“L’ordine del tempo” di Carlo Rovelli: il tempo non esiste, lo spazio non si sa

Carlo, Jorge diceva che ogni libro continua a vivere e a trasformarsi fino a che esiste un lettore che lo legga, ed è di questa sua mutazione che ti voglio omaggiare. Lo faccio soprattutto per riconoscenza.

L’ordine del tempo di Carlo Rovelli
L’ordine del tempo di Carlo Rovelli

Una premessa: nell’anno 2000 lessi un libro del tuo amico Lee Smolin, “La vita del cosmo”. Fu in quell’occasione che per la prima volta venni a conoscenza del tuo nome e di quello che appariva come il vostro maestro spirituale, Julian Barbour, di cui, pochi mesi dopo, lessi, un po’ a fatica perché, tra l’altro, in lingua originale, “The end of time”.

Ricorderò sempre la sua allegoria del tempo, ridotto ormai ad un insieme di cartoline stese e appese a un ciappetto: tante configurazioni di stati fisici che formavano una specie di unità. Julian era uno studioso valente, ma non accademico, e quindi si poteva permettere questo ed altro. Il suo libro, più ancora di quello di Lee, mi appassionò tantissimo. Il tempo è un mistero che non ha tempo!

Similmente a quanto capitò al giovane e molto più volenteroso studente Carlo Rovelli, anch’io sognai di risolverlo, insieme a quell’altro che anche tu citi: cosa succede o non succede al di sotto dei limiti di Planck. In me c’è una quasi certezza, ed è il quasi che mi rode, che i due misteri siano collegati.

Finita questa premessa biografica, vorrei affrontare il libro, passo per passo.

A pagina 22, colgo l’idea che le particelle del cosmo, gravitando l’una sull’altra, tendono a rallentarsi vicendevolmente, quindi a produrre minori quantità di quell’oggetto mistero che è il tempo.

A pagina 27 chiarisci che la materia segue due tendenze: quella di fuga, dove ogni cosa scarica nell’ambiente la propria energia e il proprio tempo, creando infinite possibilità di dispersione; e quella che le conduce ad incatenarsi al resto del cosmo, formando miriadi di corpi unici rallentati. Ma come finirà la storia? Quale tendenza vincerà?

A pagina 31 mi induci a pensare ai principi della termodinamica.

I: l’energia (in un sistema chiuso) è quella lì e basta, non si crea, né si distrugge, ma sempre si trasforma.

II: l’entropia, misura del disordine cosmico, è destinata a crescere per sempre: è impossibile il contrario.

III: è altrettanto impossibile raggiungere lo zero assoluto mediante un numero finito di trasformazioni.

Nella mia grande ignoranza, non capisco come mai sia assodato che le masse di due corpi cooperino nella gravitazione, mentre, secondo Clausius, è impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo più freddo a uno più caldo senza l’apporto di lavoro esterno.

In occasione di un incontro con una persona più ricca di me, ad esempio Bill Gates, pare che io gli possa offrire un caffè, che equivale a un millesimo del mio capitale, confidando che, contemporaneamente, sia lui ad offrirmi un millesimo del suo, ma solo per quanto attiene la gravitazione, e non anche per il calore. Il rapporto fra Bill e me è biunivoco solo dal punto di vista gravitazionale, non da quello termico. La gravitazione è reciproca, il calore pare proprio di no. Il sole scalda me, io non scaldo, nemmeno in maniera infinitesimale, lui.

A pagina 71, definisci concreto il campo gravitazionale di Albert, adducendone per prova le numerose verifiche. L’ignorante (anche se preferisco di gran lunga il termine asino) ora (ed è il mestiere di ciuccio che obbliga a farlo) obietta: non sempre una verifica, anche se continua, reca alla certezza.

Porto l’esempio ricavato nel periodo di studi in cui ho dato il massimo del profitto scolastico (le elementari): la prova del nove può fallire sempre quando ci sono i multipli di 3.

Esistono, nella storia della fisica numerosi casi per cui, per anni passati e per numerosi altri ancora, si trascineranno le problematiche irrisolte, solo perché si deve far funzionare quel meraviglioso accidente che è la fisica.

La normalizzazione ad hoc della massa dell’elettrone (altrimenti calcolata come infinita) viene sempre eseguita, altrimenti non si va avanti. E la massa oscura, e l’ancora più terrificante energia oscura? Devono esistere, sennò chi ci capisce niente di quei calcoli cosmici? Ne manca il 90%, non bazzecole! Chi e dove ha celato il resto?!? E che dire delle particelle virtuali che, per definizione, esistendo solo virtualmente, magari solo al 36%, o al 12%, o al 97%, non si attestano coi rilevatori, ma devono per forza esserci nel misterioso vuoto, altrimenti non ci si spiega il calcolo relativo a quelle che sono attestate!

A prescindere dalla giustezza degli esempi descritti, colgo in voi scienziati due tendenze che possono portare a errori madornali e, magari, contemporaneamente a scoperte meravigliose. La prima è la fiducia che avete che un’equazione che funzioni ogni volta perfettamente sia scevra di errori. Purtroppo, il mondo è relativo, intersecante, per cui, ad esempio, da una coppia di sposini biondi e fedeli, i cui antenati sono stati sempre fedeli, può nascere un bebè che assomiglia a Kunta Kinte (può darsi benissimo che un loro paio di antenate del tempo del tuo omonimo Carlo (Cotica, detto il Magno) abbia sposato un ghanese o un burundese). Nulla è mai detto.

Il secondo pericolo è questo: se, per dare un senso a un calcolo, occorre creare un’eventualità non attestata sperimentalmente, si può e forse si deve farlo. Si tenga però sempre presente che si tratta di un’invenzione (geniale, certo), e solo poco più di un’illazione. Io non riesco ad essere certo che il campo gravitazionale esista, anche se qualcosa fa pensare che debba esistere. Insomma, se qualcosa esiste, magari non è un campo, ma qualcosa che dà l’illusione del campo. Lo capirò forse un po’ meglio leggendo più avanti.

Temo che, a questo punto, tu sia già giunto al colmo ed abbia terminato la lettura. Spero invece che tu trovi lo scritto comico-demenziale e vada avanti nello sforzo. Se così non fosse, continuerei per me solo.

Carlo Rovelli
Carlo Rovelli

Io provo un’immensa riconoscenza per chi come te, Lee, e infiniti altri, abbia preferito studiare, anziché coltivare hobby dementi, quale, nel migliore dei casi, l’arte e la poesia. Una volta il mio professore di chimica mi disse che con una poesia non si va sulla Luna (non conosceva la vicenda di Astolfo, ma aveva in fondo ragione).

A pagina 76, parli di granularità, che indica discontinuità. Mio suocero era di Pisciotta (ehm, preferirei di gran lunga il suo nome latino: Pixuntum), ridente cittadina a venti chilometri dall’antica città di Elea, luogo mitico dove, ogni due o tre anni, mi reco in pellegrinaggio. Io amo i paradossi di Zenone e adoro la filosofia di Parmenide. Queste mie passioni non mi impediscono di credere che anche la discontinuità e la continuità siano illusioni specularmente similari. Non ho mai capito, perché senz’altro non ho letto la tua opera completa, cosa tu intenda quando dici (in altri libri) che anche lo spazio è un grumo (ma lo scoprirò fra pochi secondi, a pagina 76, finalmente; te ne sarai forse accorto, ma scrivo durante la lettura, cioè subito dopo aver letto qualcosa che ha scatenato la mia reazione, come spesso mi accade; in fondo tu Carlo Rovelli sei un efficientissimo enzima).

Permettimi solo di dirti che, a naso, l’entanglement fra due particelle, che sono venute a contatto almeno una volta, parrebbe confermare una certa continuità (col solito beneficio di inventario) e che l’esistenza così necessaria delle suddette particelle virtuali preveda una presenza di tanta materia, per cui la discontinuità non è affatto “sicuramente certa”.

Il nucleo è un pallone di calcio al centro del campo e gli elettroni sono sugli spalti? Allora la discontinuità esiste? Chi potrà mai rispondere? Un fotone con le sembianze di Woody Allen (già travestito da spermatozoo in uno suo spassosissimo film?), o l’infinità di messer messerini virtuali che non possiamo conoscere e che svolazzano ignari di sé e del mondo nell’aere dello stadio? E ancora: cosa potrebbe esistere al di sotto della lunghezza di Planck? Anche stavolta quanto viene prospettato dalla fisica rimane chimerico.

Nulla vi è di certo: questa è l’unica certezza filosofica. Se però i fisici si fermano davanti a questa nullità, è finita. Devono rimanere come stimoli ad andare oltre, come già capitò al giovane Johannes Kepler. Questa è anche la funzione dei paradossi, quelle fantastiche assurdità che ti fanno superare le opinioni, aste mirabolanti che ti fanno saltare più in alto di quello che parrebbe possibile a prima vista. Carlo, ne riparleremo ad Elea. Infatti, anche per consolarti e compensarti della tua attenzione, quest’estate ti invito a Pixuntum e, se accetti, ti porto nella parte alta di Elea, alla mitica Porta Rosa.

A pagina 78 dici:Fra un’apparizione e l’altra l’elettrone non ha posizione precisa”. Bohr scrisse una volta che la particella “esiste” solo allorché viene osservata. Allora, anche un osservatore, che non è altro che un guazzabuglio incasinato di stati di particelle, esiste solo quando la particella gli comunica la sua posizione. Le due affermazioni mi paiono dotate di medesima dignità logica.

Altra immensità non chiarita. Sono io che esisto mentre osservo ciò che esiste mentre viene osservata da me? In cosa io differenzio dalla particella osservata se non nella complessità composta da innumerevoli miliardi di particelle? Bohr esisteva soltanto quando litigava con Einstein? La Charlotte di pagina 123 tenta di rispondere a simili domande, tentando di conciliare le finitezze spazio-temporali.

A pagina 129 e seguenti riporti l’esempio delle carte come allegoria dell’arbitrarietà del concetto di entropia. Ne formulo uno simile. Esiste il solitario dei 7 ordini di carte. Rovesci una carta sul tavolo. Poi altre sei. Se c’è, ad esempio, un otto di coppe e un sette di bastoni (cioè di semi diversi), metti il sette sotto l’otto. E così via. Il gioco finisce quando hai finito le carte. Oppure fallisce, quando sei obbligato a creare un ottavo e non consentito ottavo ordine. Finisce il cosmo.

Per fortuna è stato inventato anche il più “economico” e meno “tragico” gioco delle quattro carte. Stessa logica. Per fortuna, però, qui, ad hoc, è stato escogitato lo stratagemma della buca entropica. Quando saresti obbligato a creare un quinto ordine, metti la carta non attaccabile in un mazzetto scoperto. Se il mazzo di carte è infinito, il mazzetto è destinato a crescere infinitamente.

C’è poi il meccanismo, anch’esso inventato ad hoc da quella volpe che è l’uomo, per cui, se per caso la carta che metti in uno dei quattro ordini, poniamo il sei di spade, si concilia con l’ultima carta del mazzetto, poniamo il cinque di denari, puoi prendere quest’ultimo e piazzarlo sotto il sei. Ma qui l’uomo ha voluto ancora una volta imbrogliare (come per la massa dell’elettrone), perché vuol vincere ad ogni costo. Nel cosmo invece pare non decida l’umano, ma qualche Principio vagamente divino. E la partita potrebbe non avere mai fine. Oppure, quando il mazzetto sarà diventato troppo alto, il tutto, magicamente, si fermerà. Chissà?

Si possono cambiare ogni volta le regole (si possono abbinare solo le carte con valore dispari e solo quelle con i valori pari; oppure solo le carte il cui valore corrisponde a un numero primo o quelle che non lo sono) e allora accade che il mazzetto cambi aspetto. Le regole, però, nel cosmo non sono decise dall’uomo. Ogni carta messa nel mazzetto crea una nuova configurazione del cosmo, un aumento di entropia, una nuova cartolina di Julian attaccata al ciappetto, e questo termine “nuovo” è vecchio ed è legato al tempo. Per cui, io condivido la scelta che esprimi a pagina 136, di non volerti fermare all’idea che l’entropia cresca col tempo, ma di andare avanti. Mantieni però, se riesci, l’ipotesi che essa possa in qualche modo valere. Se anche i tuoi maestri Bryce e John sono riusciti a scrivere equazioni che funzionano senza utilizzare il valore del tempo, anch’esse potrebbero essere assurde e manchevoli di qualcosa che non si capisce.

Marcel Proust
Marcel Proust

Nel terz’ultimo capitolo citi “La Recherche” di Marcel. Il tuo libro lo sto leggendo fra ieri ed oggi, e se non ti piacciono i termini temporali, li cambio: lo sto leggendo tra il XIX e il XX canto dell’“Orlando Furioso” e, credimi, nessun poema umano è stato scritto, per quanto ne so io, con maggiore attenzione alla causalità (solo apparentemente) casuale che interseca ogni cosa con la causalità (solo apparentemente) casuale di tutto il resto, e ogni cosa si interseca liberamente con tutto il resto.

L’ultima parte del tuo libro, come hai promesso nel primo capitolo, è composto da una serie di affermazioni a caduta libera, che rendono più accettabile e meno assurda la mia presente concione così ricca di sciocchezze. Sono più importanti, le tue, perché dimostrano che anche un fisico, in fondo, è un uomo che soffre la propria ignoranza, ma su di essa fonda la sua ricerca.

Ho finito il libro. Mi ha emozionato, come già altri due tuoi. Sei un ottimo rovistatore di anime.

Pensaci: l’ho letto secondo un certo ordine temporale, ma in successivi momenti ho inserito nuovi commenti nel passato, variazioni, correzioni di refusi, sono andato avanti e indietro nel tempo, un po’ come capitava al protagonista di “Mattatoio n. 5”.

Conosci “La fisica dell’immortalità” di Frank J. Tipler? Talvolta tu parli di informazioni. Frank ci ha scritto quel libro immenso. Dopo una serie arcana di cabale, il terribile professor Frank arriva a questa considerazioni: se ad ogni stato quantico di ogni particella del cosmo, dall’inizio alla fine, s’intende, non quello di poco fa e di fra poco, ma di tutti i poco fa e fra poco immaginabili, fosse abbinata l’informazione di sé, ecco che potrebbe essere riprodotta da un divino lettore (allora esistevano solo i videoregistratori) che (ma chiedo io, esso esisterebbe e sarebbe a sua volta sorgente di informazione?) potrebbe creare e ricreare, ad libitum, in eterno, l’esistenza del tutto. Ammetto di non aver capito il suo libro fino in fondo. Però mi pareva una grande, smisurata idea.

Tipler era un docente di ateneo, non uno sprovveduto qualsiasi. Di quel libro, ricordo una magica intuizione: se F = ma, allora F-ma = 0; se E = mc alla seconda, allora E – mc alla seconda = 0. Tutto, nel cosmo, è azzerabile, tutto, non solo il tempo, lo spazio, le interazioni, l’energia e la massa.

Questa intuizione mi va di collegarla alla concezione induista della maya, dell’illusione cosmica. Illusione = ludus = gioco. Esiste il mito del cosmo come gioco cosmico. Il solitario di carte di poco fa ne sarebbe un’allegoria. Chissà!

Fra tutti i giochi illusori e perciò veritieri, continua a parermi il migliore quello descritto da Julian: il tempo non c’è, ma semmai vi sono quelle tante cannuccedde (se sei di Pixuntum), mollette (se sei amalfitano come mia moglie, ed anche in quell’antica repubblica marinara sei ovviamente invitato), di ciapett (se sei reggiano come me, credo, anche se ormai faccio fatica a catalogarmi), vi sono tutti quegli ammennicoli che sostengono le immagini del tempo che forse non esiste, ma intanto Qualcuno o Qualcosa ha steso quel filo davanti ai nostri fallaci occhi. Che però non riescono a coglierli tutti insieme…

Il concetto di entropia assomiglia a quello di confusione mentale descritto da Krishnamurti. Questo lucido pensatore libero del XX secolo affermava che occorreva liberarsi dal conosciuto, da tutte le entropie di basso medio o alto livello, e di fermare il pensiero che nelle nostre menti agitate non la smette di scorrazzare avanti e indietro, impedendoci di cogliere la realtà. Solo col pensiero immoto e quindi non dispersivo si poteva capire il reale.

L’uomo sfuggirebbe la trappola dell’indeterminatezza quantica qualora potesse fissare in un tempo t = 0 la sua osservazione?

Chi mi sa dire se il fotone, per cui il tempo è nullo, ha una visione perfetta del mondo esterno, variando indifferentemente l’ordine della misurazione di velocità e posizione di una particella, di cui tu parli a pagina 121?

Io apprezzo tanto il tuo sforzo, Carlo, perché non oso dire che la teoria della relatività sia sbagliata, ma non posso fare a meno di pensare che essa sia manchevole di qualcosa di essenziale. Un esempio, fra tutti, la teorizzazione della velocità geometrica per cui… No! Non ho voglia di ripetere quanto ho faticosamente appreso in merito! È tutto troppo assurdo. Tempo fa ci scrissi un racconto su di essa: “Petman e il suo ispus”: chissà se l’hai letto. Nel 2000 ti inviai un altro racconto “Rex Miller contra Ain-Stein” e mi rispondesti allora che avevi riso tantissimo, sia te che la tua compagna. Qualche anno dopo scrissi “No”, un tentativo, anch’esso purtroppo inconcludente, da parte di Dylan Dog di cogliere qualcosa di ciò che (forse non) esiste all’interno della lunghezza di Planck.

Insomma, su quegli argomenti non posso che sbizzarrirmi a scrivere sciocchezze. Questa qui è l’ultima.

Carlo, fratello scrittore, ti ringrazio tantissimo, ti avermi ancora una volta emozionato con la tua scrittura.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, 2017

 

 

2 pensieri su ““L’ordine del tempo” di Carlo Rovelli: il tempo non esiste, lo spazio non si sa

  1. Affascinante per me che conservo ricordi di fisica di 60 anni fa dove l’elettrone, solitario, girava intorno al nucleo dove stavano pigiati protoni e neutroni…. Grazie per avermi scaraventato in un mondo parallelo (o divergente o convergente)

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