“Le voci di dentro. Le tre vite di Lucia Stella e altri racconti” di Rosa Pierro: quando a parlare è il nostro passato
“Sarebbe voluta nascere più tardi, Caterina, quando il mondo già consentiva alle donne di trasgredire un destino preordinato per crearsene uno loro, scegliendo altre vie e percorrendo altre strade; le era toccato, però, di vedere la luce in quello sperduto angolo di universo, in un’epoca in cui le donne non avevano altro modo di fuggire da una prigionia se non quello di procurarsene un’altra e, così, si era rassegnata a quel vivere in sordina, lontana dai sogni e dai desideri che sempre l’avevano animata”.
Caterina è uno dei numerosi personaggi che popolano il primo libro di Rosa Pierro, una raccolta di racconti attraverso i quali l’autrice delinea il profilo di un mondo antico, lontano nel tempo ma a volte ancora troppo vicino nell’essenza sociale, una carrellata di protagonisti che si muovono in una cornice storica e sociale che ripercorre l’Italia dagli inizi del Novecento fin quasi alla fine del secolo, con tutte le dolorose vicende delle due grandi guerre, dell’intermezzo buio del ventennio fascista, e poi gli anni del boom economico che però in alcune latitudini della penisola è rimasto solo un accenno.
“Le voci di dentro. Le tre vite di Lucia Stella e altri racconti”, pubblicato da Masciulli Edizioni, è un libro che cattura per lo stile narrativo: la penna della Pierro scorre leggera ma mai superficiale, anzi, la leggerezza diventa chiave di volta per affrontare temi scottanti, dove dolore, sofferenze, soprusi e a volte riscatti si intrecciano indissolubilmente.
Il linguaggio è ricercato, quasi a contrapporsi alla semplicità delle vite narrate: i personaggi appartengono prevalentemente al mondo rurale e contadino dell’Italia meridionale, terra di origine dell’autrice.
Ceti bassi che lottano quotidianamente contro le ingiustizie dei signori, subendo le loro angherie, ma trovando, in alcuni casi, la forza per riscattarsi. Come nel racconto “La rivincita dei cafoni”.
“Comodamente seduti sulle poltroncine del Circolo della Nobiltà, messe fuori per far godere alle signorie la frescura del tramonto settembrino, i padroni si gustavano, con occhi ironici e beffardi, la sfilata dei loro cafoni”.
In quel settembre del 1943 i cafoni Giovanni, Peppino e gli altri riuscirono a ribaltare la loro situazione di subalternità ai padroni, facendo in modo che fossero questi ultimi a piegarsi agli ordini perentori del comando tedesco.
Il tema del riscatto torna più volte nei racconti che animano questo libro, soprattutto per i personaggi femminili. Le donne che incontriamo in queste pagine vivono in una situazione di subalternità, di sottomissione al maschio, in un modello sociale patriarcale profondamente radicato nel mezzogiorno d’Italia.
Il loro compito è relegato alla vita domestica, alla funzione genitrice, alla cura dei parenti anziani e al duro lavoro nei campi. Ma sempre senza potere decisionale. Sono sempre i maschi della famiglia a dettare le regole. E laddove si accende un barlume di rivolta, risponde la cieca violenza fisica. Eppure c’è chi trova la strada per riscattarsi, per alzare la testa e guadagnarsi un rispetto impensato.
“Quella notte Teresa scoprì l’esistenza del mercato nero e capì la grande possibilità di ricchezza che esso offriva; si lasciò corrompere dalla sete di vendetta nei confronti della sorte che le era toccata sino ad allora e accettò di entrare in quel gioco”.
È un riscatto perfido quello di Teresa, un rispetto che nasce dal sopruso, ma è la sua risposta alle umiliazioni e alle sofferenze che la vita le aveva riservato da sempre, vittima anche lei di quel potere maschile, misto al sopruso nobiliare, che l’aveva sfruttata e abbandonata ancora giovanissima.
È un riscatto senza rimpianti quello di Teresa, il suo animo è troppo inaridito per provare compassione per le sue vittime, il suo cuore indurito per lasciare entrare e crescere il germe della pietas umana. Lei ne è consapevole, come testimoniano le ultime parole pronunciate sul letto di morte “Sono Teresa: madre per errore, sposa per dolore, usuraia per rancore”.
Ancora il dolore delle donne diventa protagonista nel racconto che dà il titolo all’intera raccolta “Le tre vite di Lucia Stella”. Una donna, Lucia, divenuta adulta troppo presto, che non si è mai arresa alle intemperie della vita, una vita che, tra gli altri, gli ha dato di vivere il dolore più grande per una madre, la perdita di suo figlio “La mattina in cui Lucia aveva perso il suo bambino, le era parso che l’intero mondo si fosse fermato: nessun suono le giungeva dalla strada né canto di uccello dal cielo rilassato; solo il campanile ogni tanto, timido, rintoccava per avvertire che il tempo, muto, era ugualmente passato”.
Questo piccolo ma prezioso libro ci regala altri cammei interessanti, che ci riportano a un tempo che fu, come il rito del malocchio “Maria era una delle ultime eredi di quei tempi in cui si scacciava il malocchio con acqua salata e preghiere e già da qualche anno, nella notte a cavallo tra l’uno e il due di novembre, quando i Santi lasciavano il passo ai Morti e questi uscivano dalle tombe per sfilare in processione, cercava, tra tutte, l’anima di suo figlio, riflessa nell’acqua del bacile sotto il tremulo lume della candela”.
Rituali antichi che perpetuano credenze popolari radicate nei contesti sociali raccontati dalla Pierro in questa sua opera prima, con la capacità di rendere il lettore partecipe di un mondo ormai quasi scomparso, dimenticato fra le stridenti pieghe della tecnologia, della corsa contro il tempo, dell’indifferenza e della solitudine cibernetica.
Quello che ci racconta Rosa Pierro è invece un mondo dove, nonostante le sofferenze legate alla precarietà della quotidianità, alle fatiche del lavoro manuale, ai rapporti familiari basati sulla forza e quasi mai sul rispetto reciproco, ebbene è un mondo che conserva una sua umanità, una sua forza di coesione sociale che ai giorni nostri appare sbiadita, dai contorni incerti e spesso lacerata nelle pieghe dell’individualismo imperante.
Il tempo che ci viene raccontato in queste pagine era fatto di condivisione, di altruismo, di rispetto, certo anche di invidie e malelingue, ma comunque decifrava un contesto sociale identitario.
Un contesto nel quale l’autrice si riconosce e si palesa al lettore, mai rinnegando le radici che la riportano al Sud e a quella casa lasciata ma mai abbandonata “Ovunque il vivere mi abbia portata, ho sempre pensato a quella mia casa con occhi incantati e sempre, prepotente, mi ha preso il desiderio della quiete che in essa abitava: sogno, ancora, di farvi ritorno, fosse anche dopo la morte, se mai mi toccasse un paradiso come premio a questo mio errare”.
Written by Beatrice Tauro