana quanto vicina, tanto affascinante quanto nefasta. Di fatto ella diventa immediatamente l’io narrante principale.
Il ragazzo è adottato dal vecchio signor Earnshaw, padre di Hindley e di Catherine. Hindley, appena lo conosce, l’odia e inizia a maltrattarlo. Quando il padre muore, Hindley lo riduce come l’infimo dei servi, tentando in ogni modo di abbruttirne il carattere e l’aspetto esteriore. Catherine da subito lo ama, lo segue e diventa sua intima amica. Il loro legame si consolida sempre di più, rimanendo inalterato anche quando la ragazza si allontana per un breve periodo da Wuthering Heights. Nonostante quel loro assurdo sentimento, Catherine si fidanza con Edgar, suo amico d’infanzia. Interessante il dialogo fra la signora Dean e Catherine:
“Intanto, e prima di tutto, lei lo ama il signor Edgar?”
“E come si fa a non amarlo? Certo, lo amo!”
Più tardi ammette:
“… ora sarebbe una degradazione per me sposare Heathcliff: e così egli non saprà mai quanto io lo ami; e ciò non perché sia bello, Nelly, ma perché lui è più me di me stessa. Di qualunque cosa siano fatte le anime, certo la sua e la mia sono simili: e quella di Linton è invece tanto differente dalla nostra quanto lo è il lume da un lampo, o il ghiaccio dal fuoco.”
La spiegazione vera è solo posticipata:
“Ma non t’è mai venuto in mente che, se io e Heathcliff ci sposassimo, saremmo dei pezzenti? Mentre, se sposo Linton, potrò poi aiutare Heathcliff ad elevarsi, potrò sottrarlo al potere di mio fratello.”
La verità, per quanto impossibile, è una sola:
“… io sono Heathcliff! Egli è stato sempre, sempre nel mio spirito, non come un piacere, allo stesso modo che io non sono sempre un piacere per me stessa, ma come il mio proprio essere. Così non parlare più di separazione: ciò è impossibile e…” (i puntini finali sono nel testo originale).
Heathcliff nel frattempo, dopo chissà quali vicende, è tornato ricchissimo e ora si può permettere di vendicarsi, schiacciando sotto il suo bieco tallone un Hindley ormai misero e beone. Il quale lo odia, e lo vorrebbe morto, ma non può fargli più alcun male, essendo questi ormai troppo potente per lui, che si comporta da padrone, mentre è solo un ospite che riesce però, giocando a carte con lui, a depredare i suoi ultimi beni.
Isabelle, la sorella del marito di Catherine così apostrofa la cognata: “Tu sei di un egoismo spaventoso, Cathy, e vuoi essere la sola ad essere amata.” E confessa il suo amore per Heathcliff. Catherine la avverte (irridendola), definendo Heathcliff “un’arida distesa di sterpi e di pietre” e “un uomo feroce e senza pietà, simile a un lupo.”
Non lo censura se vuole accanirsi contro qualcuno, adducendo motivi etici, bensì gli potrebbe dire soltanto: “Lascialo in pace perché io non voglio che gli succeda nulla di male.” La parola più importante in tutto il discorso è io.
Sapendo del suo disgraziato amore, Heathcliff fissa Isabelle “come si potrebbe fare con un animale strano e repulsivo: una scolopendra indiana…”, ma poi: “… credendo di non esser visto, il briccone ebbe l’impudenza di abbracciar la fanciulla e di baciarla…”
E il lestofante dice poi a Catherine: “Io non sono tuo marito, e tu non hai di che essere gelosa di me.” Al che: “Io non sono gelosa di te – rispose la padrona. – Io sono gelosa per te.”
Nelly definisce Isabelle “la pecorella smarrita” e Heathcliff “una malvagia bestia” che aspetta solo “il momento di assalirla e sbranarla.” Heathcliff è così definito dalla sua alleata e solidale Catherine: “ingrata bestiaccia”, per il di lei e geloso marito è un “farabutto” e “un veleno mortale, che contaminerebbe anche le persone più virtuose”, “dall’indole spregevole e bassa”; mentre per la saggia e ciarliera Nelly è soltanto un “volgare farabutto”.
Edgar Linton le impone di scegliere fra lui e Heathcliff. Lei non vuole rispondere, ma dice soltanto: “Lo voglio. Non vedi che posso appena stare in piedi! Edgar, lasciami, lasciami!”
All’inizio del capitolo XII, secondo il racconto di Nelly, Catherine ha assunto un aspetto “spettrale” e qui il lettore ricorda l’episodio dello spettro di donna che, a metà del III, urlava al signor Lockwood: “Lasciatemi entrare!” e poi: “Son vent’anni – si lamentò la voce – vent’anni. Sono stata derelitta per venti anni.” Ancora in vita, Catherine ora grida: “… possono farmi crollare la chiesa sopra, ma io non avrò mai riposo finché tu non sarai con me. Mai! Mai!” In questo punto della sua vita, Catherine ha un solo tu e un solo io, un solo noi: lei e Heathcliff. Tutto il resto del mondo appartiene a un’altra, ostile e aliena, anima.
Una frase di Catherine, la pagina seguente, mi colpisce: “Io pensavo che tutti, sebbene si odino e si disprezzino tra loro, tutti dovessero amarmi.” L’altra parte di quel mistico sé, il signor Heathcliff, non avrebbe mai formulato tale ragionamento. Le due parti sono pertanto sì eguali, ma di segno opposto.
Nel successivo colloquio fra Nelly e il Bieco (così, per comodità, d’ora in poi chiamerò Heathcliff) riporto solo due frasi di quest’ultimo: “Il cuore di Catherine è profondo come il mio!” e, poi parlando del rapporto tra la sua amata e il di lei coniuge: “… come potrebbe ella amare in lui quel che non c’è?”
Il Bieco parla a Nelly della sua mogliettina (che è presente): “La prima cosa che mi vide fare, quando uscimmo dalla Grange, fu quella di impiccare la sua cagnetta…”, “… la noia che mi procura la sua presenza è più forte del piacere che provo nel tormentarla.” Saggia e spontanea com’è, Nelly non può che dire: “… questo è il discorso di un mentecatto…”. Interviene nell’amena conversazione la povera Isabelle: “… dice che mi ha sposato per avere un potere su di lui…” (alludendo a suo fratello, marito di Catherine).
Stanco di siffatte banalità, il Bieco scaccia dalla stanza la consorte: “La prese, la gettò fuori dalla stanza…”, dicendo: “Nessuna pietà! Nessuna pietà! Più i vermi si dibattono, e più cresce la mia voglia di schiacciarli! È una specie di dentizione morale. Mordo con maggior energia, quanto più cresce il dolore!”
Comincio a pensare che a Emily non fosse ignota l’ignobile lezione del Marchese de Sade. Anche se il Bieco ha uno scopo unico nella vita, convivere con un essere, e uno solo, ma umano; l’orrendo protagonista delle 120 giornate di Sodoma, mi parrebbe di no (l’opera è però, per immensa fortuna del genere umano, rimasta incompleta).
Con la complicità forzata di Nelly, il Bieco incontra la sua sofferente innamorata. È una delusione per il Bieco, la Sofferente e il sottoscritto. I due piccioncini si accusano a vicenda e piangono insieme, facendo pena all’unisono. Fatico a voler loro bene, ma anche ad odiarli. Una parte miserrima di me forse gode nel vedere quei due casi umani così infelici. Ben gli sta, mi viene da dire. Lei ha sposato un uomo ricco, piuttosto che il Bieco povero, costui si accoppia, ma solo per recarle male, con la sorella del marito della sua innamorata. Ora si ritrovano e si producono del male. Dice Nelly: “Quei due esseri, per uno spettatore calmo, formavano uno spettacolo stanco e terribile.” Catherine già si vede morta e predice la di lui presta dimenticanza di lei, favorito da e con altre donne. Forse, dopo la sua, pur tardiva (rispetto a quella di lei), morte, forse, dicevo, i due finalmente si potranno ricongiungere, anche se lui, morendo, rimpiangerà le altre sue future compagne. Paiono come un marito e una moglie, ormai incancreniti ognuno sulla gobba dell’altro. Mi aspetto di più da una come te, Emily, ti prego, non deludermi.
In una stretta, preso da ambascia, tento un’interpretazione fisica. Le due particelle, pur di segno opposto, sono entangled: pur lontane, vivono l’una in correlazione con l’altra: se una gira a destra, l’altra svolta (immediatamente!) a sinistra. No, non può essere: tali esserini non bisticciano fra loro, poiché manco si vedono mai. Forse sono due grumi di materia e antimateria che, incontrandosi, si annullano all’istante, reciprocamente, producendo un quanto di luce. Macché! Intanto solo una sta scomparendo (oltretutto lentamente) e poi con quei due in scena ogni cosa s’oscura, altro che storie! Forse il Bieco è un buco nero, sì, ci può anche stare, ché distrugge e ingoia ogni cosa e chicchessia, però… né la sua donna, né la saggia Nelly cadono in quel vortice. Anzi, talvolta ci cascano, è vero, ma ne riemergono inevitabilmente poco dopo.
Il Bieco mi pare, semplicemente, una tempesta a secco, che tutto travolge e rovina. Questa è forse la sua descrizione più efficace. Catherine è un astro che declina, una piccola luna ridotta ora a un misero quarto e che presto scomparirà dalla vista di ognuno di noi.
“Verso la mezzanotte di quella stessa notte venne alla luce…” una nuova più piccola particella di nome Catherine, grazie al dileguarsi della particella madre di egual nome, e la conseguente produzione di quell’energia che si rende necessaria anche per produrre “l’immobilità disfatta di lui”, l’inconsolabile Edgar, che si contrappone “a quella di lei, l’immobilità della perfetta pace”.
E il Bieco che dice?, se non: “Possa svegliarsi fa i tormenti!” aggiungendo, più bonariamente: “Catherine Earnshaw, possa tu non trovar mai riposo fin ch’io vivo! Tu dici che io ti ho uccisa: tormentami, allora!”, e, infine, concludendo: “Sta’ sempre con me… prendi qualunque forma… rendimi pazzo. Ma non lasciarmi in quest’abisso, dove non ti posso trovare! Oh Dio, è impossibile! Non posso vivere senza la mia vita, non posso vivere senza la mia anima!”
Quindi questo presunto Bieco Sadico-Anaffettivo crede in Dio (non si sa di quale genia)! E anche nell’anima! E, al contempo, invoca gli spettri!
C’è qualcosa che non torna. Le cose ridondano un po’. Ma aspetto a giudicare.
In un intanto che dura una dozzina d’anni muore anche Isabelle, mentre il figlio avuto con il Bieco, di nome Linton, cresce malaticcio e sbarca prima dallo zio e poi dal padre. E, poco dopo, tira le cuoia anche Hindley Earnshaw, fratello di Catherine e padre di Hareton. Mentre m’interrogo sulla variegata serie di atti necessari per concepire Linton, Cathy e quest’ultimo, noto un improvviso abbassamento di tensione nel romanzo. Il Bieco si accaparra il suo poco amato piccolo e, pur acerbo nei modi, sembra non terrorizzare più. Che sia una finta? Pare che si limiti soltanto a inquietare notevolmente. Ora suo scopo vitale è far sposare il figlio con la nipotina. La tensione cresce all’improvviso, quando il Bieco sequestra Cathy e Nelly, mentre Edgar Linton si aggrava, morendo giusto in tempo per rivedere per l’ultima volta la figlia. Ora il Bieco è il padrone di tutto, tranne che dell’anima di queste due donne. Queste sono le uniche che egli non riesce a piegare alla sua volontà. Il figlio Linton è ormai una larva d’uomo, vile, senza più dignità né consistenza. Cathy getta in faccia al Bieco la verità: “Tu non hai nessuno che ti ami…” e “Tu sei infelice, non è vero? Solo, come il diavolo, e invidioso come lui! Nessuno ti ama, nessuno piangerà quando morrai! Non vorrei essere al suo posto!” Il Bieco fa la mossa d’arrabbiarsi e le intima di fare fagotto, minacciandola con più che nera indifferenza.
Ora che la vittoria del Bieco è perfetta, egli non può che dire: “ho sognato che dormivo il mio ultimo sonno vicino a lei, con il mio cuore immobile contro il suo, e la mia guancia gelata contro la sua.” Quella della sua unica Catherine, ovviamente.
“E se l’avesse ritrovata già dissolta in polvere, o peggio… di che cosa si sarebbe sognato?” – domanda Nelly.
“Di dissolvermi con lei, e d’essere ancora più felice! – rispose”
Ora che Catherine ha sposato il quasi trapassato Linton, quando la moglie invoca per lui un medico, la risposta del Bieco non si fa attendere: “… la sua vita non vale un quattrino, e io non spenderò un quattrino per lui.”
Solo l’Essere che fu e che stranamente è ancora il Bieco ama e da questi egli si sente riamato.
Fa specie che l’unico essere umano interessato a tentare di salvare il giovane sia la disperatissima moglie Cathy, quando la stessa Nelly, solitamente così umana, se ne lava le mani, dicendo che a pensare a quell’essere insopportabile deve pensarci solo il padre, il Bieco, che è indifferente alle sorti umane in genere. Il figlio, poco prima di morire, firma forzatamente un testamento in cui tutto quanto gli appartiene, compreso le proprietà già appartenenti a Cathy, trasmigrano al Bieco Profittatore.
Ancor di più dopo la morte del giovane e miserando marito, Cathy mostra di non aver nessun rispetto né timore del Bieco, che si adombra del fatto, non essendoci abituato. Le dice, vedendola sghignazzare alla faccia sua: “Che razza di demonio c’è, in te, che mi guarda sempre con quegli occhi d’inferno? Abbassali subito, e cerca di non farmi più ricordare che sei al mondo. Credevo di averti tolta per sempre la voglia di ridere.” Emily sa definire al meglio la ragazza: “indomabile creatura”, la quale, davanti all’espressione dell’Odioso e Infame Bieco, sa così apostrofarlo: “Se tu mi picchi, Hareton picchierà te, – diss’ella – dunque faresti meglio a star seduto.” Il furore del Bieco era sorto in seguito alle accuse di lei di aver depredato le sue ricchezze e quelle del cugino. Il Bieco quasi si confonde, adirandosi. Ma le polveri del suo sadismo si stanno raffreddando: sta per battere la ragazza, poi però si trattiene, limitandosi a minacciarla, con voce volutamente calma: “Bisogna che tu impari a evitare di suscitare la mia collera. Altrimenti qualche volta ti ammazzerò davvero.”
I due cuginetti ora si vogliono bene e Cathy aiuta il tapino a crescere intellettualmente e moralmente. La cosa disgusta un po’ il Bieco, ma relativamente, perché ormai il suo fato si sta profilando all’orizzonte.
Il Bieco sta diventando quello che non è mai stato: depresso. Manca ormai di volontà, sia di demolire cose, che di maltrattare i discendenti dei suoi nemici: “Ho perduto la facoltà di godere della loro distruzione, e sono troppo pigro per distruggere senza motivo.” L’entropia sta disperdendo tutta la sua energia. Si confida con Nelly: lei gli reca fastidio, lui lo turba in modo diverso. Le chiede però di tenere per sé la confidenza, il fatto è che: “il mio spirito è stato così eternamente rinchiuso in se stesso che è tentante, infime a rivelarlo a un estraneo.” Si rende infine quasi umano, quando parla del figlio del suo peggior nemico, di colui che, con le sue angherie, gli ha ucciso ogni virtù. Lo strano sentimento per Hareton è la sua prima e forse ultima emozione virtuosa e disinteressata: “Il mondo intero è una terribile collezione di ricordi, testimoniante ch’Ella è esistita e ch’io l’ho perduta! Ebbene, poco fa, era per me il fantasma del mio amore immortale, dei miei sforzi selvaggi per far valere il mio diritto: della mia degradazione, del mio orgoglio, della mia felicità, della mia angoscia…”
Ormai il Bieco è vittima indifferente di quel gran mistero che è la forza inerziale e parrebbe che il fenomeno a lui sotteso sia una conferma di quel che si sa: massa inerziale e gravitazionale coincidono, ahimè, anche troppo perfettamente. Quando sei sul pullman che ti conduce ad Amalfi e l’autista frena di botto, tu vuoi proseguire verso la tua meta e caschi addosso al compagno d’avventura ch’è più appresso a te. Nel caso del Bieco Sofferente, non si tratta della più antica Repubblica Marinara, ma di quel Buco Nero Ordinatissimo a cui egli si sa destinato, ma di cui non riesce affatto a preoccuparsi.
Il carattere rimane però quello di sempre: “… quanto poi al pentirmi delle mie ingiustizie, io non ne ho commesso alcuna, e non mi pento di nulla.”
Heathcliff è finalmente morto. Lo scopre Nelly: “… i suoi occhi incontrarono i miei…così penetranti e fieri che trasalii; sembrava, anche, che sorridesse…” Solo Hareton ne è davvero addolorato. Lo piange e veglia tutta la notte. E gli accarezza le mani e lo bacia.
Il finale del libro è molto bello: “… ascoltavo il soffice vento frusciante tra la verzura, e mi domandavo stupito come mai, come mai qualcuno potesse fantasticare d’inquieti sonni, per coloro che dormivano in quella terra tranquilla.”
Lasciamo perdere se Heathcliff, prima di spegnersi, assomigliasse o no a uno spettro e che a un moccioso parve di vederlo, dopo ch’era morto, accompagnato a una donna.
Voglio capire l’etica sottesa al libro. Il signor Earnshaw, amava i suoi figli Hindley e Catherine e voleva bene al piccolo e nero bimbetto che chiamò come un suo terzo figlio morto piccolissimo. Hindley odiò e perseguitò Heathcliff finché ne fu in grado. Heathcliff gli ricambiò il sentimento e il trattamento. Catherine viveva per lui, anzi, era lui. Lui non era lei, ma la pretendeva più del resto del cosmo, per cui lui odiò Edgar, che la sposò, e il frutto del loro matrimonio: Cathy, che gli restituiva pari pari l’odio. Linton era troppo debilitato per odiare qualcuno, ma temeva tutti e nessuno sapeva renderlo felice, nemmeno chi gli voleva bene, come Cathy. Edgar amava le due Catherine come se stesso e voleva bene al nipote. Odiava Heathcliff, il quale a sua volta per lunghi anni, senza alcun apparente sentimento, maltrattò Hareton, che invece lo amava come si fa con un padre, sia pure dal carattere impossibile. Lui e lei (gli unici sopravvissuti) alla fine coronano un amore che parve fin dall’inizio assai improbabile. Tutti questi fantastici sentimenti hanno prodotto un’energia fenomenale. Alla fine essa è scemata, quando non serviva più.
La morale (umana) è questa: non c’è nulla di più incerto e mutevole. Essa soggiace al principio d’indeterminazione di Heisenberg: ogni sua osservazione ne muta lo stato.
Conclusione: chi ha dato (tutti) ha dato e chi ha avuto (Cathy e Hareton) ha infine avuto.
Il tranquillo e direi quasi tetragono signor Lockwood, alla fine della fiera, non fa null’altro che prendere atto che la tragedia è, una tantum, finita.
Ite.
Written by Stefano Pioli
Bibliografia
Emily Brontë, Cime tempestose, Rizzoli