“L’opera al nero” di Marguerite Yourcenar: l’oblio di sé e l’unità della coscienza

Le donne sono in genere più ordinate di noi uomini, perché hanno a che fare coi maschi, più di quanto capiti a noi.

L’opera al nero di Marguerite Yourcenar
L’opera al nero di Marguerite Yourcenar

Noi accettiamo, rispettiamo e a volte ammiriamo le irregolarità dei nostri correligionari, vivendo da loro separati. Loro no, se ne prendono cura, anche se non sempre nel modo in cui lo fa, nel romanzo, la serva di Zenone, l’anziana Catherine: con leggerezza tranquilla.

Marguerite non possiede affatto questo dono. Lei è un’idealista, termine che rima con modellista, ma non con persona pratica.

Un’avvertenza: l’idealista non accetta di essere servo di nessuno, ma richiede la presenza di almeno un marito, una moglie oppure una domestica.

L’umano in genere è molto ottimista e preciso, ma solo a parole, circa le sue possibilità: “Fabbricare oro sarà forse un giorno così facile come fabbricare il vetro” e “A forza di scavare coi nostri denti la scorza delle cose, finiremo pure col trovare la ragione segreta delle affinità e dei disaccordi…”. (Capitolo “La conversazione a Innsbruck”).

E di tanta solenne arroganza si sono macchiati i migliori scienziati dell’800 e d’inizio ‘900 quando promettevano a sé e al mondo che in breve la scienza avrebbe risolto tutti gli enigmi della materia.

Il cosmologo Hawking dichiarava, pochi decenni or sono: “Io assumo un punto di vista positivista secondo cui una teoria fisica è solo un modello matematico e che è senza senso chiedersi se corrisponda alla realtà. Tutto quello che si può chiedere è che le sue previsioni siano in accordo con le osservazioni…”, (da “The brief history of time”, capitolo ennesimo), per cui il perché ultimo e irraggiungibile, proprio perché è tale, non è campo della scienza. È difficile dargli torto in assoluto, ma è impossibile dargli ragione in ogni caso.

L‘Opera mette a dura prova il lettore che dalla sua ha almeno questo: che basta iniziare a leggere dalla prima riga in alto a destra della prima pagina e proseguire verso il basso e poi a destra, fino in fondo, sempre a destra, ma, per fortuna, egli è come un gatto assonnato. Un libro che non ti prende granché e allora tu dormicchia pure, sei autorizzato a farlo. Nulla però deve sfuggire all’occhio vigile di un felino con le palpebre semi abbassate…

Quel coso celluloso si era aperto e per tanto è rimasto così spalancato con una descrizione fitta della realtà, come accade nella mente della scrittrice, che la simula dentro di sé, proprio come se avvenisse veramente e lei non stesse a fare altro che fotografarla.

E qui il micio ronfava, ma ecco che, a oltre metà del capitolo citato, una frase di questo lungo discorrere (il primo che non sia fatto di mozze frase, ma che si stende come un lenzuolo onnicomprensivo) lo colpisce:

Mi sono ben guardato di fare della verità un idolo; ho preferito lasciarle il nome più umile di esattezza.”

Il fisico modellista Lisa Randall si è occupato della questione, in “Bussando alle porte del cielo”: nel capitolo 12 “Misura e incertezza”, nel quale distingue fra precisione e accuratezza. Scordiamoci infatti dell’esattezza, l’uomo non può esigere nulla dallo studio della materia, ma solo raccogliere dati.

Einstein credeva nella teoria dell’assolutezza relativa, cioè ogni punto di vista è corretto, ma personale. Poi, la meccanica quantistica ha inserito in maniera non reversibile il concetto di indeterminazione, collegandola alla misurazione del reale.

Se si parla ancora di esattezza, è solo per dire che si è fatto quanto è possibile per ottenerla, ma non è più un concetto assoluto. “Uno strumento è preciso se, ripetendo le misure su una singola quantità, i valori registrati non differiscono molto l’uno dall’altro. La precisione costituisce una misura del grado di variabilità… L’accuratezza, d’altra parte, ci dice quanto il valore medio delle misure si avvicina al risultato corretto. In altre parole, l’accuratezza ci dice se c’è una deriva (bias) nel sistema di misura.La prima è “incertezza statistica”, la seconda è “incertezza sistematica”.

Il libro di Marguerite è questo e tanto altro.

Zenone ora si fa chiamare Sebastiano Theus, ma il suo vero nome gli pare altrettanto ambiguo: “come chi passando davanti a uno specchio si stupisce di aver un volto e precisamente quello.”

“L’abisso” è l’inizio di quello che sarà molto probabilmente la fine: “Il tempo, il luogo, la sostanza perdevano gli attributi che costituiscono per noi le loro frontiere: la forma non fluiva via goccia a goccia in un vuoto che non era il suo contrario; il tempo e l’eternità erano la stessa cosa, come un’acqua nera che fluisce in una falda d’acqua nera immutevole. Zenone s’inabissava in tali visioni come un cristiano nella meditazione di un Dio.”

La sua idea del tempo corrisponde a quella che pochi decenni fa concepì Julian Barbour: Il tempo non esiste: lo si immagini soltanto come una fila di istantanee appese a un filo (che anch’esso non esiste).

Marguerite Yourcenar

Quando non sai più con esattezza dove sei, quando sei e quindi chi sei, se rimani in zona, prima o poi cadi in balia del Potere. Egli, l’Anarchico Autarchico, non ti individua più e cominciano i guai. O rientri al più presto nella Nomenclatura Codificata e Matricolata, oppure devi solo scappare.

Per questo Zenone-Theus “… viveva quasi rinchiuso nell’ospizio di San Cosma, prigioniera in una città e in quella città in un quartiere, e in quel quartiere in una mezza dozzina di camere affacciate da un lato sull’orto e le dipendenze del convento, dall’altro su un muro nudo.” Usciva di radoin cerca di campioni botanici…” Potrei continuare ma non vale approfittarsene di un tipo reattivo come me. L’unica alternativa possibile è leggere il libro.

Egli taceva in quantosapeva da lunga data che chi si espone per quel che dice è uno sciocco…”.

Rincantucciato in camera, non dedicava più le veglia a sforzarsi di acquisire nozioni più esatte sui rapporti tra le cose, bensì a una meditazione non formulata sulla natura delle stesse”. Ormai non ci sono più speranze. Il cammino verso la conoscenza ultima è un atto di ribellione a questa nostra società utilitaristica. Zenone-Theus è ormai null’altro che un errore di sistema, che va escluso dalla comunità prima che allarghi la sua azione. È un virus da debellare.

Dire che Marguerite è esaustiva è dir poco.

Nel capitolo “La malattia del priore”, in un dialogo il religioso dice, tra l’altro: “… il nostro Ordine esalta in modo specialissimo quell’alta dea (un poeta che lessi in gioventù così la chiamava)…”, gli risponde il nostro eroe: “… Gli ebrei (ho frequentato dei medici di quel popolo)…e poi: “… Se gli animali dei boschi hanno qualche intuizione dei sacri misteri (e chissà cosa accade nel fondo delle creature)…”

Mi andrebbe, così, per scherzo, di paragonare l’“Opera” a “Siddharta” di Hermann: ma di quanti silenzi ha quest’ultimo caricato il proprio personaggio! Se poi vogliamo esagerare, proviamo a pensare al bieco Mersault dello “Straniero” di Albert. Si tratta di tre grandi scrittori, ma i loro combustibili sono assai diversi.

Il dialogo fra il priore e lo scienziato-filosofo è meraviglioso. Il primo afferma, tra l’altro: “… Il peggior furfante o l’eretico più pernicioso non saranno mai tanto inferiori a me quanto io lo sono a Gesù Cristo.” Poi aggiunge:Per quante notti ho respinto l’idea che Dio sopra di noi non è che un tiranno o un monarca incapace, e l’ateo che lo nega è il solo uomo che non bestemmi”, e continua:Forse Egli non è che una fiammella nelle nostre mani e dipende da noi d’alimentarla e non lasciarla spegnere…”. La conclusione è però amara: “Dio regna onnipotente, d’accordo, sul mondo degli spiriti, ma noi qui siamo nel mondo dei corpi…”

Il filosofo-scienziato-medico-vattalapesca promette di riflettere su queste parole ispirate, ma intanto procura un brivido di terrore al sant’uomo: “… i soli fatti noti sembrano indicare che la sofferenza, e di conseguenza la gioia, il bene e ciò che chiamiamo il male… esistono solo nel mondo del sangue e forse della linfa, della carne solcata dai filamenti nervosi… Tutto il resto… è forse insensibile e tranquillo… Le nostre tribolazioni, signor priore, sono forse solo un’infima eccezione nella fabbrica universale, e ciò potrebbe spiegare l’indifferenza di quella sostanza immutabile che devotamente chiamiamo Dio…

Alla fine del dialogo, l’uomo di scienza predice tra sé e sé un’entropia fisica del priore, causata “… in quel cantuccio del corpo…”, “… una particella di carne che divorava a poco a poco i tessuti vicini…” (e qui, in questa parentesi vorrei manifestare tutta l’ammirazione che ho per Marguerite che alla fine sa perdonare la sua frequente prolissità). Il lettore, invece, qui diagnostica l’imminente condanna a morte del filosofo.

Filosofo, alchimista, medico, o meglio: l’uomo dell’arte medica, il Monsignor, in lingua locale: Mynheer, l’anatomista, Sebastiano Theus, Zenone: l’io del protagonista è uno e molteplice, a volte nello stesso periodo, se non nella medesima frase. Questo proliferare di nomi e di appellativi non mi pare dovuto, o non solo, a motivi retorici dell’autrice, ma ad una tendenza del personaggio a obliarsi di sé, diventando di volta in volta qualcun altro.

Fermo restando l’unità della sua coscienza.

A questo punto, e mi mancano ancora un centinaio di pagine, di verste, di miglia, di stadi… e io son sempre come colui che, con ‘na giarleina in boca, una pietruzza che fa salivare, è disposto a percorrere lo spazio-tempo che rimane allo scioglimento finale. Qualcosa so, ma il più lo ignoro. È un sentiero che ogni volta si biforca, vero Jorge, confermi?, allora fammi compagnia, ti prego, e seguiamo insieme la via tracciata da Marguerite.

Ed è con Zenone, definito ora “il viaggiatore”, che giungiamo “alla porta di Damme nel momento in cui…” ci addentriamo nel capitolo “La passeggiata sulla duna”.

Micidiale mi pare il lungo e snervante colloquio fra Zenone e il canonico, rappresentato nel penultimo capitolo.

“‘L’uomo è un’istituzione che ha contro di sé il tempo, la necessità, la fortuna e l’imbecille e sempre cresce supremazia del numero,’ disse più pacatamente il filosofo. ‘Gli uomini uccideranno l’uomo’

“‘Non vi dico che io abbia la fede,’ fece prevenendo un moto di gioia del canonico; ‘dico che il semplice no ha cessato di sembrarmi una risposta, il che non significa che io sia pronto a pronunciare un semplice sì.’

Zenone ha acquisito gran parte della cultura scientifica del suo tempo, poi si è nascosto, conscio del pericolo di essere devoto a una religione quasi clandestina. Alla fine, decide di scegliere di essere un eroe. Giusta o sbagliata sia stata la sua determinazione, dobbiamo soltanto accettarla. Dispiace però che “il vecchio, con tutti i suoi tentativi di salvarlo, non era riuscito a farsi amare”. Poverino, lui voleva salvarlo!

Fino all’ultimo atto della sua vita, Zenone non rinuncia al libero arbitrio:La scelta tra l’esecuzione o la fine volontaria sospesa fino all’ultima a una fibrilla della sua sostanza pensante, non oscillava più tra la morte e una specie di vita, come era accaduto tra l’accettare e il rifiutare di ritrattarsi, ma concerneva il mezzo, il luogo e il momento esatto.”

La Nota dell’autore è interessante, la si legge per devozione e perché, se Marguerite l’ha scritta, lei, con essa, va onorata. Di ciò trattengo soltanto la spiegazione del perché Zenone era, di volta in volta, filosofo, alchimista, medico, o meglio: l’uomo dell’arte medica, il Monsignor, il lingua locale: Mynheer, l’anatomista, e che, ad un certo punto della sua vita, si fece chiamare Sebastiano Theus.

Contrariamente a quello che pensavo non si tratta di una pirandelliana frantumazione dell’io, ma di una frankesteiniana sua (mostruosa) ri-creazione.

 

Written by Stefano Pioli

 

 

Bibliografia

Marguerite Yourcenar, L’opera al nero, Feltrinelli, 2017

 

2 pensieri su ““L’opera al nero” di Marguerite Yourcenar: l’oblio di sé e l’unità della coscienza

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