Intervista di Beatrice Tauro a Michela Manetti, autrice del libro “Ho sposato un musulmano. Italiane in cerca d’amore tra sogni, conversioni e truffe”

Ho sposato un musulmano. Italiane in cerca d’amore tra sogni, conversioni e truffe” è un interessante volume pubblicato da Castelvecchi nel 2019.

Michela Manetti
Michela Manetti

Un titolo intrigante, che suscita curiosità per un fenomeno non molto affrontato dal panorama letterario e/o sociologico italiano.

Parliamo della nutrita schiera di donne italiane che si innamorano e a volte sposano uomini arabi, spesso incontrati su spiagge esotiche, quando fra una danza del ventre e una chiamata del muezzin finiscono fra le braccia di egiziani, tunisini o marocchini, rigorosamente musulmani.

Quali sono le storie di queste donne? E quali sono i meccanismi della seduzione che mettono in atto i giovani arabi per conquistare donne emancipate e libere, come ci definiamo spesso noi occidentali? E poi, una volta convolate a nozze, quale destino le aspetta?

Ne abbiamo parlato con l’autrice, Michela Manetti, insegnante di italiano in Germania, studiosa di Medio Oriente e soprattutto di lingua e cultura iraniana.

 

B.T.: Come nasce l’idea di questo volume? Pura curiosità, oppure?

Michela Manetti: L’idea del libro è nata per caso dopo anni passati su internet con altre donne che, come me, hanno un compagno proveniente dal cosiddetto “mondo arabo”. Quando ho conosciuto mio marito oltre cinque anni fa non sapevo niente del mondo islamico né dell’Iran (mio marito è iraniano). Mi sono trovata a confrontarmi con un mondo a me sconosciuto e non sapevo con chi confrontarmi, perciò ho fatto quello che fanno tutti: sono andata su Google. Da lì poi è stato un crescendo, un arricchimento continuo. Non solo dal punto di vista dell’erudizione sulla religione, la storia, la situazione politica, ma soprattutto dal punto di vista umano. Sono più di cinque anni che vivo immersa in questo mondo, ho letto tantissime storie e con alcune delle protagoniste ho un’amicizia che è uscita dal mondo virtuale e si è trasformata in un’amicizia in carne e ossa. Con questo libro ho voluto scattare una fotografia immortalando una realtà che esiste da anni e che non volevo si perdesse. Delle vere e proprie storie di formazione, al pari di un Bildungsroman, dove ci si può riconoscere, immedesimare, prendere le distanze, imparare dagli errori altrui.

 

B.T.: Ci puoi spiegare la metodologia che hai utilizzato visto che il libro si basa su una serie di testimonianze dirette di donne italiane che hanno sposato un uomo musulmano?

Ho sposato un musulmano
Ho sposato un musulmano

Michela Manetti: All’inizio mi sono lasciata guidare dall’istinto. Alcune storie mi avevano colpito poiché paradigmatiche di elementi ricorsivi comuni a molte altre storie minori per dettagli o approfondimenti. Rileggendole, in modo quasi ossessivo, ho iniziato a vedere che c’erano effettivamente dei modelli che si sono poi trasformati nelle cinque categorie: la sognatrice, la convertita, l’amazzone, la vacanziera e la truffata. Sui forum poi le storie non sono mai raccontate dall’inizio alla fine, ma sono pagine e pagine di botta e risposta con altre utenti, alcune storie sono durate anni. Il mio lavoro è stato lungo e certosino, per recuperare la storia frammentata come si fa con un mosaico da restaurare, ricostruendone il percorso e dandone una direzione lineare, sforzandomi di mantenere la voce di chi scrive. Il mio è infatti un libro corale: ogni storia è scritta in prima persona e, nonostante il mio intervento di assemblaggio e compressione, hanno un loro stile personale. Mi sono messa in disparte per lasciare loro la possibilità di raccontare la propria verità, per questo motivo la mia storia non c’è. Non volevo essere protagonista, volevo solo essere Virgilio che guida i lettori in questo mondo. Le storie sono la prima parte del libro, nella seconda parte mi sono concentrata sugli aspetti più tecnici spiegando in modo sintetico cos’è il matrimonio temporaneo, qual è la legislazione per l’ottenimento del permesso di soggiorno o di un visto turistico, cos’è l’Islam, ma anche qual è la situazione socio-economica dei Paesi Islamici, il gender gap, attraverso le statistiche del World Economic Forum. Tutto però al servizio delle storie: non voleva essere un trattato di sociologia, bensì volevo offrire degli strumenti tecnici per capire in che contesto queste relazioni nascono e si sviluppano.

 

B.T.: Dalla lettura delle varie “categorie” di donne emergono dei cliché, luoghi comuni su queste donne di varia età ed estrazione sociale che partono per vacanze in luoghi esotici e finiscono irretite dal belloccio locale. Sembra che ci sia una nutrita schiera di donne in cerca di avventure. Secondo te è plausibile ritenere che ci sia questa tendenza della donna italiana alla ricerca di amori trasgressivi, esotici, misteriosi?

Michela Manetti: Sì e no. L’amore sotto l’ombrellone è sicuramente uno dei più grandi cliché della storia dell’umanità, oserei dire. Però è vero che c’è un fenomeno in crescita delle avventure. È la normale evoluzione della società dopo la rivoluzione sessuale del ’68, il femminismo, l’approvazione della legge sul divorzio, l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro e quindi l’accesso alla propria indipendenza economica. Cinquant’anni fa non era immaginabile per una donna prenotare una vacanza da sola in Egitto e pagarla con i propri soldi. Dal punto di vista delle libertà personali è un meraviglioso passo avanti, il rovescio della medaglia è però il fenomeno crescente del turismo sessuale. Duole dirlo, ma non sono più solo gli uomini a pagare il sesso mercenario di giovani poveri, sono anche le donne. Dal lato opposto invece c’è un altro fenomeno altrettanto in crescita: quello di identificare l’uomo arabo come archetipo del “padre di famiglia”. Sono in molte infatti a lamentarsi della scarsa mascolinità e propensione degli uomini italiani a “fare famiglia”, sposarsi ed essere padri. Molte divorziate o nubili dopo anni di convivenza naufragata che sognano ancora l’amore tradizionale fatto di abito bianco e figli. Sogno insoddisfatto, a detta loro, per colpa degli italiani mammoni, si rifugiano in uomini arabi che considerano più macho e più uomo di altri tempi. Non c’è da biasimarle. Pensiamo al modo in cui parliamo delle divorziate, o delle vedove, chiedendo loro “non ti rifai una vita?”, come per indicare che senza un uomo la propria vita sia incompleta. Poi ci lamentiamo sul modo in cui questa vita se la “rifanno”. Ancora adesso una donna sola è considerata una donna imperfetta.

 

B.T.: Ma chi sono questi uomini?

Michela Manetti: Nel caso del mio libro sono lavoratori del turismo e del suo indotto: camerieri, guide turistiche, esperti di immersioni, commessi del bazar. Nella maggior parte dei casi sono sottoproletari, scarsamente scolarizzati, provenienti dall’entroterra egiziano, alcuni addirittura figli di poligami. Vivono con un lavoro precario e sottopagato, arrotondano lo stipendio prostituendosi o facendo l’accompagnatore di turiste (non necessariamente consumando un rapporto sessuale ma accettando denaro e regalie). La situazione dei villaggi turistici sul Mar Rosso è nota da anni, ci sono anche diversi articoli di giornale al riguardo. Nel mio libro definisco questi villaggi una moderna Sodoma e Gomorra: è frequente il caso della turista che sposa un egiziano con l’Orfi, un matrimonio temporaneo, per poterci andare a letto, pagando prestazione sessuale, costo dell’avvocato per la stesura del contratto Orfi, taxi, ristoranti e bevande. Per molti uomini la turista occidentale è sia la gallina dalle uova d’oro da sfruttare economicamente sul momento, che la possibile moglie da usare per avere un passaporto europeo. Avere un visto turistico è quasi impossibile, viaggiare è perciò escluso e l’Europa è vista come un Eldorado dove poter uscire dalla propria condizione di miseria. Umanamente capisco la condizione infame in cui vivono e il loro desiderio di una vita migliore. Non posso però approvare le truffe romantiche che mettono in atto per raggiungere i loro scopi. Stessa cosa vale per la turista che non si fa scrupolo a comprare il loro corpi.

 

B.T.: Cosa succede poi alle donne che scelgono il matrimonio con uomini di un’altra religione e la cui vita sociale è fortemente condizionata dalla tradizione? Per esempio il tema del velo che tanto popola il dibattito sulla relazione fra donne e islam.

Michela Manetti
Michela Manetti

Michela Manetti: Di velo se ne parla fin troppo. In taluni ambienti, lo si loda addirittura toccando punte quali suggerire una fede così forte e incrollabile da passare dal semplice velo al niqab. In realtà, le donne che più parlano di velo sono le stesse che non lo indossano se non il venerdì nel tragitto casa-moschea. Nel quotidiano non lo mettono, soprattutto al lavoro. Non è un mistero che la donna musulmana (convertita o meno non fa differenza) sia oggetto di una doppia discriminazione: come donna e come musulmana. Peggio ancora se migrante. Quindi di velo se ne parla tantissimo, si fa molto proselitismo tra le nuove leve, ma poi non lo si indossa veramente. Quello invece che cambia davvero è il resto dell’abbigliamento. Addio gonne, addio magliette con lo scollo a V: indumenti coprenti e modesti, come una “vera” musulmana. Stessa cosa vale per alcolici e maiale. Fuori dalla dispensa in modo permanente. Piccolo inciso, le sincere conversioni all’islam per amore di Allah sono poche. È più un voler aderire alla cultura di lui per fargli piacere e per aderire alla propria idea della brava moglie devota. Quando poi ci sono i figli, o il discorso figli, allora la levata di scudi prende un’altra forma. I figli devono essere musulmani, la madre può anche tenersi il suo cattolicesimo. Non sono tutti così, ma la tendenza è questa. Nel libro racconto di un uomo che alla domanda di lei se gli eventuali figli potessero essere cristiani ha risposto che, cito testuali, “chiedergli di avere dei figli non musulmani è come chiedergli di uccidere una persona”. Un caso estremo? Sicuramente. Ma che la religione dei figli la stabilisce il pater familias lo dice la prassi religiosa. Affrancarsi da certe tradizioni o precetti religiosi è uno sforzo che per chi ha una scarsa scolarizzazione è molto difficile. Sono generalmente i più istruiti e urbanizzati ad essere anche più secolarizzati. In estrema sintesi credo però che non ci sia né uno scontro di civiltà né una guerra di religione, credo altresì che vi sia un problema di classe sociale e lotta di classe: c’entra più Marx che dio.

 

B.T.: Mi ha molto colpita il confronto e il conforto che molte di queste donne cercano all’interno di questi forum online, come se ad un certo punto si sentisse la necessità di condividere la propria esperienza, nella ricerca di approvazione o, al contrario, di rigetto delle scelte compiute. Tu come la interpreti questa tendenza?

Michela Manetti: I forum sono il social media che preferisco in assoluto. Un grande club virtuale dove si partecipa animati dagli stessi interessi ma soprattutto dal bisogno di sfogarsi. Non è facile trovare qualcuno con cui condividere certi lati oscuri della propria relazione e il bisogno di confrontarsi, di avere una pacca sulla spalla, è molto forte, soprattutto quando fuori tutti ti dicono “marito e buoi dei paesi tuoi”. Ovviamente c’è anche una parte di esibizionismo, nonostante l’anonimato, il desiderio di voler essere la capo branco del club della coppia mista, di essere prese a modello. Si trovano sempre quelle personalità che vogliono raccontare un sé grandioso come paradigmatico della coppia riuscita. A questa gara mi sottraggo e la ritengo la pietra tombale di qualunque contatto umano. Un vero peccato perché l’unione fa davvero la forza e si potrebbe fare quadrato intorno alle figure politiche che più rappresenterebbero gli interessi delle coppie miste. C’è un enorme potenziale inutilizzato dove si potrebbe costruire massa critica, invece negli ultimi tempi ci si racconta sempre meno e si chiedono solo informazioni su come sposarsi in tempi record.

 

B.T.: Il tema della sfera sessuale, della morale e di tutto ciò che ruota intorno all’intimità della coppia è uno dei più controversi, soprattutto perché investe visioni diametralmente opposte fra l’occidente e il mondo islamico. Le donne di cui ti sei occupata che atteggiamento hanno nei confronti di questo aspetto?

Michela Manetti: Mi ha sempre colpito il fatto che molti degli uomini che si vendono come escort alle turiste si presentino come vergini. Mandando in visibilio la donna che trova irresistibilmente eccitante e tenero essere la sua nave scuola, quando in realtà è solo l’ultima di una lunga lista. Come mi colpisce lasciandomi un senso di amaro sconforto quando molte donne si dicono “dispiaciute” di aver avuto rapporti sessuali precedenti a questo uomo, il quale in modo più o meno esplicito, le biasima per la loro mancata castità. Intorno al tema verginità e moralità della donna si gioca una grande partita. La disparità tra i generi qui è più lampante: lui si presenta come integerrimo musulmano tutto preghiere e astinenza dall’alcol, ma non per quanto riguarda la sua sessualità. La castità prima del matrimonio è rivolta anche all’uomo, ma questa prescrizione chissà perché la trasgrediscono senza fare una piega. Al contrario, guai quella donna che non ha una vita monacale. Questa ipocrisia in Italia la conosciamo bene. Noto però come la sacrosanta libertà sessuale femminile sia messa in discussione per riaderire a quella tradizione così ingabbiante per le donne. Molte delle storie che conosco sono finite con lui che non le sposa perché nel suo paese natale lo aspetta la vergine, quella sì che può essere presentata alla famiglia. C’è bisogno di una rivoluzione sessuale nel Medio Oriente e le femministe hanno trovato in ogni paese il loro modo di lottare. Questa lotta di liberazione non possiamo e non dobbiamo farla noi occidentali. Quello che possiamo fare noi è mettere alla porta questi uomini ipocriti, giocando a questo gioco con consapevolezza se vogliamo, ma senza farci rimettere il guinzaglio solo per un sogno d’amore.

 

B.T.: Hai voluto chiudere il tuo libro raccontando storie positive, storie in cui la relazione d’amore è sincera e duratura, non viene condizionata dalla differenza culturale e religiosa e ciò rappresenta un segnale di speranza in una possibile società davvero multiculturale. Ma dagli studi che hai fatto per questo libro e per quello che conosci del mondo islamico pensi che si possa arrivare ad una società pienamente tollerante dal punto di vista religioso?

Michela Manetti: Rimarcare le differenze religiose, seppur con ottime intenzioni, non fa che allontanare l’altro. In qualche modo si sta implicitamente essenzializzando una cultura poliedrica in un solo aspetto. Non sto dicendo che non serve un dialogo interreligioso, ma che stiamo parlando troppo solo di quello. Lo scrivo anche nel libro, la religione è un aspetto importante ma non determinante. Quello che veramente cambia la faccia di un paese sono le scelte politiche, l’accesso all’istruzione, la ridistribuzione della ricchezza, le differenze di classe sociale. Ricordo uno studio che è stato condotto in Sudamerica riguardante l’impatto delle telenovelas sull’emancipazione femminile. Le telenovelas come strumento che rimodella il diritto di famiglia! Studio seminale poi ripreso nei paesi arabi ma che poi credo sia rimasto sommerso dai cambiamenti politici (le primavere arabe) poi l’arrivo dell’Isis e non se n’è parlato più. Anche l’Isis, sembrano i nuovi crociati in salsa islamica, che come i crociati di allora, sono un gruppo mosso da mire politiche più che religiose. Non servono più chiese o più moschee, ma più scuole. Non a caso la Repubblica Islamica dell’Iran ha una percentuale elevatissima di laureati e di urbanizzati, e più si va in alto nella scala sociale più diminuisce il senso religioso. Si potrebbe, in estrema sintesi, dire che più si è colti e più si è agnostici: credere in un dio è una cosa, aderire all’istituzione religiosa un’altra. A me sembra che questa, permettimi un’iperbole, ossessione per l’islam sia tutta nostra, occidentale. Poi la multiculturalità è già un dato di fatto. È sempre esistita e sempre esisterà, anzi, azzardo una previsione: ci sarà un giorno una sola grande cultura umana, un grande mix, una sublimazione di tutte le culture di oggi. Ma quel giorno io non lo vedrò purtroppo. Le coppie miste sono il futuro prossimo e credo che il grosso dei loro problemi, che poi sono anche i miei, non sono tanto dati dalla cultura o la religione diversa quanto dal discorso pubblico e politico. Infatti, il discorso si è inceppato su due tifoserie, la prima con una narrazione xenofobo-emergenziale, dove “l’altro” è rappresentato in modo grottesco e mostruoso, la seconda è la rappresentazione del “diverso” in toni stucchevoli come il buon selvaggio da aiutare (discorso orientalista), oppure usando la retorica mutuata dal liberismo economico della differenza come risorsa economica. Seppur con intenti condivisibili, queste buone intenzioni lastricano la via dell’inferno: non esiste un solo essere umano tutto buono o tutto cattivo. È proprio questa divisione manichea buoni-cattivi, a mio avviso, su cui le destre poi costruiscono la loro propaganda rabbiosa. Se si raccontasse l’umanità per quella che è, con luci e ombre, ci si potrebbe riconoscere, incontrare. Come posso identificarmi in una storia se i suoi protagonisti sono rappresentati come supereroi da fumetto o come diaboliche creature luciferine? In entrambi i casi questa disumanizzazione mi impedisce di rispecchiarmi in un altro essere umano. Per concludere, la parola tolleranza non mi soddisfa come termine. Vorrei che si risemantizzasse il termine convivio o convitto. Termini ormai desueti che ci fanno pensare a Dante nel primo caso e alla scuola nel secondo. Invece dovremmo recuperarne il senso profondo del “vivere insieme” che lo trovo più calzante e poi mi fa pensare al gesto dello spezzare il pane e condividerlo con gli altri. E oggi c’è un disperato bisogno di un gesto umano.

 

Written by Beatrice Tauro

 

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