“Come le rane nell’acqua bollente” di Dunja Badnjević: il PCI è un mosaico di posizioni inconciliabili
Nella sua opera Media e potere il filosofo e linguista americano Noam Chomsky formula il “principio della rana bollita” per definire la situazione drammatica di quei popoli e di quelle società che accettano passivamente il degrado, i soprusi e il deterioramento dei valori e dell’etica condannandosi in tal modo alla deriva.
Tale principio prende in considerazione una rana immersa in un pentolone d’acqua fredda in cui la bestiola nuota beatamente. Sotto la pentola è acceso il fuoco. L’acqua gradatamente si fa tiepida e la rana la apprezza. Poi la temperatura sale e l’acqua diventa calda.
La rana soffre ma resiste. Quando però l’acqua si fa bollente la rana finisce morta. Se lo stesso animale fosse stato immerso direttamente nell’acqua a cinquanta gradi avrebbe dato una zampata e si sarebbe salvato.
La scrittrice serba Dunja Badnjević si richiama a questo principio nel titolo della propria autobiografia Come le rane nell’acqua bollente (Bordeaux edizioni, 2019, pp.162).
Alla fine degli anni ’60 la Badnjević si trasferisce in Italia dove inizia a lavorare come interprete. È dall’Italia che ella segue l’epopea del proprio Paese d’origine, le lotte e le trasformazioni che esso subisce. Per questa posizione da “esterna” è dunque lei la rana gettata nell’acqua bollente che riesce a salvarsi, mentre il suo popolo viene vessato, stuprato e privato della propria storia e identità.
“Noi ci siamo adattati – mi disse –, ci hanno messo nell’acqua fredda come le rane e poi, mentre la portavano a ebollizione, ci siamo abituati gradualmente. Tu invece arrivi di colpo da fuori, è come se ti avessero buttato direttamente nell’acqua bollente”.
La Badnjević nasce a Belgrado da una famiglia serbo-croata. In quella città ella trascorre l’infanzia e la giovinezza; lì compie il percorso scolastico, coronato dalla laurea e lì vive i primi amori e le uscite con le amiche. Nel 1968 la donna si trasferisce in Italia dove la sua laurea non ha valore; si iscrive così alla facoltà di Filologia Slava.
A Roma si sposa e ha due figlie. Presto la famiglia comincia ad andarle stretta ed è allora che incontra un’altra grande famiglia, il PCI, i cui membri si trattano alla pari, si danno del tu e vivono in perfetto sodalizio.
La Badnjević lavora come interprete presso l’ambasciata jugoslava ed è in questa veste che incontra Enrico Berlinguer durante il Quattordicesimo Congresso del PCI svoltosi a Roma dal 18 al 23 marzo 1975.
Inoltre la donna si occupa di passare in rassegna la stampa quotidiana, scovare notizie che riguardino il suo Paese e tradurle. Dopo un anno si ritrova disoccupata; conosce il presidente della casa editrice del partito che le offre un lavoro. Dunja consegue la seconda laurea e viene assunta come segretaria di redazione presso Editori Riuniti nella sezione dedicata all’istruzione diretta da Tullio de Mauro.
Qualche anno dopo la casa editrice viene colpita dalla crisi e, conclusa l’esperienza con Editori Riuniti, la Badnjević lavora per cinque anni in un service editoriale fondato da Tito Scalbi. Riprende poi a collaborare a tempo pieno con i nuovi Editori Riuniti fino al 2000 quando decide di mettersi alla prova come scrittrice in lingua italiana. Nasce così L’isola nuda, pubblicato da Bollati Boringhieri che le vale cinque premi internazionali.
Gli anni ’90 sono segnati dalla guerra in Jugoslavia e il 24 marzo 1999 Belgrado viene bombardata in modo “umanitario”. Per Dunja è un duro colpo. Il 24 aprile, durante il notiziario delle 20.00, è proprio lei a spiegare che le forze antiaeree serbe hanno abbattuto l’aereo invisibile della Nato. I bombardamenti cessano il 9 giugno 1999. Ma da allora niente è più come prima, nemmeno il PCI che ha cambiato pelle.
La Patria è la propria terra, colei che dà carne e sangue; il partito politico una famiglia di adozione.
Perderli entrambi equivale a un duplice lutto. E due sono le linee portanti su cui si svolge l’autobiografia della Badnjević, entrambe sotto il segno della nostalgia.
Nostalgia che si declina da una parte come “jugonostalgia”, ovvero come l’anelito struggente quanto vano verso un Paese che si è disgregato e che è diventato la terra che non c’è, il cui popolo ha perso le proprie coordinate storiche e geografiche oltre alle proprie radici; dall’altra come nostalgia verso un partito in grado di incidere con forza sulla vita sociale e pubblica attraverso le grandi manifestazioni e le accese battaglie civili.
Il PCI non è più una compagine unita e solidale ma è un mosaico di posizioni inconciliabili non più animate da ideali ma dalla volontà di mantenere poltrone e potere.
La Patria e il partito per Dunja sono diventati due estranei, entità in cui non si riconosce più.
“Anch’io provo nostalgia. Di un paese in cui ho vissuto e che ora non esiste più. Di un partito in cui ho militato e che non ritrovo. Di una speranza che ogni giorno si accorcia. […] Provo nostalgia per le sicurezze che avevano i giovani una volta – la scuola, il lavoro, la casa, i figli, la pensione, la salute – e che oggi non esistono più”.
La Badnjević vede recisi i fili che costituiscono l’ordito e la trama della propria vita; ne consegue uno stato d’animo sospeso tra la nostalgia del passato, l’amarezza per il presente e l’incertezza per il futuro.
La prosa della scrittrice serba vibra di sentimento senza però cedere al sentimentalismo. Si accende di toni infuocati, si smorza nella rimembranza di un passato irrimediabilmente dissolto. È uno stile, il suo, accorato e insieme lucido, oggettivo, dal taglio chirurgico per la capacità di analizzare razionalmente i fatti storici.
Dunja Badnjević, la rana gettata nell’acqua bollente, si è salvata dalla deriva cui sono andati incontro i suoi connazionali. Eppure anche il suo animo è lacerato come la terra che aveva tanto amato. Il balsamo che lenisce tali piaghe altro non può essere che il ricordo.
“Talvolta mi sento come uno sciacallo che cerca cibo fra le cose morte. Lo sciacallo della mia vita più felice”.
Written by Tiziana Topa