Le métier de la critique: Cesare Pavese, vittima del disagio esistenziale

“Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi”.

Cesare Pavese
Cesare Pavese

Appartenente alla corrente del Neorealismo, Cesare Pavese occupa un posto di rilievo nel panorama letterario del Novecento. Ascritto tra i maggiori interpreti del XX secolo lo si ricorda come poeta, traduttore e scrittore, oltre che critico letterario.

Ma la sua produzione artistica non appartiene soltanto al secolo in cui è vissuto. Perché figura che incarna modelli letterari fruibili ancora oggi, superato l’anno Duemila.

È il 1908 quando Cesare Pavese vede la luce a Santo Stefano Belbo, paese delle Langhe in provincia di Cuneo. Per l’autore le Langhe sono un universo geografico e dell’anima intriso di ricordi, sono luoghi che sempre rimpiangerà in quanto simbolo di serenità e spensieratezza. Idealizzati, saranno parte integrante della sua opera.

Ben presto la sua famiglia si trasferisce a Torino, città nella quale Pavese trascorre l’infanzia e la giovinezza. Ma la sua infanzia è malinconica, perché dopo un breve periodo di permanenza nel capoluogo piemontese suo padre muore. Episodio che incide molto sull’indole del ragazzo, il quale già denota la tendenza a essere taciturno ed introverso.

Un’inclinazione alla solitudine che si manifesta fin dall’età adolescenziale. Spesso il giovane ama rifugiarsi nei libri e vivere a contatto con la natura, a differenza dei rapporti umani da lui vissuti con difficoltà.

Rimasto solo con la madre, che si rifugia nel suo dolore e non mostra al figlio alcuna affettuosità, semmai una sorta di ritrosia e distacco, lo scrittore tende ad alienarsi dalla realtà che lo circonda.

Nonostante per lui si preannunci un ampio malessere esistenziale, porta avanti i suoi studi con impegno e passione, assumendo a modello letterario il suo professore di liceo Augusto Monti, figura di grande prestigio della Torino antifascista e riferimento per gli intellettuali torinesi dell’epoca.

Nel 1932 discute la tesi di laurea in letteratura, il cui soggetto è il poeta Walt Withman. 

Dopo di che inizia il suo percorso professionale dedicandosi all’insegnamento, che purtroppo s’interrompe precocemente perché sprovvisto della tessera del Partito Fascista, di cui mai entrerà in possesso. Lo scrittore, infatti, da un punto di vista ideologico è antifascista, nonostante non abbia mai imbracciato un fucile.

“Se è vero che ci si abitua al dolore, come mai con l’andar degli anni si soffre sempre di più?” – Cesare Pavese

Traduttore validissimo dei grandi romanzieri inglesi e nordamericani trova in quest’attività ciò che non ha potuto concretizzare con l’insegnamento: trasferire le proprie esperienze culturali alle nuove generazioni.

Oltre che a dar sfogo alla propria creatività, la quale si coniuga in una vena narrativa di ampia tradizione letteraria, che si rivelerà in tutta la sua interezza nelle sue opere.

Dopo l’arresto di Leone Ginzburg, celebre intellettuale avverso al regime, nel 1934 diviene direttore della rivista “Cultura”. Ma l’anno successivo, anch’esso viene arrestato e condannato al confino perché accusato di svolgere attività antifasciste.

Brancaleone Calabro è la destinazione dove trascorre il suo periodo di detenzione, un anno lontano da casa che comunque sarà un periodo proficuo, in quanto riceverà una nuova spinta per proseguire nella sua attività di scrittore.

Ed è proprio durante la sua permanenza che inizia a scrivere il diario “Il mestiere di vivere”, che vedrà la pubblicazione in un momento successivo.

Tornato a Torino, nel 1936 pubblica la sua prima raccolta di versi “Lavorare stanca”, quasi ignorata dalla critica, mentre porta avanti il suo lavoro di traduttore, che si focalizza ancora su scrittori inglesi e americani, e collabora attivamente con la casa editrice Einaudi.

Cesare Pavese
Cesare Pavese

Ma, da un punto di vista emotivo è un periodo difficile per Pavese, che ha un tracollo sentimentale quando scopre che la donna di cui era innamorato gli ha preferito un altro uomo, sposandolo. Ed è forse la prima occasione in cui lo scrittore pensa al suicidio.

Nel periodo compreso tra il 1936 e il 1949 la produzione letteraria di Pavese è vasta e ricca, e le sue prose vengono accolte con un ampio consenso di pubblico e di critica. Nel 1941 viene pubblicato il romanzo “Paesi tuoi”, che gli porta un ampio successo, e successivamente prende vita una raccolta di racconti di cui fanno parte “La bella estate”, “La spiaggia”

Durante il conflitto bellico, che vede l’Italia partecipare alla Seconda guerra mondiale, lo scrittore si nasconde a casa della sorella Maria, a Serralunga, il cui ricordo è descritto e ben esplicitato ne “La casa in collina”.

Ed è luogo che lo porta a profonde riflessioni, soprattutto sul senso della vita, oltre che sulla propria esistenza. Il cui bilancio non sarà però positivo, perché afflitto da una profonda solitudine che lo spinge a chiudersi in se stesso e a un raccoglimento esistenziale che non gli è favorevole.

È questo un periodo in cui si evidenziano maggiormente le sue personali difficoltà comunicative, oltre che ad avvertire un senso di vuoto e di emarginazione, caratteristiche del suo temperamento che adesso si annunciano in maniera più dirompente.

Nonostante questi aspetti, i quali determinano in lui una sorta di fiacchezza emotiva, Pavese continua a dare voce alla sua vocazione, ovvero ‘dare poesia agli uomini’, come lo stesso afferma, sua citazione e specchio del suo originale modo di esprimersi. Tuttavia, lo scrittore si sentì sempre estraneo al mondo circostante e agli altri.

Che gli faceva interiorizzava un ‘altrove’, un luogo non ben definito, quale risultato di un ossessivo scavo interiore che determina la sua idea del ‘vizio assurdo’, come estrema decisione e soluzione finale.

Sebbene il suo durevole isolamento, critica e pubblico non gli lesinano i riconoscimenti dovuti alla sua notevole sensibilità letteraria.

Terminata la guerra, frutto di un’intensa maturazione politica, si iscrive al Partito comunista, mentre nel 1950 vede la luce il romanzo “La luna e i falò”, che conclude la tormentata esistenza di Cesare Pavese.

Nello stesso anno vince il Premio Strega con “La bella estate”, considerato il suo capolavoro e che lo identifica come uno scrittore ‘impegnato’.

La sua raccolta poetica “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” esce postuma nel 1951, da interpretarsi come un’anticipazione della sua fine.

Preda di una depressione a lungo procrastinata si toglie la vita in un albergo torinese: è il 27 agosto 1950.

Il ‘vizio assurdo’, come lui definisce la vocazione al suicidio, ha preso concretezza, nonostante la critica gli riconosca una valenza intellettuale indiscutibile.

Purtroppo, con la sua morte si conclude il capitolo di uno scrittore che ha dato molto al genere umano in termini letterari, e che avrebbe avuto ancora molto da dire se solo ne avesse avuto il tempo. Ovvero, se la sua mente non si fosse arrovellata su quei lugubri e confusi pensieri di morte che l’hanno perseguitato lungo la sua breve esistenza.

“Più il dolore è determinato e preciso, più l’istinto della vita si dibatte, e cade l’idea del suicidio. Sembrava facile, a pensarci. Eppure donnette l’hanno fatto. Ci vuole umiltà, non orgoglio. Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più”. – Cesare Pavese

La produzione di Pavese, da un punto di vista poetico, non può prescindere dal suo disagio esistenziale, che trova una sua spiegazione nel profilo del suo temperamento segnato da profondi tormenti e da un singolare sentire umorale.

Cesare Pavese
Cesare Pavese

Umori che si coniugano in un’alternanza di sentimenti contrapposti fra loro, quali per esempio il desiderio di solitudine e il bisogno di comunicare con gli altri.

La chiave di lettura di questi comportamenti altalenanti può essere duplice. Per alcuni sarebbe un approdo naturale e risultato di un’introspezione adolescenziale, per altri sarebbe il risultato di traumi infantili. Per altri ancora, dietro all’universo emotivo dello scrittore si nasconde un dramma di natura sessuale, di cui non si ha certezza ma che filtra da alcune pagine del suo celebre diario “Il mestiere di vivere”.

Suggestioni tutte, che hanno un ruolo determinante nella poetica di Pavese. E che, secondo il pensiero dello scrittore avvengono nell’età dell’innocenza, l’infanzia appunto. Che è inteso come luogo dove avvengono le esperienze fondanti dell’esistenza, e periodo dove si creano i simboli e i miti.

Anche il concetto di mito è imprescindibile dalla poetica di Pavese, che lo identifica quale elemento fondante dell’esperienza originaria dell’uomo, e vincolante al suo IO che determina il destino del singolo. Il mito della propria terra è quello che più di altri attraversa la produzione artistica del poeta, perché più consono al suo SE’, nel significato più intimo del termine. Lo si può identificare più semplicemente come il sentimento, mai sopito, che lacera l’animo di chi si è allontanato dal proprio luogo d’origine, tanto da indurre l’espatriato al ritorno.

Metaforicamente può essere interpretato come un tornare presso di sé e avvicinarsi alla propria interiorità.

Anche se, l’incontro con se stessi non sempre è di facile compimento; spesso, infatti, non si può raggiungere la parte più intima di ciascuno a causa della difficoltà a far chiarezza nell’individualità del singolo individuo.

In riferimento al mito non si può trascurare quello dell’America, proprio di Pavese e di altri autori a lui contemporanei, Elio Vittorini fra questi.

Per concludere, infine, una breve disamina sull’approccio linguistico di Cesare Pavese. Nonostante la sua ‘letterarietà’, il registro linguistico con cui lo scrittore si esprime è intriso di una naturale semplicità, quello che appartiene alla gente comune, anche se non fa uso del dialetto. Da non trascurare che la sua è una scrittura coinvolgente e profonda. Coinvolgente per le vicende che attraversano tutta la sua produzione letteraria, e profonda per il continuo scavo nell’animo umano. Al punto che Pavese merita l’apprezzamento anche delle nuove generazioni.

“Finché si avranno passioni non si cesserà di scoprire il mondo”. Cesare Pavese

 

Written by Carolina Colombi

 

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