“La forza di essere migliori” di Vito Mancuso: l’etica dell’estetica

Mi piacerebbe leggere e commentare il tuo libro “La forza di essere migliori”, caro Vito Mancuso, come si fa con un poema, tentando una reazione il più possibilmente analitica dei versi più significativi. Ho colto nelle prime pagine una tendenza che hai a rendere icastica ciascuna affermazione principale, a cui provvedi poi a realizzarne un ampio corredo che la ospiti e la renda al contempo più splendente.

La forza di essere migliori
La forza di essere migliori

Ma cos’è psicologicamente meglio: il desiderio della libertà o la paura della liberta?

È la domanda di fondo che si pone Fromm in “Paura della libertà”. L’uomo ha bisogno di catene e, al contempo, di libertà. Questo crea il dissidio.

Oggi coloro che dispongono della sicurezza proveniente da una fede o da un’ideologia politica sono sempre meno.”

Il crollo delle ideologie è evidente esaminando il panorama partitico attuale in Italia. Non vi sono, nei nomi delle maggiori formazioni politiche, aggettivi ormai obsoleti come: cristiana, comunista, socialista, repubblicana, monarchica, liberale, che fino a vent’anni fa le caratterizzavano.

Abbiamo un potere fisico sul mondo quale mai l’umanità prima di noi ha avuto, che risulta però più forte del controllo che su di esso dovremmo esercitare.”

Si tratta di un’affermazione da dimostrare: secondo me il dovremmo deve essere sostituito da potremmo e/o vorremmo.

Alcuni sostengono che queste macchine in cui si condensa il nostro potere giungeranno un giorno non lontano anche a ospitare la nostra anima.”

Altra affermazione da dimostrare: si può ospitare qualcosa che non si sa se esiste? Popper lo dice chiaramente: Dio, anima, dogma o teoria religiosa: non si possono né falsificare, né dimostrare.

L’anima non è altro che un algoritmo.

(stesso ragionamento, da cui deduco: Vito, forse tu parti da un postulato, che l’anima esista, eccome! È un assioma? Oppure un dogma religioso?)

“… qualcosa di più sacro della natura?”

La Natura è tutto. Secondo Mircea Eliade il sacro è un qualcosa che interviene nella vita attuale: non c’era, c’è, non c’è. Il sacro è in quel c’è, ma, per quanto ne so, non si può che avvertire in quell’attimo eterno, al di là del tempo, che però prima o poi sfuma; ma, come la particella quantistica che, mentre la osservi, la tua visione di lei l’ha già modificata: quel che osservi non è più quello che volevi osservare. Il sacro, come la stessa verità, è fuggevole. È un terreno comune fra l’immanente e il trascendente: che dura l’attimo senza tempo. Sempre che non sia un’illusione. Ammettiamo che ci sia realmente, se nulla è più sacro della natura, che comprende il tutto, è come dire che Nulla è più sacro del Tutto. Si cade quindi nel paradosso o nel sofisma. Direi che la domanda andrebbe riformulata.

Alla nostra crescita tecnica non fa riscontro un’analoga crescita etica, e se il controllo si chiama politica, l’autocontrollo si chiama etica.

Non si può non essere d’accordo.

Senza formazione però le informazioni generano solo una conoscenza finalizzata al profitto.”

Idem. Purtroppo il profitto, come insegnava Padre Aldo Bergamaschi, è il male che inficia qualsiasi rapporto umano. Specialmente quell’aspetto della vita quotidiana su cui è fondata, secondo la costituzione italiana, la nostra repubblica: il lavoro.

Si tratta di adeguare la nostra volontà alla nostra intelligenza

Sono d’accordo.

Oggi iniziare a essere migliori è la via obbligata per sopravvivere

Sono d’accordo. Migliorando se stessi, si migliora automaticamente il mondo.

Il vertice, per definizione, spetta logicamente a uno solo.”

È una definizione molto cattolica, romana, papale. Da seguirne con cautela gli effetti.

Tendere a essere migliore significa avere come scopo il proprio sé.”

Certo.

Diventa ciò che sei

Questa frase di Pindaro dovrebbe essere lo scopo di ognuno, se il mondo non fosse in evoluzione. Ho l’impressione che quello a cui tu pensi, Vito, sia l’anima. Il corpo, la psiche, tutto ciò che è immanente, secondo Eraclito, si evolve scorrendo (con una quantità di moto sua specifica).

Essere se stessi senza pensare a se stessi

Vale come principio orientativo, ma, per le motivazioni testé espresse, non ha un senso onto-logico che si possa accettare così, tout court.

Pensare e vivere insieme

Essere consapevoli, certo.

La virtù è il più sicuro orientamento verso la felicità

Lo devi verificare. In bocca al lupo. Tifo per te!

La logica dell’essere, il suo principio costitutivo, la sua legge costituzionale, esiste e si chiama relazione.”

Anche questo lo devi dimostrare. Non dimenticare che viviamo in un cosmo dove oltre il novantacinque per cento delle cose sono oscure (energia e materia). Inoltre, ti pongo il caso di una particella di materia che si unisce (senza legame?) con una di antimateria. Insieme, producono energia sotto forma di fotone. Luce trascendentale? Da non dimenticare che il fotone non ha massa, né corpo, ma pare sia una particella sui generis, che disobbedisce al principio di Pauli (e da qui nasce il laser: tanti fotoni con lo stesso stato adiacenti l’uno all’altro). È un fotone e basta, per cui il tempo è nullo, e quindi, forse, è al di là dell’etica e del ben-essere che tu propugni.

“… per questo abbiamo bisogno dell’etica…”

Vito Mancuso - Photo by Giacomo Maestri
Vito Mancuso – Photo by Giacomo Maestri

Perché, tu dici, che l’uomo è l’unico essere vivente che può agire consapevolmente contro la propria specie, contro il proprio simile? Non ne sono sicuro. Ignoro se la tigre, animale in genere solitario, possa essere d’accordo con te.

“… disciplina che ci spinge a interpretare il nostro desiderio di vivere ponendolo in armonia con la logica relazionale che persegue il bene della specie o bene comune”.

Attendo fiducioso (ma non fideistico) la dimostrazione dell’efficacia della tua teoria.

“… oggi è noto che non esistono corpi semplici nel senso di non composti o senza parti, persino gli atomi non lo sono…”

I quarks, che tu citi altrove, lo sono; lo sono i neutrini, gli elettroni, i fotoni eccetera… Al momento, almeno. Chissà, forse anch’essi risulteranno in futuro dei composti. Di certo, già oggi, sono entangled, cioè relazionati col resto del mondo. Non ancora divisibili, ma già collegati.

“… non esiste nessuna sostanza, perché nulla esiste in sé e per sé, e tutto quello che esiste è un sistema.”

C’è infatti una teoria fisica che si chiama teoria del tutto, anch’essa, come la tua, da comprovare.

“… religio, da intendersi non nel senso ormai consunto di ‘religione’, ma nel senso etimologico di relazione originaria e fondante che lega, collega, accorda, raccorda ognuno di noi alla vita.

Qualcosa in me mi fa dire così: speriamo.

“… virtù come forza del bene, cioè come spinta che ci motiva ad agire per la giustizia, laddove motivo e motivazione hanno la stessa origine di moto e di motore, sicché la virtù appare come il carburante che accende e fa viaggiare il veicolo che noi siamo…

Pensavo al mio amico Massimo, che non ha la tua cultura, ma forse la tua stessa idea. Disse una volta: Un uomo che ha letto molto è come una Ferrari, che va più veloce di ogni altra macchina. Però deve avere nel serbatoio la benzina, altrimenti anche una lumaca la supera. E questa benzina, nelle cose di Dio, si chiama benzina.” Pongo a te e lui la domanda: se prego, per un qualche motivo mio interno, non si accende nulla. Sono guasto? È un problema di batteria?

Perché allora uccidiamo, rubiamo, mentiamo, tradiamo?

Quando tutta la nostra cultura ufficiale parte rivolta all’esaltazione delle regole dell’etica? Bella domanda.

“… una dimensione che risulta più importante del mio io e che mi obbliga a uscire da me stesso e obbedire, mettendo in atto azioni che, se ascoltassi unicamente il mio io, talora eviterei volentieri…”

A volte è un imperativo categorico.

Perché quindi bisognerebbe essere giusti, se l’ingiustizia, unita a un’opportuna dose di furbizia, può essere così conveniente?

Già!

Il problema non è esterno all’uomo, ma interno, non è politico ma esistenziale, o forse meglio spirituale.

Quindi nello spirito, nell’anima, vi è un quid che determina le scelte dell’uomo. Dove ho già sentito questo concetto?

“… all’etica il compito di raddrizzare la natura umana e la sua capacità di calcolo, sempre troppo interessata e tale da presentare calcoli contraffatti quando c’è di mezzo l’interesse personale…

Una battuta, che racchiude una verità: occhio che lo spazio è curvo!

Che cosa posso fare? Che cosa debbo fare? Che cosa mi è lecito sperare?”

Secondo te, a queste celebri domande di Kant, risponde, rispettivamente: la scienza, l’etica e la religione. In altre parole, dico io l’uomo. Tutti gli uomini. Ognuno a modo suo.

La mia risposta è che questo dovere esiste e consiste nello stare bene. O nel fare, ma nello stare, precisamente nello stare bene.”

Bene!

La virtù è la forza del bene”.

Attendo però lo sviluppo della tua teoria.

Avendo una morale si è su di morale; non avendo una morale, si è giù di morale.”

Ammetti che si tratta di un gioco di parole, basato sulla lingua, che non è poca cosa (anch’io lo penso: lei sa sempre quello che dice: lei, non noi, spesso, però). In altro luogo dicevi che la cattività, la prigionia, produce cattiveria. Ma sai benissimo che deriva da captivus diaboli. Che ci sia lui in quell’oscurità che pervade il 95% del cosmo?

Occorre lavorare per stare bene. Questo lavoro si chiama guarigione…

Buon lavoro, caro; nel frattempo, io vado a letto.

La fondazione dell’etica si risolve quindi in una questione prettamente estetica.”

Come spieghi tu, su ispirazione della Arendt: si evita ciò che non si può fare, che pare obbrobrioso.

L’etica quindi si gioca tra gusto e disgusto, e l’avere o no una vita virtuosa appare consistere ultimamente in una questione estetica, in un amore per la bellezza della pulizia

Erich Fromm
Erich Fromm

Poiché voglio provocarti, caro amico, ti rammento quello che pensava Fromm dei tipi come Himmler, che chiamava sadici-anali, i cultori morbosi della pulizia assoluta. Confido che vi sia un limite anche nell’igiene che stai proponendo.

L’etica è la forza di esistere che supera il mero desiderio di vivere e che ci rende migliori.

Da dimostrare. Ma mi piace.

L’etica è la manifestazione di questa superiorità dell’anima rispetto alla superficiale mondanità, superiorità dell’anima che si può anche denominare coscienza morale…

In natura non c’è un superiore o un inferiore, un sopra e un sotto, ma ti ho capito.

Affermo quindi che tutti i viventi presentano un’attività mentale e che tale produzione della mente corrisponde al primo significato di coscienza, la coscienza-base come cognizione del mondo e di sé all’interno del mondo, di sé come pezzo di mondo.”

Sono d’accordo con te. Ma a volte sento che anche gli oggetti abbiano una loro coscienza.

L’autocoscienza corrisponde alla consapevolezza di sé in quanto distinto per essenza da ogni altro fenomeno del mondo.”

A volte dico, a quel mio io: anche tu sei venuto da là. Come anche quel tale che sta passando sull’altro lato della strada. Come quel tombino su cui è incisa una sigla di sei lettere: e ciascuna lettera che la compone.

L’io in un certo senso si sdoppia, facendo sorgere quel fenomeno relazionale di dialogo tra sé e sé in cui consiste l’autentico pensare.”

Fra me e me. Purtroppo non sono ancora riuscito a conversare con il mio del passato e con quello del futuro. Vuoi ridere (si fa per dire)? Il mio che più vorrei conoscere è quel me che, su un letto d’ospedale, ormai centosettenne…

La coscienza morale è la classica istanza che suggerisce, proibisce, rimprovera, rimorde: la coscienza come voce, come giudice che sottopone a un esame, come tribunale.

Io sono un Gemelli, ne so qualcosa. Non ho mai creduto nell’astrologia; però, qui lo ribadisco, io sono un Gemelli.

“… non si butta via niente. Non vi sono cioè teorie interamente false, tutte sono portatrici di una parte di verità, perché ‘ogni filosofia è stata necessaria e tale lo è ancora.’

Questo relativismo filosofico, che nasce da Hegel e dalla disamina delle moderne teorie sulla coscienza, mi trova pressoché d’accordo. Andando oltre, si potrebbe dire che tutto è relativismo e che questo è un unico assoluto che comprende le cose che si sanno di questo universo (il 5% scarso, come ti dissi). Anch’io, come Dennett, non credo esista davvero quello che Kant definiva un giudice interno, che veglia sul doppio di sé. I nostri io sono, pirandellianamente, uno, nessuno e centomila. Ero io quello che a tre anni cadde e si ferì al labbro, come ero io quello che, visitato da uno specialista di Sassuolo, scoprì due anni fa che, in quella lontana caduta, si era prodotta una stenosi alla narice sinistra, che mi rendeva un po’ penoso il respirare. Ognuno di essi ebbe a che fare con un io-giudice immaginario, che dava però indicazioni attente su come agire. Quindi quel magistrato esiste solo nella nostra fantasia, chiamiamola pure teatrale. Egli esiste. Ognuna delle teorie che esponi contiene una briciola di verità. Ogni fenomeno però si ricollega alla teoria fisica quantistica, che prevede un’incertezza relativa all’osservazione, come indicato nel principio d’indeterminazione di Heisenberg. Ogni osservazione muta l’evento osservato. Questo vale anche nel nostro cervello: ogni informazione viene formata al momento, ed è in quell’attimo che si forma una coscienza che è continua, come una rivoluzione trotzkista. Vorrei andare oltre, pur con la consapevolezza che non si tratta che di chiacchiere teoriche, non comprovabili, né falsificabili al momento. Non esiste uno stato di coscienza che sia tale: come assicurava Eraclito, tutto scorre. Io non sto scrivendo queste righe, ma lo fa un insieme di fenomeni: i neuroni da cui spiccano innumerevoli sinapsi, la parte del mio cervello che in questo momento si sta adoperando per non scrivere sciocchezze e per far muovere le dita, stando attento a non produrre refusi, i miei occhi che controllano lo schermo, il nervo ottico che dà il suo contributo eccetera (si potrebbe continuare per ore). Se tu esamini lo stato di una particella, lo trasformi nello stato successivo. Inoltre, se tu emetti una particella con un acceleratore, non sai dove andrà a finire: non deciderà lei, ma il cosmo che, attorno a lei, la coinvolge a sé. Tutto questo accade nel tempo, che però, secondo Julian Barbour e, più recentemente, Carlo Rovelli non esiste. Quest’ultimo tenta di descrivere matematicamente l’esistente senza introdurre la variabile del tempo, ispirato, mi pare, dallo scienziato inglese, che descrisse la sua teoria in “The end of time”. Julian prevede un cosmo ridotto a stato unico, in cui il Tempo non scorre. Paragona la Storia del Mondo (che non esiste affatto) a una filiera a cui sono appese, con dei ciappetti, delle cartoline, che rappresentano allegoricamente lo stato del cosmo in un singolo istante. Il discorso è troppo complesso, per me, da capire pienamente. Immaginati se cerco di spiegarlo. Se è così, in ognuno di quegli istanti c’è un nostro ultra-minuscolissimo io.

Tra coloro che sostengono la possibilità della coscienza morale e dell’azione responsabile, e coloro che negano consistenza all’io e alla sua capacità di giudizio e di coscienza morale, non esito a stare dalla parte dei primi, anche se temo di rimanere in minoranza.”

Io credo che i secondi abbiano ragione, purché non guidino. Se il semaforo brilla di luce rossa, io mi fermo. Magari non sono solo io a decidere, ma principalmente decido di essere io ad aspettare il verde. Solo per due motivi: evitare incidenti e/o multe.

Mi riferisco a una specie di ispirazione, diversamente interpretata a seconda della tradizione, di appartenenza e della sensibilità personale, e denominata bene, giustizia, verità, bellezza, armonia, divino, o in altri modi ancora.”

L’anima ispira. Nonostante quella stenosi nella narice sinistra, sono d’accordo. L’ossigeno e l’azoto presente bell’aria sono due elementi essenziali della mia anima.

Che cosa intenda con auto-trascendenza? Con questa espressione mi riferisco all’esperienza di chi avverte, ora con una specie di urgenza, ora con pacata serenità, l’instaurarsi al proprio interno di un’istanza più importante di sé, e il conseguente farle spazio assegnandole il posto d’onore della mente e del cuore.”

Uscire da sé per magnificare sé. Esistere. Concetto interessante.

Dunque, ciò che ci salva dall’annientamento, o dall’essere un ‘semplice puntino’ nell’infinità dell’universo, è per l’appunto questo ‘io invisibile’, capace da solo a contrapporsi all’universo infinito.

Hannah Arendt 1954 (AP Photo)

Non condivido l’atteggiamento che si presuppone fondi la citazione della Arendt: la necessità di una contrapposizione. Si necessità qui di un’individuazione, di un sotto, un sopra, di un davanti, un dietro, di un destra, un sinistra. Concetti umani, ma non cosmici. Se io sono un puntino di questo cosmo, qualsiasi altro puntino lo è. Il cosmo non esiste, se non ci sono tutti i puntini. Esiste in virtù di tutti i puntini, nessuno escluso. È un insieme di puntini, ma non ha, intuisco, un potere gerarchico su nessuno di loro. Nessuno di loro ha un potere gerarchico nei confronti di nessuno. Non condivido neppure che il puntino sia solo un prodotto del cosmo, bensì anche un fattore del cosmo stesso. Un elemento costituente, positivo, non passivo. Participio presente, non passato. La conclusione che trai però mi trova solidale:

“… viene allora meno la contrapposizione e nasce la disposizione, non più ‘due cose’ ma un unico processo.”

Concordo.

Ma, questo, a mio avviso, lo ripeto, è secondario. L’essenziale è che questo auto-trascendimento si dia e che si giunga così a percepire il desiderio e la forza di essere migliori

La cosa che è secondaria, non è però piccola: credere nella trascendenza teologica o nell’auto-trascendimento non teistico. Non concordo del tutto, ma applaudo.   

La coscienza chiama in causa sia l’intelligenza sia la volontà, è l’intelligenza applicata alla volontà e la volontà applicata all’intelligenza.”

Va bene.

Ottenere un’evidenza sperimentale di questa energia non legata a un sostrato materiale, e tuttavia tale da incidere sulla materia, è possibile.”

Nulla di questo capitolo, che tu dedichi al quarto significato di coscienza, quello che riguarda a mistica, mi trova, non dico d’accordo, ma nemmeno solidale. Non sono però neanche in contrapposizione. La giudico, semplicemente, una teoria religiosa. Per quello che ne so, tutta l’energia si può trasformare in materia e viceversa. Dharma, prana, kundalini, tao appartengono a questo mondo come l’insalata di riso che mi sono pappato poc’anzi. Può essere che le energie citate siano sono solo più che ardue da raggiungere, ma non metafisiche. Se sono fisiche, sono legate a una forma di massa, in ossequio alla teoria albertiana.

“… ci sono attestazioni in tutte le grandi civiltà, si tratta delle esperienze di chi ha sentito di avere in sé una dimensione più grande di sé, una via che è sua ma che non coincide col suo semplice io.”

Se è più grande di me e di te (magari messi insieme), è reale, quantificabile e fisica. Ti vorrei proporre un insegnamento di Krishnamurti: per capire il mondo che si agita, occorre fermare il pensiero. Non del tutto, ma abbastanza per prendere le sue misure. Non è facile, ma a quanto dice il filosofo, è possibile, qui, ora. Non là, non quando sarà.

“… cos’è realmente in gioco nell’etica: non semplicemente un fare, ma più profondamente un essere.”

L’etica che dà forma all’essere? Non so. Non mi è ancora chiaro cosa tu intenda per essere. Esistere? Allora sì, sono d’accordo.

“… questa logica originaria di armonia relazionale che governa i nostri corpi e che in alcune situazioni particolari fluisce spontaneamente deve passare attraverso l’energia libera che chiamiamo volontà, e anche libero arbitrio, al fine di potersi realizzare stabilmente nelle nostre relazioni e nelle nostre attività. Per questo necessita di una forza che agisce su di essa. Tale forza è la virtù.”

La virtù è una forza, una grandezza vettoriale che si manifesta quando due corpi vengono a contatto, quando si relazionano: un agente di bene. Ma, occhio!: una forza deve essere capace di modificare lo stato di quiete o di moto di un corpo; se applicata a un corpo non rigido ne causa la deformazione. Chi esercita la virtù decide come e quanto deformare il prossimo, magari amandolo, ma facendone oggetto di violenza (da vis, forza). Fatto interessante quanto pericoloso.

La virtù è quindi ciò che permette di realizzare la peculiare opera o dovere di un essere umano”.

Assomiglia a una volontà di potenza, o, meglio, a una potenza della volontà: il poter realizzare se stesso.

La virtù quindi ‘verrà ad essere ciò che mira al giusto mezzo’

La giusta misura per ottenere un risultato. In fisica tutto accade in modo quantistico. Né più né meno di quel che serve.

La virtù si configura come un vertice.”

La frase di Aristotele significa, come tu spieghi:raggiungere l’eccellenza”. Non sprecare energia, non esagerare, ma usare il giusto mezzo, l’aurea mediocritas.

Forza e precisione insieme costituiscono i due aspetti della virtù”.

Fai l’esempio del tiro con l’arco: bisogna avere la giusta forza per tendere l’arco, nonché avere buona mira: entrambe le condizioni servono per centrare il bersaglio.

La virtù è un ‘abito operativo’, più precisamente ‘un abito buono, fatto per compiere il bene.’

Non si può essere virtuosi a tempo parziale o intermittente. Occorre esserlo abitualmente.

“… sono disposto a fare della pratica del bene, dell’evitare il male, del limitare il più possibile la sofferenza altrui, una stabile abitudine delle mie giornate? Se sì, si è sulla via della virtù; se no, no.”

Ottimo.

“… chi è virtuoso scorre…”

Tutto scorre, il virtuoso di più.

Questa levitas-leggerezza infonde ‘grazia, garbo, amabilità’, e produce in chi la ospita una forza centrifuga come distanza da sé, distacco da quello che si dice e si fa, un troppo prendersi-troppo-sul-serio che genera autoironia e umorismo, e quindi amabilità e simpatia. Da qui le virtù leggere che derivano da ciò che il taoismo chiama ‘non agire’…”

Dato che non si può (fino a prova contraria che falsifichi il suddetto ‘tutto scorre’) non agire, intendo: agire il meno possibile. Questo ricorda la minor azione possibile che informa l’azione delle particelle quantistiche; nonché la geodetica, cioè lo spazio più breve che necessariamente percorre un corpo fra due punti: senza deviazioni tendenti allo spreco, quando non anche alla devastazione.

Nel concetto di virtù è in gioco una relazione: quella tra noi e il bene.”

E qui viene il bello. All’inizio del capitolo, tu indichi l’etimo della parola morale: da mos-moris, che significa volontà, usanza, regola; e di etica: da ēthos, che vuol dire dimora, usanza, carattere; che ha assonanza con ethos, che vuol dire abitudine, uso, costume. Verrebbe da dire, ‘O tempora, o mores!’ Ogni tempo (e spazio) di solito ha la sua mos, la sua ēthos/ethos.

Dove sto andando? Vado avanti o torno indietro? Per rispondere occorre avere dei criteri di base a cui giudicare cosa è avanti e cosa è indietro per il bene della nostra esistenza.”

Nel cosmo non c’è un avanti e un indietro. Però, in via Adua ci sono due sensi di circolazione e tre semafori. Che in genere rispetto.

“… fornire tali criteri è esattamente quanto si propongono le virtù cardinali (da cardo, cardinis, cardine)”

Sono delle specie di navigatori psichici.

Vi è una logica che lega tra loro le quattro virtù, comprendendo la quale si comprende anche l’ordine con cui vengono nominate. Tutte agiscono sulla volontà, ma ognuna secondo un’angolatura particolare: la prima agisce sulla volontà in gioco nella conoscenza, la seconda agisce sulla volontà come organo della decisione, la terza agisce sulla volontà come sorgente della resistenza e della perseveranza, la quarta agisce sulla volontà alle prese con le proprie passioni.

La saggezza è volta a capire, la giustizia a decidere (su cosa è giusto), la fortezza a opporsi ad eventuali reazioni negative e contrastanti, la temperanza a dominare se stessi, le proprie paure e i propri eccessi emotivi.

… il primato ontologico spetta alla relazione e non alla sostanza, ma il primato etico spetta alla morale individuale e non alla morale sociale.”

Per capire la natura del cosmo occorre capire le relazioni fra i corpi che lo compongono. Per scegliere come comportarsi quello che conta è l’individualità. Il dovere verso il mio io è il più importante, nella morale individuale.

Lo scopo finale della vita non è sociale ma strettamente individuale e consiste nel ‘salvare la propria anima’, esprimibile anche con la formula ‘realizzare se stessi’.”

Concetto terribile, ma assai utile per vivere al meglio.

… una virtù è tanto superiore quanto più è in grado di rinnovare alla radice la vita del singolo.”

Questo farmaco ci permette di restare vivi, vegeti e forse anche perennemente giovani.

Il fine della prima virtù può essere descritto proprio come una specie di smascheramento, o svelamento, del reale”.

Non è facile smascherare, togliere la maschera alle cose, per vedere la loro realtà. Essa esiste con una sua verità, ma quest’ultima varia a seconda dell’osservazione, dello smascheramento. Smascherare significa qui togliere una maschera, per mettercene necessariamente un’altra: mutarla. Tutto questo per il solito problema dell’indeterminazione che accompagna qualsiasi tentativo di osservazione. Qualsiasi tentativo di cogliere la verità della realtà, cioè la loro essenza, è destinato a fallire, in quanto non appena ci si avvicina, la verità, fuggevole e mutabile, diventa un’altra. Questo però non toglie che chi guida deve farlo con saggezza e seguire con attenzione la variazione dell’illuminazione del semaforo.

“… credo di intuire che nella sua irrazionalità la Follia di cui Erasmo fece l’elogio è l’espressione umana di ciò che a livello fisica rappresenta il magma primordiale in cui consisteva l’essere originario…”

Tu poi parli del cháos, col suo significato di abisso, per comprendere il quale bisogna affidarsi a quello che La Rochefoucauld definiva ‘la voce notturna’: essere disposti ad accogliere nella propria disanima del reale, anche di certi aspetti terribili, senza di cui la stessa bellezza non può essere esaminata. Amo questa tua concessione alla trasgressione. Non sono certo che abbia un senso, ma sento che forse ce l’ha.

La luce che guida l’utilizzo della conoscenza è la saggezza.

È quindi paragonabile a una torcia che illumina l’oscurità.

Sophìa, in latino sapientia, indica quella particolare disposizione della più preziosa energia della mente mediante cui la disposizione cognitiva si unisce in noi alla dimensione volitiva, l’intelletto si sposa con la volontà, producendo l’atto integrale di chi sa e insieme sa motivare e indirizzare il suo sapere.

Non si tratta solo di avere una macchina dotata di un motore potente, ma anche di avere le idee chiare su dove andarci e avere voglia di guidare.

La più alta produzione della mente è quindi l’intelligenza usata per il bene: la sapienza. C’è un sapere teoretico (l’intelligenza pura), c’è un sapere pratico (la saggezza): l’unione dei due produce la forma più alta del sapere…”

Riuscire a capire i segni del mondo ed essere capaci di manipolarne gli enti, al fine di produrre la sophía “dove il sapere coincide con l’essere”, capace di produrre il bene. Il problema (primo, secondo, terzo… e ultimo) rimane però quello di definire cos’è il bene.

Affermare il primato della giustizia sulla vita significa compiere il passaggio dal vivere all’esistere.

Cardinale Carlo Maria Martini
Cardinale Carlo Maria Martini

Hai citato dapprima Carlo Maria Martini, che estende il primato della giustizia anche a Dio. Poi riporti la frase con cui il confuciano Meng-tzu privilegia l’importanza della giustizia anche rispetto alla vita. Il problema che ti pongo è il solito: come si fa ad essere certi della giustezza della propria giustizia? Ogni giudizio umano è sempre passibile di incertezza. Si tratta di interpretazione dei fatti, non di conoscenza assoluta. Assegnare alla giustizia un primato significa correre il rischio che ogni giudizio, magari fallace, crei ingiustizia. Fosse per me, dichiarerei il primato della saggezza. Solo da una mente savia ci si può aspettare una giustizia meno ingiusta possibile. E mai, però, la certezza della giustizia. La Storia è piena di giustizie stolte, di santi uomini giustiziati da uomini malvagi. Anche questa seconda virtù cardinale ha rivelato le sue probabilissime crepe, purtroppo.

Per il cristianesimo dottrinale nessun uomo è naturalmente giusto, né lo può diventare da sé; può essere solo reso giusto.”

Ti chiedo quale metodo, macchina o Ente può ispirare in me (e in te) la giustizia assoluta? Io credo nessuna. Ogni giustizia è pertanto relativa, e fallibile.

Secondo me, Lucilio, c’è in noi uno spirito sacro.”

Così dice Seneca, forse il più ‘cristiano’ tra i pagani.

Questa presenza non dimostrabile, ma non per questo non sperimentabile e non sperimentata, si può chiamare ‘verità’, come Agostino.”

La divinità non è dimostrabile, dice Popper. Ma tu assicuri che si può sperimentare dentro di sé, nel senso indicato da Galilei? Ho fortissimi dubbi. Ma non ho nemmeno vaghe certezze. Questo forse mi differenzia da te. In fisica, che appare come la forma di scienza più esatta in quanto rigidamente collegata all’analisi dell’esperienza e all’interpretazione matematica, si parla soltanto di precisione e accuratezza. Non si parla mai di esattezza. L’uomo può soltanto raccogliere dati, senza mai esigere nulla di assoluto. L’esattezza alla fine, non è una pretesa definitiva, ma qualcosa a cui tendere. Uno strumento è preciso se, ripetendo le misure su una singola quantità, i valori registrati non differiscono molto l’uno dall’altro. La precisione costituisce una misura del grado di variabilità. Essa c’è però sempre, e muta il giudizio sulla cosa esaminata. L’accuratezza, d’altra parte, ci dice quanto il valore medio delle misure si avvicina al risultato corretto. Come misuri Dio il mondo, come lo giudichi, è, purtroppo, affar Suo, sempre che Lui esista però: verifica non realizzabile, teoria non falsificabile, né attestabile. A prescindere da questo, io apprezzo il metodo che tu indichi come modo per migliorare la propria capacità di giudizio, cioè di giustizia:

La risposta è: lavorando su se stessi.”

Ci sto provando, anche grazie a te.

“… la giustizia interiore è ciò che scaturisce dal dialogo con se stessi, è il prodotto di un dialogo onesto tra sé e sé.”

Sono d’accordo. È un lavoro in fieri, sempre permanente e provvisorio. Ma vale la pena provarci.

“… vivere compiendo il viaggio della vita implica partire, ma si parte necessariamente da un punto e quindi si è per forza di parte.”

Il punto è quello di partenza, che è invece solo un punto di transito: non si parte da un punto, ma si passa da un punto all’altro.

Ogni esistenza quindi è partizione, proprio nel senso di spartizione, di divisione, è una prospettiva particolare che non coinciderà mai con l’intero.”

Mai, perché il punto di partenza è all’origine del tempo, il primo attimo del cosmo, quando cominciò quest’illusione, direbbe Barbour.

“… il vero non può essere nominato da nessuno, perché tutti partiamo da un determinato punto e seguiamo una determinata linea con la conseguente inevitabile negazione delle altre.”

Non concordo su tutto. Noi seguiamo una lingua curva (geodetica), deformata dalla gravitazione altrui; anche l’altro lo fa: ognuno di noi deforma le linee curve altrui. La saggezza e la giustizia necessitano di tale consapevolezza. Tu parli di “consapevolezza della propria fallibilità e quindi della propria ingiustizia.Ti suggerisco invece il concetto di “quantità di moto” che produce, insieme alla propria posizione, cioè il punto, la nostra caratteristica di corpo inserito in un campo gravitazionale. Entrambi queste variabili sono indeterminate (teoria forte), oppure indeterminabili per qualunque osservatore (teoria debole, a cui mi sento più vicino).

È attraverso questa ricerca di equilibrio tra la mia parte e la parte altrui sulla bilancia della mente che conseguo equanimità e divengo giusto.”

Questa ricerca si chiama saggezza e questo è il motivo che è da essa che deve derivare la giustizia. Ne occorre tanta per avere l’umiltà necessaria di sommare il proprio giudizio a quello altrui, magari antagonista, e cercare una mediazione. Se il tuo interlocutore ti assomiglia, non ci sono difficoltà. Ma se è un essere spregevole, diventa assai più arduo compiere quel conteggio.

“… giudicare è piuttosto orientare verso la giustizia compiendo veramente l’atto di ius dicare…”

Quindi scegliere fra buono e cattivo, fra giusto e ingiusto, con un dito, pur umile che sia, quell’indice. Anche qui, la parte del capitolo che più apprezzo è quando parli di epicheia, di equità, cioè l’aggiustamento non ingiusto del giudizio, cioè l’adeguamento dello stesso al caso in questione. Se la giustizia dev’essere fondata sulla verità, a volte è ammessa una bugia pietosa, fatta di com-prensione,nel duplice senso del termine, cioè capire e contenere, tutti i casi della vita concreta.” Motivo per cui, ad esempio, un bimbo di pochi anni e un pazzo devono essere giudicati con occhio diverso da chi è in grado di intendere e di volere. E ora, sai che facciamo?, passiamo alla fortezza…

La forza, in altri termini, è la dinamica che consente all’essere di essere ordine e non solo caos. Che cos’è infatti l’essere? È energia.”

La forza è una misura dell’interazione fra due corpi (o più), facendo riferimento alla capacità di variazione dei corpi stessi. È l’energia che muove un mezzo, ma anche quella che spezza un legame, o lo crea. Che riduce in polvere o che costruisce. Come dici tu, la fisica moderna stabilisce che ogni essere, ogni massa è energia. A pagina 182 dici: “… e se credo in dio” (o forse meglio, in un  Dio); a pagina 198 citi un verso biblico: “Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e creo il male; io, il Signore creo tutto questo.” E, subito dopo, lo traduci così: “Io faccio quello che mi pare perché non devo rendere conto a nessuno.” Poco avanti riprendi un verso della traduzione del Corano (essendo il Corano, notoriamente, solo l’originale arabo): “Egli perdona chi vuole e punisce chi vuole”. Anche Don Giussani (o, in ogni caso, l’effettivo autore di “Perché la Chiesa – Tomo I”) scriveva “Dio sceglie chi vuole”. In caso di sua assenza, forse, qualcuno sceglie per Lui. Tutte queste citazioni mi cnvincono che tu sei un uomo onesto e giusto, perché saggio e, intuisco, dotato di fortezza. Confido anche nella tua temperanza. Interessante quello che dici di Richard (Wagner), la cui musica turbava (si può dire alla follia?) Adolf (Hitler), che non gradiva forse Ludwig (Van Beethoven). Sic transit gloria mundi: Theodor (Adorno) si emozionava ascoltando Franz (Schubert), ma non amava troppo Ludwig. Ma ora, come già nei due precedenti capitoli, so apprezzare il tuo elogio della debolezza. Lo condivido.

Padre Aldo Bergamaschi
Padre Aldo Bergamaschi

Nell’altro tuo libro che lessi (“Io e Dio”), nel sottotitolo citi un’opera di Maimonide “La guida dei perplessi”. Ti chiedo (sapendo a quale tribù appartieni) se quell’arguto ebreo ti abbia ispirato nel tuo comportamento, più che nella tua ricerca. Io frequentai, da ignorante di Dio, per molti anni, la messa di Padre Aldo Bergamaschi e lui una volta confidò che lasciava aperta qualsiasi ipotesi su Dio. Anche lui, come Francesco, voleva però lottare contro l’errore umano stando all’interno del sistema: e non da eretico. Gli fu poi tolta la messa e la predica in pubblico per vari anni, una settimana prima dell’arrivo a Reggio di Papa Wojtyla. Strana tribù, quella dei cattolici.

La temperanza è una sorta di ordine, un dominio imposto a certe passioni e desideri…

La frase è di Platone e configura la quarta virtù cardinale come quella che, più di altre, fa superare se stessi.

Più di ogni altra virtù, la temperanza presuppone il libero arbitrio.”

Il libero arbitrio è quello che può farci cadere nelle trappole della vita, oppure predisporre un cammino prudente. Forse questo è il capitolo meno emozionante, più temperato, ma anche più ricco di descrizioni etimologiche. Sappi che questo tuo libro mi è stato regalato da una persona che mi fece altresì scoprire una di quelle nozioni tanto semplici quanto nascoste: etimo deriva dal greco etymon-etymos-eteos-set-teos, dal sanscrito sat-yas -anglosassone soth– io sono: ciò che è. Non è la verità, ahimè fuggevole, ma è quel che più le assomiglia. E in questo gioco tu sei un virtuoso al di là delle tue quattro virtù.

“… questa virtuosa intemperanza, che potremmo definire anche passione, non riguarda solo la vita religiosa, ma anche la pratica filosofica.”

L’intemperanza in genere conduce a pro-creare l’amante, il poeta, il filosofo, lo scienziato a procreare. Guai se non ci fosse. Anche se normalmente produce una qualche forma acuta di dolore. Anch’egli, insieme a tutto il resto, però partecipa a quell’evento unico (non si sa se irrepetibile) che si chiama Natura, e che:

“… vive un universo fertile e bioamichevole, e il suo essere qui non è un incidente casuale e maligno ma la scaturigine di una logica materna (materia mater), con la conseguenza che la nostra vita è solo nostra, e che la nostra realizzazione si compie mediante la relazione con altri…”

Ottimo discorso; poi parli dell’etica, che:

Non è mai arrivata a una fondazione universale e che mai vi arriverà. L’etica vive della libertà, quindi per definizione non è fondabile.”

Hai finalmente ammesso la tua sconfitta filosofica. Che poi volgi sapientemente in vittoria (un po’ come nel judo dove, per fare perdere l’equilibrio all’avversario, occorre rinunciare parzialmente al proprio):

“… questo appello, infondato e indimostrabile sul piano logico, una volta accolto nell’interiorità diventa per il soggetto molto più forte ed efficace di un assioma di geometria perfettamente fondato e dimostrato.”

Poiché, tu dici, la libertà individuale, che “toglie forza all’etica nella sua origine, dall’altro gliene conferisce in abbondanza nella sua operatività”. E poi dai il colpo di grazia allo scettico (che ti sta leggendo):

L’etica non vivrà mai in una deduzione diretta dalla scienza e in questo senso dall’essere non deriva e non può derivare direttamente il dover-essere; vivrà sempre come interpretazione della logica naturale che mette in gioco la libertà perché ognuno di noi risponda a questa domanda radicale: io, che tipo di essere umano voglio essere?

La mia “coscienza personale”, pur essendo attirata fortemente dai due miti che prospetti al lettore “bisogno di guarigione” e “desiderio di bellezza”, ti rispondo.

  1. Tu hai vinto
  2. Io no o, meglio, per ora no.

La materia mater è in realtà figlia, di NN. Albert (Einstein) parlava di un principio (assimilabile a un dio) celato nella natura, da cui tutto dipendeva: un dio non personale, ma logico. Partendo dalle sue equazioni gravitazionali, il lavoro di vari scienziati portò, nel 1949, il fisico Fred (Hoyle) a formulare l’ipotesi del Big bang: da una singolarità iniziale, in un tempo finito, l’universo si è mosso, creando lo spazio in cui muoversi, partendo da una condizione di curvatura, densità e temperatura non infinite, ma incommensurabili. Questo reca la successiva domanda: come finirà? Due sono le ipotesi (contrastanti):

  1. il big crunch (il grande scricchiolio), per cui tutto tornerà indietro, alla singolarità iniziale;
  2. l’estrema realizzazione dell’entropia, del disordine cosmico: tutto sarà disperso al minimo della temperatura, cioè il cosmo finirà di espandersi poiché è finito il carburante, e il veicolo è gelidissimamente immobile.

Nel frattempo, come bisogna vivere? Credo al meglio, per cui ti dico che hai vinto. Meglio è un accrescitivo di bene, perciò sono contento di aver letto il tuo libro: mi ha riscaldato il cuore. Mi ha conferito energia. Però… Poniamo caso che un giorno venga avvistata un’astronave immensa come la Val d’Aosta, e che questa plani nella pianura di Foggia (l’unica forse in grado di ospitarla), mi recherei immediatamente sul posto (lasciando prudentemente la famiglia a casa). E ora ti faccio la psico-cronaca di quello che sto vedendo in diretta:

È finalmente planata! Una scala sta scendendo verso il suolo. Ora si è aperto lo sportello, anch’esso smisurato. Ed ecco che esce un individuo. Oh! ma è’ bassino! Ma… quello io… lo riconosco! È lui, è Biglino! E che ci fa lì. Biglino scende qualche gradino e poi si gira verso il velivolo. Accidenti! E che è questo energumeno qua?! Un essere, alto almeno sei o sette metri (più di una giraffa), dal fisico possente (più di un gorilla) e dagli occhi terribilmente scuri è apparso! Chi sei!? Tu non puoi essere il Dio di Abramo! Tu non puoi essere un Dio! Tu sei un animale esattamente come me! Anche tu fai parte della materia mater di cui cianciava Vito! Vito! Dove sei ora?!? Una voce stentorea come mai fu data sentire ruggisce: “Chi… chi di voi… sta mettendo in dubbio la mia natura divina?!?” Bene, mi dico, è telepate, ma non onnisciente! Nel dubbio però, mi son già inginocchiato…

“… Dio cioè non come una persona (magari lo è, magari non lo è, nessuno lo sa), ma come punto che attrae, come centro di gravità, come Idea, per riprendere il termine caro a Platone e a Kant…”

Grazie, Vito.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Vito Mancuso, La forza di essere migliori, Garzanti, ottobre 2019

 

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