Diario di Søren Kierkegaard: ragionamento su Arthur Schopenhauer

Dunque lui stesso non è la contemplazione raggiunta per via dell’ascesi, ma una contemplazione che si rapporta contemplando quell’ascesi.– Søren Kierkegaard

Ritratto di Søren Kierkegaard by Niels Christian Kierkegaard
Ritratto di Søren Kierkegaard by Niels Christian Kierkegaard

Il filosofo e teologo Søren Aabye Kierkegaard (Copenaghen, 5 maggio 1813 – Copenaghen, 11 novembre 1855) visse la quasi totalità della sua vita a Copenaghen avendo ricevuto come educazione l’ossessione del peccato da un padre ormai anziano convinto di essersi macchiato di una grande colpa. Sin da giovane, Søren nonostante la rigida educazione sviluppò un grande senso dell’ironia che portò al rifiuto della filosofia hegeliana e dalla Chiesa danese. Nonché un rifiuto dell’amore di una donna, infatti lasciò senza dare una precisa spiegazione la fidanzata Regine Olsen (Frederiksberg, 23 gennaio 1822 – Frederiksberg, 18 marzo 1904), pur restandole fedele per tutto il corso della vita tanto da nominarla ereditiera del suo patrimonio malgrado il matrimonio di lei con l’avvocato e dipendente pubblico Johan Frederik Schlegel.

Søren ha dedicato la vita allo studio ed alla scrittura senza lasciarsi abbindolare dai bagliori fittizi dei salotti e delle strade principali delle grandi città. Abbiamo, dunque, una vastità di scritti tra opere, diari, lettere, antologie; citando le più conosciute “Aut-Aut” (Enten-Eller), “Timore e tremore”, “Il concetto dell’angoscia”, “La malattia mortale”.

Un uomo che, con occhio infallibile, ha avvertito i segni del suo tempo e con coscienza profetica ci ha narrato il presente, un uomo che accostiamo al filosofo, poeta e critico letterario svizzero Henri-Frédéric Amiel (Ginevra, 27 settembre 1821 – Ginevra, 11 maggio 1881) per la dedizione alla ricerca.

Il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (Danzica, 22 febbraio 1788 – Francoforte sul Meno, 21 settembre 1860) diventa oggetto di grande interesse da parte di Søren sia perché ne denota le esperte doti di scrittura sia lo ritiene un esempio calzante della tesi secondo la quale “è sempre uno sbaglio esporre un’etica che non esercita sul maestro tale potere così ch’egli stesso l’esprima nella sua vita.”

Di seguito sono riportate alcune pagine del Diario di Kierkegaard che analizzano alcuni tratti della filosofia di A.S. (Arthur Schopenhauer) dunque, per potersi dissetare pienamente, si invita all’acquisto del volume riportato in bibliografia (od in alternativa dell’edizione del 1962 edita da Morcelliana).

Costruiamo la scala per l’ascesa.Niccolò Cusano – “Deus absconditus

 

Su Arthur Schopenhauer

A.S. (strano abbastanza: io mi chiamo S.A.[1], noi ci rapportiamo così in modo inverso!) è innegabilmente uno scrittore importante; egli mi ha interessato molto, e quel che mi ha sorpreso è d’aver trovato uno scrittore il quale, malgrado il completo disaccordo, ha con me molti punti in contatto.

Contro la su etica ho specialmente due obiezioni da fare.

In primo luogo la sua concezione si riassume così: o attraverso l’intelletto, quindi intellettualmente, o attraverso le sofferenze (δεύτερος πλοũς[2]), l’individuo arriva a scandagliare tutta la miseria di questa esistenza, e risolve allora di uccidere ovvero di mortificare il desiderio di vivere. Di qui l’ascesi; e così si arriva ad una contemplazione, ad un quietismo a traverso la perfetta ascesi. E questo l’individuo lo fa per simpatia (qui sta il principio morale di A.S.): per simpatia, perché egli simpatizza con tutta quell’afflizione ch’è l’esistenza, quindi simpatizza con l’afflizione di tutti gli altri, la quale consiste nell’esistere.

Contro questo dovrei obiettare che io quasi sarei piuttosto tentato d’invertire la cosa e, notate bene, proprio anche per simpatia. Infatti sia che uno per via dell’intellettualità originaria arrivi all’ascesi penetrando il fondo della miseria del tutto, o meglio la miseria di ciò ch’è l’esistere; sia ch’egli per via delle sofferenze sia portato a quel punto che a lui appaia come un sollievo l’arrivare a una rottura totale, a rompere con tutto, con la stessa esistenza, cioè con il desiderio di esistere (l’ascesi, la mortificazione); ciò che rispetto ai molteplici piccoli tormenti e ai tormenti sempre rinnovati, può essere di sollievo – come quando si riesce a sudare, in confronto di quando il calore tormenta senza che si riesca a sudare: – in ambedue i casi, io dico che capovolgerei la questione. In ambedue i casi non potrebbe proprio la simpatia impedire, trattenendo dall’andare tant’oltre: la simpatia per queste migliaia e migliaia, i quali non possono seguirlo, queste migliaia e migliaia che vivono nella schietta illusione che la vita è gioia? – e ch’egli perciò non farebbe che turbare, rendere infelici, senza che potesse aiutarli e raggiungerlo al punto dov’egli è arrivato? È la simpatia non può anche porre la faccenda in questo modo (anche se io concedo volentieri che qui tanto facilmente si può nascondere la furfanteria) che non vuol arrischiare per conto suo la cosa estrema e così si dà l’apparenza di simpatia?

In secondo luogo (e questa è un’obbiezione capitale) quando si è letta da capo a fondo l’Etica di A.S., si arriva a sapere (onesto fin qui egli naturalmente lo è) che per suo conto egli non è simile asceta. Dunque lui stesso non è la contemplazione raggiunta per via dell’ascesi, ma una contemplazione che si rapporta contemplando quell’ascesi.

Ciò ha in sé un grande inconveniente. Qui si può nascondere anzi la cosa più orrenda, un genere perverso di voluttà malinconica; item, un odio profondo per gli uomini, ecc.

Ma anche a questo modo la cosa non va, perché è sempre uno sbaglio esporre un’etica che non esercita sul maestro tale potere così ch’egli stesso l’esprima nella sua vita.

Arthur Schopenhauer by Ludwig Sigismund Ruhl (1815-1818)
Arthur Schopenhauer by Ludwig Sigismund Ruhl (1815-1818)

A. S. però fa dell’Etica una specie di genialità: ma è proprio questa la considerazione amorale della morale. Egli riduce l’Etica a genialità, e benché si pavoneggi abbastanza col pensiero di essere anche lui un genio, sta il fatto che a lui (o alla natura) non è piaciuto di fare in modo che diventasse una genialità in direzione dell’ascesi e della mortificazione.

Qui io tocco un punto che S. sdegnosamente scansa, cioè il “tu devi”, la pena dell’eternità, ecc. Si tratta di sapere se quel genere di ascesi e mortificazione sia in fondo possibile a un uomo, quand’egli non rispetta il “tu devi” e non è determinato da un motivo dell’eternità, non però per genialità ma per ragioni etiche.

S., che in fondo abbandona il Cristianesimo, loda sempre il bramanesimo dell’India. Ma quegli asceti, lui stesso lo deve confessare, sono determinati da un riguardo di eternità, ed è perciò per motivi religiosi, non geniali, che ciò si presenta loro come dovere religioso.

Come ho detto A.S. mi ha interessato molto. E pertanto naturalmente anche la sua sorte in Germania.

S. ha giustamente dovuto riconoscere questa verità che (come, nella religione, i pastori, così nella filosofia) c’è una classe di uomini i quali, sotto l’apparenza di insegnare filosofia, ne vivono e il cui mestiere è di cospirare con tutta la mondanità che li tiene come veri filosofi, dato che lo sono per mestiere, che cioè il filosofare è la loro professione. Questo è verissimo; la situazione dappertutto nel Cristianesimo è giunta a tal punto di degradazione e demoralizzazione che il Paganesimo era una sublimità divina al suo confronto. S. vede giustamente che questi rispettabili signori sono i professori. Sotto questo riguardo, S. è incomparabilmente grossolano.

Ma eccoci da capo. S. non è un carattere, non è un carattere etico, non è un filosofo greco in carattere, ancor meno un poliziotto cristiano.

Se potessi parlare con lui, son certo che inorridirebbe, e si metterebbe a ridere quando gli ponessi avanti la misura.

S. ha visto bene che quest’infamia di professori si mantiene specialmente con un mezzo: con l’ignorare ciò che esula dal loro mestiere. S. è charmant[3], eccellente, incomparabile, nella sua grossolanità che colpisce nel segno.

Ma, ora ecco: come vive S.? Egli vive ritirato e spedisce una volta tanto qualche tuono di grossolanità – a cui si risponde con un’affettata ignoranza. Sì, ecco che ci siamo.

Prendi invece la cosa diversamente. Vai a Berlino, sposta per queste canaglie la scena nelle strade, sopporta di essere l’uomo più conosciuto di tutti, conosciuto da ognuno. Mantieni poi personalmente una tale comunanza di condotta con queste canaglie da mostrarti con loro per strada, e possibilmente ognuno sappia ch’essi ti conoscono. Ecco, questo è sgominare quest’infamia della loro affettata ignoranza. Io l’ho praticato in un terreno certamente più ristretto, qui a Copenaghen: essi fanno ridere con la loro affettata ignoranza!

E poi io ho perfino rischiato ancora una volta (cioè perché avevo ricevuto un comando religioso!), ho rischiato di mia propria iniziativa di diventare la caricatura e di essere lo zimbello di tutta la plebaglia alta e bassa: tutto questo per spezzare le illusioni, e tutto perché essi sentissero che qui non si trattava di una protesta profana, pronta a chiamar in auto la plebaglia, ma di una protesta religiosa che perciò rischia perfino di cacciar via da sé quella plebaglia, proprio quand’essa voleva acclamare la sua vittoria.

Ma A.S. non è di questa tempra: sotto questo aspetto, egli non assomiglia affatto a S.A. Egli è tuttavia un pensatore tedesco che va troppo ansimando dietro la fama. Sì, è per me incomprensibile che un ingegno così notevole come S., uno scrittore così intelligente, tuttavia quanto a carattere morale (perché stilisticamente egli ne ha molto) sia così poco dotato dell’ironia e della disinvoltura di un uomo superiore.

Non ci può essere dubbio che la situazione ora in Germania sia questa (lo si conosce facilmente dal fatto che i facchini e gli sgobboni letterari, i giornalisti e i poligrafi, si danno ora tanto da fare per S.) ch’egli ora deve essere trascinato sulla scena e acclamato. Ed io scommetto 100 contro 1 ch’egli è contento come una pasqua; non gli viene neppure in mente di fare una frittata di tutta questa robaccia; no, egli ne sarà gongolante.

Bene, non è però questo inesplicabile? Uno come lui che presenta, e con tanto talento, una concezione della vita così misantropa: costui poi è gongolante di gioia, e realmente felice in tutta serietà perché la Società delle Scienze di Trondhjem (buon Dio: nientemeno che di Trondhjem!) gli ha dedicato il premio. Non gli passa per la mente se forse quella Società delle Scienze abbia considerato come una rara fortuna che un Tedesco abbia loro mandato una dissertazione. “Pro dii immortales!” E siccome Copenaghen non ha invece premiato un’altra dissertazione presentata da S., egli strepita con tutta serietà nella prefazione che accompagna la sua edizione.

Questo è per me inesplicabile. Potrei capire che S., per burlarsi di codeste società scientifiche, avesse deciso di partecipare al concorso e si fosse divertito del premio ricevuto in Trondhjem non meno che della bocciatura ricevuta a Copenaghen. Ahimè, ma non nel modo con cui prende le cose S.

Diario di Søren Kierkegaard
Diario di Søren Kierkegaard

Ma la situazione è quella e fa pena. S. si rapporta direttamente alla fama, l’ha desiderata, ne spasima. Ha ricevuto un trattamento indegno; ciò non l’ha abbattuto, anzi l’ha spinto a diventare uno scrittore importante. Ma di essere un carattere etico o religioso, non se ne preoccupa affatto, ché col carattere etico o religioso le cose vanno altrimenti. Qui il principio è che quando la fama è offerta nella misura maggiore possibile, non la si vuole, e allora ecco che scoppia la collisione.

Questo lo mostra anzitutto il Modello, l’unico, il Salvatore del mondo. Per Lui la prima cosa è che la gente vuole proclamarlo Re [Giovanni 6, 15][4]; ma Egli si rifiuta, perché vuole essere crocifisso. E tuttavia Egli non può fare a meno del principio, precisamente per potere in modo decisivo ferire i contemporanei in direzione della religiosità. Se Cristo non avesse avuto in suo potere quella prima cosa, sarebbe rimasto sempre dubbio se Egli tuttavia non fosse un uomo che, tutto sommato, avrebbe preferito di esser Re: anzi, forse uno che, spasimando per riuscirvi, gli toccò invece la disgrazia di essere crocifisso.

Per un carattere etico e religioso, il proscenio è di grande importanza. Si capisce perciò come anche percorrendo i secoli della storia, rarissimamente troverai un carattere etico o religioso autentico.

Questo è fuori discussione: una cosa è quando un’aspirazione temporanea fallisce, e un’altra il ripudiare il trionfo della mondanità che ci è offerto e poi esser sacrificati: solo in quest’ultima cosa sta l’essere sacrificato.

Perciò si può riconoscere che S. è stato in modo indegno la vittima dell’infamia marcia dei professori; ma eticamente e religiosamente S. non è una vittima – perché per parte sua avrebbe, più che volentieri, desiderato di essere acclamato.

Come ho detto, il proscenio è tanto importante, costituisce l’aspetto decisivo per determinare il carattere etico-religioso: l’importante è che sia chiaro che la sofferenza è di libera scelta.

Questo è il vero tragico sublime. Ma nella pratica della vita ci si accontenta di un tragico più ridotto: egli ha agognato qualche grandezza terrestre e ne ha avuto la peggio. Succede qui col tragico come col comico: il comico puro ovvero il comico sublime o il comico della catarsi, è sempre tale che non si ride di ciò che in fondo in un altro senso è cosa da muovere a pietà. – Oh, ma nella pratica della vita – e nella maggior parte dei poeti comici e la gente s’accontentano di ridere di cose che… muovono a pietà! E i poeti sanno bene calcolare, agognando alla diffusione perché non son che troppo comuni la depravazione, l’invidia, la soddisfazione maligna (e simili) di ridere di cose che fanno pietà.

Schopenhauer e il Cristianesimo

Kierkegaard su Schopenhauer
Kierkegaard su Schopenhauer

S. disprezza il Cristianesimo, lo ridicolizza in confronto della sapienza indiana.

Questo è affar suo. Io tengo Schopenhauer per uno scrittore molto importante e che avrà la sua importanza proprio anche per il Cristianesimo.

Nella sua malinconia indiana che vivere è soffrire, c’è però qualcosa di falso. Tuttavia potrebbe giovare molto se il nostro tempo avesse un buon bagno di una malinconia simile, perché così s’accorgerà cos’è il Cristianesimo – ciò che Jo. Climacus[5] esprime in quella proporzione: “essere cristiano è soffrire e ciò è anche la dottrina del Nuovo Testamento”.

Io non ho nulla in contrario a che S. inveisca con tanta forza contro questo infame ottimismo, in cui eccelle specialmente il Protestantesimo: io sono molto contento ch’egli mostri che ciò non è affatto Cristianesimo. Ma contro la sua proposizione che “esistere è soffrire”, io protesto, perché allora il Cristianesimo sfuma in un modo che forse S. neppure s’immagina. È vero che il Cristianesimo predica di essere sofferenza, che esser cristiano è soffrire; ma se ora in generale l’esistere, l’esser uomo, se tutto questo è soffrire, verrà a mancare al Cristianesimo la sua dialettica, il proscenio, ciò per cui esso si rende conoscibile negativamente. Così il Cristianesimo diventerà un pleonasmo, un’osservazione superflua, un galimatias[6]; perché se l’essere uomo è soffrire, è ridicolo che venga una dottrina che voglia precisare che essere cristiano è soffrire.

No, il Cristianesimo non dice che esistere è soffrire, al contrario – e per questo esso si colloca sopra l’ottimismo giudaico – ha per proscenio la brama di vivere la più potenziata, con cui mai ci si sia aggrappati alla vita – per poi presentare il Cristianesimo come rinuncia, e per mostrare che essere cristiano è soffrire, incluso anche il fatto di dover soffrire per la dottrina.

C’è anche un’altra difficoltà nella posizione di Schopenhauer, che si potrebbe dire una specie di contraddizione. Prendiamo un’altra situazione. Maldicenze, calunnie, attacchi infami, ecc, non ignorano però la prudenza mondana, si guardano bene dal ridurre subito un uomo a un puro zero – per poter poi continuare ad attaccarlo di anno in anno nella massima misura possibile. Qui allora abbiamo un’autocontraddizione; perché, se egli è uno zero, diventa ridicolo il vedere tutti questi enormi preparativi per annientare uno zero. Lo stesso dicasi anche di tutta l’ascesi di S. L’ascesi cristiana riposa sull’idea che esistere non sia senz’altro soffrire; soltanto allora l’ascesi ha un senso. Ma se esistere è soffrire, l’ascesi diventa facilmente un eudemonismo[7], ciò che lo stesso S. urge contro gli stoici (†). Prendiamo un’altra situazione. Il Cristianesimo non è del parere che la ricchezza possa in un certo senso esser detta un bene, e proprio per questo dice: “Date tutto ai poveri”. Ma se qualcuno volesse dire: la tua ricchezza…, noi non avremo qui una contraddizione evidente, perché, quand’è così, non è ascesi dare via le proprie ricchezze.

In molti campi, per tutto quel che comporta dialettica, c’è un tale zelo, quel certo zelo di voler tanto inculcare la cosa seguente, che nel suo zelo toglie la prima e con ciò rende l’altra forse impossibile.

 

Note

[1] Cioè Søren Aabye Kierkegaard.

[2] Espressione proverbiale di origine nautica che indica la “seconda navigazione”, ossia la navigazione di riserva a cui si ricorre qualora quella d’elezione non sia praticabile. La seconda navigazione non indaga sulla spiegazione dei singoli fenomeni, ma usa la teoria delle idee per mostrare perché essi sono spiegabili. Le sensazioni senza il logos sono molteplici e vivide, ma non producono sapere, finché non le si rappresenta astrattamente sotto forma di concetti.

[3] Incantevole, affascinante, seducente.

[4]Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.”

[5] San Giovanni Climaco, noto anche come Giovanni della Scala, Giovanni Scolastico e Giovanni Sinaita (in greco antico: Ἰωάννης τῆς Κλίμακος; 525/575 circa – Monte Sinai, 603/650 circa), è stato un monaco cristiano. È venerato come santo sia dalla Chiesa cattolica che da quelle ortodosse. La sua opera più famosa è la Scala della divina ascesa (in greco antico: Klimax theias anodou) o Scala del paradiso, a volte tramandata con i titoli Tavole spirituali (Plakes pneumatikai) o Discorso ascetico (Logos asketikos), composta in lingua greca su richiesta di Giovanni, abate di Raithu. Scrisse inoltre il Liber ad Pastorem, una regola per i superiori dei monasteri forse ispirata alla Regula Pastoralis di papa Gregorio Magno. La Klimax descrive il metodo con cui riuscire a innalzare la propria anima a Dio, utilizzando la metafora della Scala. Il libro enuclea le principali virtù e i principali difetti della vita monacale, individuando nella tranquillità interiore ed esteriore (Esichia, in greco antico: ἡσυχία, hesychia) l’essenza della beatitudine mistica cristiana. Vi sono trenta gradini da superare, che corrispondono all’età di Gesù dalla sua nascita al battesimo nel Giordano e l’inizio del suo ministero. [Fonte Wikipedia]

[6] Dal francese, forse un vocabolo studentesco medievale, composto di gallus (gallo) e mathia (dottrina), utilizzato per indicare un discorso confuso e imbrogliato, formato di parole senza senso.

[7] Dottrina che considera naturale per l’uomo la felicità ed assegna alla vita umana il compito di raggiungerla.

 

Bibliografia

Søren Kierkegaard, Diario, a cura di Cornelio Fabro, Fabbri Editori, 1997

 

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