“La foresta d’acqua” di Kenzaburō Ōe: l’annegamento
L’era la so ora: era la sua ora
À g’à un pe’ in dla busa! – ha un piede nella buca!, sta morendo
À vultee i pee all’oss: ha voltato i piedi all’uscio
À l’h’à finii ed sufrir: ha finito di soffrire
oppure, anche: agh’è gnuu manc’al fiee: gli è venuto a mancare il fiato
Tes tes, l’è steda n’improviseda: taci, taci, è stata un’improvvisata
Stricher i occ: stringere gli occhi, morire
Stèva beìn stèva beìn… chè pò le mort: stava bene stava bene e poi è morto
A l’è in broti acqui! È in brutte acque!
A l’è mort perché angh’tireva pio’ al fiee: è morto perché non gli tirava più il fiato
A l’è andee a veder l’erba dala perta dal raisi…: stavolta vai a vedere l’erba da parte delle radici
A l’an portee… tree dee fa: l’hanno portato (gli han fatto il funerale) … tre giorni fa
A l’è andê a fer dla tera da pèp: è andato a fare della terra per pipe: concimare la terra per il tarassaco. La tera da pep: la terra da pipe è il cimitero
L’è andee a arpunsères a San Pelgrèin: è andato a riposarsi a San Pellegrino (dove, a Reggio, c’è il camposanto)
Il mio mancato nonno-in-legge, Aniello, diceva “Io credo sino a Sciuri”, località fra Pixuntum e Pixuntum marina, dove c’è il camposanto. Per il resto… si vedrà (si ha tutta la morte per verificarlo)
“Non so dove vadano le persone quando scompaiono, ma so dove restano”, affermava Antoine de Saint-Exupéry.
“Non hai preparato Kogii a salire su nella foresta” – nel gergo di quello luogo sperduto dello Shikoku, significa a morire. Si tratta della frase simbolo del libro. Questa è stata la prima reazione a quel verso della poesia, scritto dalla mamma di… di quell’autore.
L’autore è il Premio Nobel Kenzaburo Ōe, ma l’io narrante è uno scrittore altrettanto celebrato, di nome Kogito Chōkō. Il libro mi ha già mosso. Ma per il resto, si vedrà.
Già nelle prime battute dell’opera, indica la sua non verde età (“che ci faccio io in una foresta se non sono più del colore delle foglie?”); ed anche: “… una realtà ineluttabile: la mia vita di romanziere si avvicinava alla fine”.
L’autore prende ad un certo punto a raccontare un episodio, già narrato altrove e scimmiotta un po’ chi a sua volta lo motteggiasse: “ma guarda te, il povero vecchio scrittore sta plagiando se stesso per l’ennesima volta!”.
Mentre sta camminando, si distrae un po’ e va a sbattere con la testa contro un palo, cascando all’indietro, direttamente sulle cosce di una graziosa ragazza di nome Unaiko, che lo sta pedinando per conto di un regista teatrale di nome Anai. È un’imboscata, ma a fin di bene. In tal modo la tenera Unaiko riesce a comunicare, a un Chōkō altrimenti forse riluttante, il progetto di un’operazione teatrale basata sui suoi romanzi.
Questo fu concepito quando egli aveva poco più di trent’anni, poi fu sospeso per mancanza di… elementi, diciamo… Per la medesima mancanza per cui è stato scritto poi. È la mancanza di alcune cose il fatto più presente nelle prime pagine. Ed essa è l’enzima che stimola ogni reazione umana narrata nel libro, compresa la mia.
La mamma, catalizzatrice (di tante cose) anche oltre il suo decesso, usava dire: “Quando Kogii era un ragazzetto e stava qui nella valle, spesso attraversava momenti di difficoltà e io non ero in grado di aiutarlo, e forse ho finito per provocare un danno irreparabile nella formazione del suo carattere.”
Kogii è il soprannome infantile dell’anziano letterato.
Asa, la sorella di Chōkō Kogito, è particolarmente mortifera quando dichiara: “Ho rivelato ai nostri amici… che hai intenzione… di scrivere un nuovo libro, una sorta di ultimo grande sforzo…”
Do un senso alla lettura (uno dei tanti possibili): cercare di capire se e quanto il romanzo sia autobiografico.
I titoli di cui si parla sono opere di Chōkō, ma anche di Kenzaburō. Si cita ora un musicista giapponese, amico del regista Anai: Takamura. Esiste, forse, e di nome fa Luke. Cerco ora il regista: nulla.
Il Luke suddetto (se è lui) fu molto colpito dalla figura e dalla storia che capitò a un personaggio di un romanzo di Kenzaburō (che però nel libro si fa chiamare “Signor Chōkō”, quanto meno la “ō” c’è, ed anche il personaggio), che si chiama “Aghwee”, protagonista di Aghwee The Sky Monster.
Kenzaburō era detto Kogii, che non ha un significato, a quanto pare, nella lingua giapponese, ma che Anai definisce l’alter ego di Kenzaburō in vari suoi romanzi. Simpatico ma un po’ supponente ‘sto regista: fa a Kenzaburō una specie di esegesi di un suo romanzo “Gli anni della nostalgia”, spiegandoglielo in ogni dettaglio, e Kenzaburō, che però qui si chiama Kogito Chōkō (e così ora lo chiamerò d’ora in poi), si limita a rispondere: “Si, perfetto.”
Un tratto caratteriale di Kenzaburō, cioè, volevo dire, di Chōkō è la sua santa pazienza.
Il regista e la sua troupe hanno invaso la casa dell’infanzia di Chōkō, il quale chiede gentilmente: “vi sarei grato se poteste lasciare almeno il divano lì dov’è, ma sentitevi liberi di spostare il resto come meglio credete.” Anai sembra conoscere, meglio ancora di Chōkō, l’esistenza contemporanea di due Kogii: “Non a caso questo peculiare dualismo è alla base del nostro nuovo progetto.” Ed anche: “Ora, sappiamo bene che questo Kogii è diverso dal personaggio Kogii presente in molti suoi romanzi…” Scopo di tutta le manovre è di ricostruire un ambiente dove sia possibile ricreare l’atmosfera che permetta di realizzare un’opera teatrale basata sull’opera dello scrittore. Ma se Kenzaburō: Chōkō = Kogii: Kogii, allora… mah! È ancora presto per trarre conclusioni. Ma poi la cosa (tutta la cosa, anche la mia personale indagine) si complica: Kogii era sì il nome che sua madre gli dava da ragazzo, ma anche quello che stava dando al figlio di Kogii, cioè di Kogito (di cui Kogii è un evidente diminutivo), Akari, che è “nato con un’evidente grossa malformazione cranica”.
Riprendiamo e svolgiamo la poesia per intero:
“Non hai preparato Kogii a salire su nella foresta.
E come preso dalla corrente del fiume non tornerai mai più.
A Tokyo durante la stagione arida
I ricordi mi affiorano alla mente all’incontrario
Dalla vecchiaia fino agli anni dell’infanzia.”
I primi due versi sono della madre.
Gli ultimi tre di Chōkō.
La poesia viene definita un haiku, mentre a me pare tale solo dal terzo verso in poi.
Il primo verso riguarda probabilmente Akari.
Il “come” del secondo verso riprende il fatto che il padre di Chōkō fu trascinato via dalla corrente del fiume, annegando. Quindi non riguarda tanto lui, che lo fu effettivamente. Se ne deduce (è Chōkō a farlo) che è riferito a qualcun altro: “… un modo trasversale per esprimere la sua preoccupazione che non mi stessi preparando adeguatamente alla mia inevitabile dipartita da questo mondo.”
Probabilmente, e qui, caro di Kenzaburō, azzardo un’ipotesi, basandomi però sulle tue stesse parole: con Kogii tua madre intendeva sia Akari, che lei temeva tu non avessi preparato a una morte “che non doveva essere così lontana”, sia te: tu eri l’unico Kogii che li poteva educare tutti e due.
“In pratica mia madre ha legato insieme due idee e le ha utilizzate per muovere una doppia critica nei miei confronti.”
Se fosse un’espressione algebrica il discorso sarebbe più semplice. Si potrebbe parlare di Kogii e di Kogii°. Per ampliare il discorso, Kogito (potrei chiamare così il vetusto scrittore!, ma forse è meglio di no) confessa che: “Inoltre, anche se nessuno al di fuori di me poteva vederlo, avevo un amico inseparabile che era la mia copia esatta”.
“Eravamo come due gocce d’acqua. Lo chiamavo con il mio stesso nome, Kogii, e vivevamo in perfetta armonia, fino al giorno in cui salì nella foresta e mi lasciò solo.”
Kogii corre dalla mamma e piange. La mamma non ha mai creduto nell’esistenza dell’altro Kogii e non lo consola affatto.
Kogii decide di diventare scrittore, forse non consciamente, ma se lo è diventato è per tutto questo. Quando un bel giorno Kogii riappare per caso, Kogii lo segue, disperato. Perde, nella foresta, sia se stesso che il suo omonimo-gemello (il quale presumibilmente si limita a sparire). La madre intuisce magicamente dove si trova e lo fa recuperare dai vigili del fuoco.
La “foresta meravigliosa” appare come una terra in cui l’individuo resta tale “un unico grande insieme”. Poco prima Chōkō aveva citato come un suo romanzo “M/T e la storia delle meraviglie della foresta”, celebre opera di Kenzaburō.
Chōkō afferma: “Avevo completamente dimenticato il modo realistico in cui avevo descritto Kogii in quella scena”. La scena riguarda il padre che “perde l’equilibrio e finisce in acqua. Poi, un attimo dopo, scorgo Kogii in prossimità del punto in cui ho visto mio padre…” non si tratta di realtà normale, ma del tipo sognata e risognata di continuo. Kogii stesso era (così disse Anai a Chōkō) sia “entità soprannaturale” che “normale essere vivente”. L’espressione di Kogii (ormai ho deciso chiamare così solo l’omonimo-gemello) era sempre “vaga e indefinibile”.
Nella seconda sezione del terzo capitolo, si assiste a un dialogo infinito fra il regista Anai, la sua assistente Unaiko e l’io narrante Chōkō. Innaturale, come gran parte del libro fin qui. Oppure naturale, non so, forse nel senso nipponico. Sono scambi di battute lunghissimi e sfinenti. In uno di essi si accenna a un celebre Santuario Yasukuni, che effettivamente esiste, ma il fatto non costituisce prova di alcunché. Nel mentre colgo l’occasione di fare più approfondite ricerche sul regista. Esiste un tale, anzi tre, con quel nome su facebook, ma si tratta, in tutti e tre casi, di un centauro (su motocicletta). In uno dei suoi tre profili ha un microfono in mano (oppure questo mi pare). Ma non è lui, almeno penso.
Il maestro dello stesso, del regista, intendo, è tale Hanawa Goro, con alcuni profili facebook che non dicono granché, anche perché dovrebbe essere molto più anziano. Poi mi viene da scrutare in un famoso sito di argomento cinematografico e c’è (trattasi di uno scrittore per cinema, nonché assistente alla regia). O almeno ho rinvenuto un suo omonimo. Assistente alla regia di qualcuno dal 1968 e scrittore di sceneggiature dal 1998. Ci sta. Da wiki scopro però che un Hanawa Goro è, anzi era, un personaggio di un noto romanzo di Kenzaburō! Titolo inglese “The Changeling”. Il tipo (muore suicida non so a che punto del romanzo) era cognato e miglior amico di… Kogito Chōkō!
Sospendo per ora le ricerche, perché alla fine del terzo capitolo, finalmente, la sorella di Chōkō gli dà il permesso di esaminare con cura la famosa valigia rossa che dovrebbe contenere il materiale che consentirà di realizzare l’opera della sua vita, l’ultima di certo, che riguarderà la catastrofe alluvionale in cui perse la vita il padre dello scrittore. Essa, per via della valigia negata, gli era stata impedita per anni sia dalla madre (defunta da qualche anno quasi centenaria) e dalla sorella.
Questo ora favorirà anche l’opera teatrale che il gruppo Caveman Group sta cercando di costruire attraverso l’esame dell’intera opera di Chōkō, sue interviste registrate in loco, oltre che il capolavoro in fieri dello stesso. Il discorso di Anai non dà luogo a dubbi: “naturalmente sappiamo bene che tutto dipenderà da lei e dal romanzo che scriverà, signor Chōkō. Senza il suo romanzo, la nostra opera teatrale non vedrà mai la luce.l’intero progetto si regge su una premessa cruciale: quello che lei riuscirà a trovare nella valigia rossa.”
Anche l’accenno al grande linguista nipponico Morohashi Tetsuji (e del suo “Grande dizionario dei caratteri cinesi”, spesso consultato dal padre di Chōkō) non implica l’esistenza di nessuno, se non di Tetsuji. Ma la battuta che questi fece da ragazzo: “Se tutte le parole saranno incluse in un dizionario, allora non sarà più possibile trovarne di nuove e non ci sarà più alcun divertimento.”, rende la situazione così reale, ché tale frase ben si integra nel carattere giovanile e smanioso di Chōkō. Però, avrei potuta dirla anch’io. Lo stesso vale per la replica di suo padre: “Forse nostro figlio ha intenzione di scrivere qualcosa che non sarà possibile trovare in nessun dizionario!”.
Molto più interessante, sebbene decisamente ambigua, la citazione di un’opera musicale intitolata “Le meraviglie della foresta” composta, nonostante la sua invalidità, da Akari, il figlio di Chōkō. Ne parla la sorella di Chōkō, dicendo che si ricordava che lui aveva “sfruttato alcuni suoi commenti su Le meraviglie della foresta”, citandoli poi in un romanzo.
Orbene, pare che Chōkō avesse un notevole problema di comunicazione sia con la mamma che con la sorella, ambedue sconvolte (ma di più la mamma) dalla lettura di un libro di Chōkō (“Il giorno in cui lui mi asciugherà le lacrime”, scritto in realtà da Kenzaburō Ōe). La mamma poi, disse, vari anni dopo: “Sai, mi piacerebbe fare una cassetta su quella famosa notte” (quella dell’annegamento del marito). Ed ora che la sorella ha aperto il sacco, come si suol dire, ma soprattutto la valigia rossa, teme che il povero Chōkō possa rimanere turbato da tale registrazione e lo invita di non ascoltare il documento da solo.
Quando ciò avviene, la voce della mamma di Chōkō in qualche modo riempie l’aria all’interno ed anche all’esterno del libro, come se fosse un fluido denso in cui le cose che sono dette sono sì importanti, ma non quanto il fatto che sono finalmente dette. E lo furono perché potessero ascoltate da Chōkō, il quale rimane senza parole fino a quando non disse a Unaiko, che lo stava assistendo, che preferiva “ascoltare il resto della registrazione da solo, con calma e in un secondo tempo”.
Segue un dialogo che non è tale, perché, finora, in gran parte, anche se non del tutto, ogni intervento di ciascun personaggio appare come un saggio a sé stante, in cui sono espresse delle considerazioni che, in qualche modo, dovrebbero permettere all’altro, ridotto a semplice uditore, di organizzare una sua replica, al fine di rapportarsi. Prima dissi che il dialogo era logorroico, ma qui vorrei stabilire che questo non rappresenta una critica allo stile (di Chōkō o di Kenzaburō), ma è un’analisi del metodo da lui adottato. Non si tratta di scambi vivaci e diretti, bensì di prolusioni ampissime, mirate allo scopo di farsi comprendere. Ma anche d’imporre le proprie ragioni. Sembrano a volte delle arringhe forensi!
Ho notato che alcuni concetti vengono ripetuti periodicamente, ad esempio il fatto che, all’inizio del menage matrimoniale dei genitori di Chōkō, la madre se n’era andata in Cina e vi si era stabilita per un tempo più lungo del previsto e che il padre dovette andarla a prendere, sennò chissà come finiva. Ho l’impressione che queste reiterazioni non siano casuali, ma tendano a qualche scopo, forse a indicare al lettore, che quel particolare, apparentemente innocuo, nasconda invece alcuni aspetti importanti, e terribili.
Segnalo che il messaggio registrato della mamma e gli interventi dialogici di Chōkō e Unaiko sono di natura omogenea. Se, cioè, si proponesse il primo, senza indicarne l’origine e la natura, esso apparirebbe come un discorso avvenuto in loco.
Un esempio di prolissità locale: “Il tuo coraggioso e efficace di chiudere con l’alcool ad alta gradazione”: un tentativo può essere coraggioso ed efficace, per carità, ma, almeno nel caso in questione, pur essendo due aggettivi di significato diverso, il secondo mi pare pleonastico; “… le darò anche della buona birra fredda”: nel ventesimo secolo la birra è più o meno gelida se tenuta in frigo e a temperatura ambiente se fuori frigo, ma quando la si offre proviene sempre dall’elettrodomestico. Si utilizzano più spesso, forse, che in altri libri, i doppi aggettivi: “drammatico e inaspettato”, “estrema e inveterata”, “moderni e contemporanei”, “drammatico e teatrale” e così via. A volte si tratta di aggettivi diversi, ma poco complementari, in quanto quasi coincidenti, e uno dei due poteva essere evitato.
Anche certe espressioni sono doppiate, variegando anche qui il significato: “evitare un anticlimax tragico e puntare a qualcosa di diverso”, “predicare un anticlimax e i finali poco esaltanti”, “cominciò a parlare e disse che”.
Si è arrivati alla conclusione, o meglio, la voce della mamma arriva a dire che il padre, quell’infausto giorno, se ne stava scappando via per sempre, chissà perché e chissà dove, con la valigia dalla pelle rossa.
Il regista ha intuito che qualcosa non sta scorrendo nel verso giusto. Forse il contenuto della valigia non permetterà all’anziano autore di produrre l’ultimo, definitivo, libro della sua vita. Questo significa che anche il lavoro teatrale cesserà di avere senso e rimarrà incompiuto. Vedremo.
Si continuano a citare opere, ad esempio “Il ramo d’oro” di Frazer (è già la seconda volta). Poi viene citata una poesia di Eliot, cioè alcuni versi, che forse permetterà (Dio lo voglia!) a Chōkō di scrivere l’opera. Li cito: “Traversò gli stadi dell’età matura e della giovinezza/ Entrando nel vortice”. Il componimento s’intitola, non a caso, “La morte per acqua”. Di esso sono indicate diverse traduzioni in nipponico dall’inglese e, chissà perché, dal francese.
Vengono talvolta citati “Il bambino scambiato” e “Il grido silenzioso”, la “Trilogia della strana coppia”, opere di Kenzaburō Ōe, che non paiono al momento troppo significative ai fini del romanzo, qualunque essi siano. Vedremo.
Nel frattempo mi accorgo che la mia indagine non ha ancora preso nella sufficiente considerazione Akari, il figlio portatore di handicap di Chōkō. Cerco, in Google, “Kenzaburo’s son” e lo intercetto: si chiama Hikari Ōe, ed è musicista, nonché affetto da un disturbo del neuro sviluppo. Alla fine della prima parte me lo ritrovo proprio davanti, quasi all’improvviso, e Chōkō per due volte quasi consecutive gli dà dello stupido, ad Akari (non a Hikari).
Sul finire della prima parte, Chōkō cita di nuovo il compositore Takamura, autore di “una composizione di leggiadra bellezza intitolata “Marginalia”. Non dovrebbe esistere su Google. E dubito sia quel Luke di cui dicevo. En passant: Chōkō rinuncia a scrivere l’opera che voleva rievocare, anzi, ri-creare l’annegamento del padre.
Inizia la seconda parte del romanzo. Dopo una serie di disorientamenti psico-fisici e turbe d’equilibrio (comincio anch’io a doppiare), Chōkō crede (e questo libro rappresenta la negazione di tale pensiero) di non poter scrivere più nulla. Alla mattina, come negli ultimi decenni, continua a raccogliere appunti sui suoi sogni, alcuni dei quali sono serviti per i suoi romanzi, ma ora per mera abitudine: “avevo deciso una volta per tutte di abbandonare ‘il romanzo dell’annegamento’ e avevo messo un punto fermo anche sull’idea di dedicarmi a un lavoro di narrativa sulla lunga distanza.”.
A questo punto della vita, Chōkō pare che non si senta più un romanziere, secondo il suo io di ora, almeno. Mi colpisce una frase, proprio ora che sto leggendo Arthur (Rimbaud) e il suo “Je est un autre”: “Travolto dalla corrente sottomarina, continuava ad affiorare e affondare, su e giù senza sosta, prima di entrare nel vortice degli abissi. Io sono io, ma sono anche qualcos’altro, perché sento che sono al contempo anche lui: in altre parole, io sono mio padre.”
Al che Arthur replicherebbe: “Mas oui! A chaque être, plusieurs autres vies me semblaient dues”[1].
Chōkō medita soprattutto sul fatto che papà suo morì quando aveva più di vent’anni meno di quanti ne abbia io adesso, all’indomani delle mie ‘grandi vertigini’. E solo ora scopre un fatto non trascurabile: “Io amavo mio padre! Gli volevo un bene dell’anima!” E, aggiungo io, fra lui e Io c’è solo un paio di virgolette.
“Durante uno dei mie accesi di’ipermemoria’ mi capitò di imbattermi nel ricordo del giorno in cui finì la guerra…”
“Giù al fiume c’era un post dove le donne che abitavano nell’agglomerato di case sulla sponda settentrionale usavano fare il bucato…”
“… c’era una porzione di fiume grossomodo triangolare che formava una piscina naturale. Mi piaceva immergermi in prossimità della grande roccia e infilarmi nella rientranza simile a una piccola grotta alla sua base…”
“Quell’ansa isolata dal fiume era al riparo dalla corrente, perciò l’acqua tendeva a stagnare e sul fondo c’era un accumulo permanente di materiale argilloso e fanghiglia…”
“… presi l’abitudine di recarmi in quel posto con una certa frequenza, per il semplice gusto di assaporare la libertà di immergermi beato per ore e ore in quel nascondiglio melmoso…”
“E al di sotto di quel banco di pesci, avvolto nella fanghiglia sul fondo scuro, ebbi la netta sensazione di scorgere un grande corpo nudo… Mio padre! Il suo cadavere fluttuava dolcemente, cullato dalla corrente sotterranea. E io, lì a guardarlo, cercavo di imitare i suoi movimenti…”
“A distanza di decenni, nel pieno di uno dei miei accessi di ‘ipermemoria’, presi una scheda e scrissi: ‘Amo mio padre disperatamente’…” E aggiunse, in inglese: “desperetely”.
Dopo di cui, comincia una lunga lettera della sorella, che occupa quasi interamente il capitolo.
Esistono, nella realtà, lettere così lunghe? Si ha l’impressione che, se è valida l’idea rimbaudiana che Je est un autre, ora Asa si è presa il posto del narratore (o il narratore al posto di lei?), nel descrivere una fantasmagorica (oppure pacchiana?, chi lo sa?) recita da parte del gruppo Caveman Group, ora momentaneamente capitanato dall’imprevedibile Unaiko, del suo più luminoso successo: “Lanciando cani morti” (di peluche), basato sul romanzo “Il cuore delle cose” di Natsume Sōseki, una storia assai tragica, che viene idealizzata (o brutalizzata?, mah!) dalla performance teatrale. L’interminabile lettera contiene delle perle retoriche che non si riescono purtroppo a saltare a piè pari. Un esempio? “… mi sono resa conto che invece si trattava esattamente di un romanzo educativo, oltre che di formazione…”. In questo caso non è Asa a parlare, ma la bella Unaiko, che diventa a sua volta un’autre di un’autre, quindi, per proprietà transitiva, un’autre di Asa, cioè di Chōkō, pertanto di Kenzaburō Ōe. “Mas oui ! A chaque être, plusieurs autres vies me semblaient dues”.
Nel successivo capitolo, la situazione peggiora ancora se possibile. La sorella scrive sempre nuove lettere, per lo più d’accusa nei confronti del povero Chōkō, stigmatizzando il brutto momento che riguarda il rapporto fra lo stesso e il figlio disabile.
Questo però dà il destro a Chōkō di ricordare in un paragrafo che il famoso Hanawa Gorō, a suo tempo, “ha persino girato un film basato sui miei romanzi che riguardano la nostra famiglia, ed entrambi – il film e i romanzi – ruotano intorno alla figura di Akari.” Vado a cercare subito sul web.
Non mi pare vi sia nulla.
In compenso trovo “Atarashii hito yo mezame yo”, libro di Kenzaburō Ōe, indicato dalla sorella di Chōkō, come scritto da quest’ultimo.
L’attuale capitolo, l’8°, mi sta convincendo che l’attività letteraria di Chōkō (nonché di Kenzaburō) sia fondamentalmente di natura familiare (chiedo scusa per l’ovvietà).
Esamino ora la sua famiglia: lui, un buon uomo, riservato e onesto intellettualmente, con un unico, leggerissimo vizio: un cicchetto ogni tanto, soprattutto serale; la moglie, una severa, ma lucida tiranna; la sorella, una poco scaltra consanguinea aliena dall’usare un po’ di buon senso nelle sue cose e nei suoi giudizi; la figlia, un caratterino mica da ridere; il figlio, quello sì, ha un problema molto serio, connesso al suo stato, nel senso che le cose gli appaiono e vengono espresse in modo eterogeneo rispetto agli altri. Lui e papà suo sono tipi molto attenti e scrupolosi, ma dimenticano entrambi che, come disse una volta Albert (Einstein), tutto è relativo. Ogni osservazione è giusta dal punto di vista dell’osservatore, errata da quello dell’Altro. Per loro due fatica a valere il principio che tante volte ho riportato, il rimbaudiano “Je est un autre”. I due si contrappongono frontalmente, a dirlo con altre parole. Wolfgang (Pauli) direbbe che si escludono vicendevolmente come capita a due mesoni.
Prima ho definito l’autore del libro in un modo, ma la definizione che lui dà di sé assomiglia, ma è assai più perfetta: più che ‘un tipo interessante’, direi ‘un tipo buffo’ o tutt’al più ‘particolare’. Cerco di andarci giù in modo pesante. Per come si è comportato finora, lo si potrebbe definire (a Reggio Emilia): “un du ed cop in rifiùt”, un ‘due di coppe in rifiuto’, quando briscola è bastoni.
Questo, accade nella norma, ma, ogni tanto, lui è uno di quelli che non transigono a nessun costo su qualcosa di specifico. Inoltre, Kenzaburō-Chōkō mi pare tanto onorato e autorevole, quanto criticato e bistrattato. Ossequiato, lodato, ma messo un po’ in disparte, quando c’è da prendere delle decisioni.
All’inizio del capitolo 9° sento ancora il bisogno di sottolineare un codice narrativo che, dapprima tedioso, tende a diventare abitudinario anche per il lettore: le ripetizioni, che diventano sempre più una sorta di refrain con variazione.
Innanzi tutto, la reiterazione dei titoli di opere artistiche, principalmente “Il giorno in cui lui mi asciugherà le lacrime”, “Lanciando cani morti”, “The Golden Bough” di Frazer, ma ora anche “Le mie parole”, cioè le frasi dei libri che Chōkō ha estrapolato, su richiesta della moglie, che interessano ormai tutte le femmine che frequenta, e che si riferiscono al proprio amatissimo, ma antagonistico figlio.
E la cosa capita, come s’è detto, anche per certi fatti, per lo più negativi; ad esempio, quando Chōkō si reputa ormai anziano, tanto da rinunciare all’ultimo grande suo sforzo letterario (“il romanzo dell’annegamento”); quando si sottolinea il difficile rapporto col figlio, quei pescetti, come si chiamano?: ah sì, quei leucischi argentei che sguazzano nel fiume…; e quando diventa quasi indigesta la petulanza con cui la sorella lo rimprovera ogni volta, con mesta severità, provando ogni volta una pena eccessiva per lui.
In tal senso, ma solo in quello, “La foresta d’acqua” richiama alla memoria “Il soccombente” di Thomas Bernhard, anche se mi rendo conto che è come dire che “L’étranger” di Camus ricorda, per certi versi, “Cuore” di De Amicis.
Uno del pubblico, non meglio identificato, a un certo punto mette in dubbio la questione dei cani: “Ma è cultura quella di Lanciando cani morti”? Io e tutti quelli che la pensano come me non staremo fermi a guardare, faremo sentire la nostra voce e difenderemo la nazione!”
Non so come andrà a finire. Manca ancora un terzo delle pagine da leggere.
La casa (con il terreno su cui è stata edificata) viene regalata alla deliziosa Unaiko. Però sorge un problema, ora che Chōkō è tornato, momentaneamente, col figliolo ormai quarantacinquenne, ma non autosufficiente. Le cure parentali che ricevono meritano un equo indennizzo, s’intendono le “spese settimanali per me e Akari, che ovviamente gravano sull’economia della casa.” Ogni cosa però dovrà essere affrontata solo al ritorno di Asa. Solo lei saprà come determinare benefici e costi, con la sua solita (mancanza di) saggezza.
Ricchan… un attimo. Prima c’era un capo struttura, che era il quasi inflessibile e autorevolissimo Anai Masao, affiancato dalla splendida Unaiko. La quale poi ha preso il sopravvento sul primo, anzi, questi è sparito non si sa dove, mentre Unaiko ha cambiato compagnia teatrale e con “cani scaraventati avanti e indietro” sta riscuotendo un successo senza precedenti. Ora è questa Ricchan, collaboratrice di Unaiko, che è sempre al centro delle operazioni, che svolge varie mansioni, donna di pulizia, assistente paramedica di Akari, maestra di musica, organizzatrice e dea ex machina dell’intera faccenda: in una parola, factotum. Da notare un fatterello, anzi due: conoscendo il suo pollo, Unaiko ha regalato a Chōkō una sua maxi immagine, in cui lei appare nuda in una foto di scena, col pube bene in evidenza, dicendogli un po’ sfacciatamente che lei ben sapeva quanto lui amasse il pelo femminile. Quando subentra, forse a tempo determinato, Ricchan, la prima cosa che fa è di spostarla in un luogo più appartato.
Ricchan, dicevo, “aveva iniziato a condurre una serie di interviste con le donne locali” che avevano preso parte alle riprese de La madre di Meisuke scende sul campo di battaglia, rinomata opera cinematografica di cui si discorre più ampiamente nella “Vergine eterna” di Kenzaburō e forse anche di Chōkō.
Sakura Ogi Magarshack è un’importantissima attrice nipponica, almeno nel suddetto libro, ma scorgo sulla rete che forse è realmente esistita. Lo afferma una signora in un suo blog, dove afferma che gliel’ha confidato lo stesso Kenzaburō, in una delle sue opere recenti, appunto la “Vergine eterna”. Si tratta, molto probabilmente, di un’enfant prodige che recitava in Giappone nel periodo di occupazione americana dopo la guerra.
Mi tolgo anche lo sfizio di verificare cosa sia quest’acronimo, NHK. Vedo nel web che NHK WORLD-JAPAN “is the international service of Japan’s public broadcaster NHK…” Unica perplessità; se il giapponese è fatto di ideogrammi, cioè di radici e parti di parole, mi chiedo: come possono esserci acronimi in tale lingua? Butto una svelta occhiata a wikipedia, ma quel turbinio di kanji, esantemi, sillabari hiragana e katakana e chi più ne più ne metta, mi fa passare la voglia di analizzare il problema. Se nel libro di Kenzaburō-Chōkō si parla di NHK, significa che tale sigla esiste. Punto.
Tutto è decisamente serio nel libro di Kenzaburō-Chōkō, ma alcune cose assai di più. L’anziano amico, che Chōkō reputava morto da anni (perché glielo avevano fatto credere), il monco Dalō riporta il discorso sul tema della morte di Chōkō sensei: “… credo che tuo padre ti avesse detto di tornare a riva e sciogliere gli ormeggi per un motivo ben preciso…”; e poi: “Del resto era partito con l’intenzione di non tornare indietro.”; insiste: “Kogito, non credo di sbagliarmi se dico che tuo padre lo fece apposta a chiederti di andare a sciogliere quella corda: non voleva che salissi con lui sulla barca… Ti ha salvato la vita! Si è lasciato trascinare via dalla corrente da solo ed è annegato nel fiume in piena.”
L’11° capitolo s’intitola “Perché mio padre aveva scelto The Golden Bough?”, tre volumi dei quali erano nella valigia rossa. Chōkō fa una scoperta: “… si riusciva a capire a distinguere che i titoletti a margine di alcune pagine erano cerchiati con la matita colorata, sempre con tratto molto lieve.” Chōkō ha un’intuizione: “Quei libri appartenevano al cosiddetto ‘professore di Kōchi, che viveva in una zona in prossimità di un fiume non lontano…”
“… mi sono anche reso conto del fatto che mio padre, oltre che a seguire fedelmente le indicazioni del suo mentore e trarre dalla pagine di The Golden Bough un insegnamento politico, stesse tentando di leggere l’opera di Frazer anche a un livello molto più personale, sforzandosi di apprezzare la bellezza artistica e letteraria.”
“… una domanda del tipo: ‘Cosa dovrebbero fare i seguaci del re dal punto di vista dell’azione politica?’”
“L’uomo-dio dev’essere ucciso appena le sue forze danno segni di cedimento, e la sua anima trasferita nel corpo di un successore vigoroso, prima di venire seriamente danneggiata dall’incombente decadimento.”
Lo scopo era quindi di trasferire una vitalità ancora rigogliosa, eliminando al contempo un’entropia del mondo, aumentata da quella dell’uomo-dio.
“… finalmente credo di aver capito perché mia madre e mia sorella erano così terrorizzate che portassi a termine il ‘romanzo dell’annegamento’. Avevano paura che avrei scritto che il professore di Kōchi si serviva di The Golden Bough per convincere mio padre e i giovani ufficiali ad assassinare l’’uomo-dio’ così da evitare che la nazione si deteriorasse…”
Ho sintetizzato una concione di Chōkō con l’amico Daiō, che era (stranamente!) un po’ lunghetta, forse. Tanto che Ricchan, ormai matrona della situazione s’incazza e chiede ai due: “Scusate, ma per quanto ancora pensate che il povero Akari debba starsene chiuso in bagno?” E gli dice che devono “darci un taglio e lasciarlo tornare di qua…” li invita poi alla Guaina… “A patto, però, che continuiate la vostra discussione lontano da Akari e gli permettiate di ascoltare in santa pace la sua musica. All’aria aperta potete gridare quanto vi pare e piace.”
Guaina, “era l’appellativo con cui era conosciuta quella oblunga depressione erbosa scavata in un remoto passato dalla caduta di un meteorite, ma dalle nostre parti era usato anche per indicare l’organo sessuale femminile.” Forse è per questo che Chōkō sensei si inquieta come una iena quando i suoi compagni d’avventura la volevano far saltare. Dice Chōkō: “La Guaina occupa fin dall’antichità un posto molto importante nella storia locale… ma di solito la gente di qui tende a non portare più di tanto i forestieri da queste parti.”
Trattasi di forma di pudore del tutto legittima e virtuosa. Questa è la ragione per cui al quarantacinquenne “Akari non piace sentire certe cose, ecco perché si è tappato le orecchie” al sentire pronunciare il nome Guaina.
“Daiō e io eravamo rimasti in piedi per tutto il tempo; io avevo le spalle appoggiate alla parete della grande roccia nera.”
Daiō vuota il sacco con Chōkō e gli spiega il piano in cui era coinvolto il padre: “… si trattava di un’operazione ad altissimo rischio, che costituiva il nodo centrale delle animate discussioni al magazzino, le stessi che avevi occasione di ascoltare anche tu.” Però, Chōkō aveva, all’epoca, solo dieci anni. A distanza di tempo, qualcosa che gli era rimasta nel cervello, cominciava lievitare e a farlo scrivere. “… ne Il giorno in cui lui mi asciugherà le lacrime, solo che ho rielaborato il tutto e ho fatto in modo che corrispondesse alle fantasie deliranti di un giovane uomo sulla via della follia…”
Spiega Daiō: “Ora che hai accantonato in via definitiva il ‘romanzo dell’annegamento’, finalmente anche tua sorella Asa può tirare un sospiro di sollievo.”
“… in qualche modo la tua straordinaria immaginazione abbia ricostruito tutto a posteriori e lo abbia fatto riemergere attraverso il sogno.”
“… e il dibattito assunse toni accesi soprattutto quando si cominciò a pensare che bisognava mettere subito in pratica il piano di Chōkō sensei, il cui culmine prevedeva un attacco suicida dal cielo contro il palazzo Imperiale.”
“Come poteva reagire un ragazzino educato in una società e soprattutto in un sistema scolastico improntato al culto nazionalista e militarista dell’imperatore?”
“Io sono convinto che tu, Kogito, sia rimasto talmente scioccato nel sentire queste parole che hai fatto in modo di sopprimerle all’istante e destinarle all’oblio.”
Le rivelazioni di Daiō non sembrano aver mai fine, e culminano, alla fine della parte terza dell’opera di Kenzaburō-Chōkō, nel seguente modo: “Tua madre usava dire che le donne della vostra famiglia hanno sempre eclissato gli uomini. In effetti, se si prova a pensare a lei e a tua nonna, non lo si può negare. Ma magari è possibile risalire fino a epoche precedenti e includere anche la madre di Meisuke, che forse era una vostra lontana parente!”
Cavoli!, mi viene da dire. Anche quando viene fuori che è grazie alle donne di famiglia che il nostro caro Chōkō ha deciso di regalare a quei giovinetti teatranti la sua casa nella foresta.
Nella ricostruzione, da parte della sempre più autorevole Ricchan, del film La madre di Meisuke scende sul campo di battaglia, emergono delle cose interessanti. Sakura Ogi Magarshack era una “famosa attrice internazionale”, che la madre e la nonna di Chōkō ebbero l’ottima idea di coinvolgere nel progetto. Inoltre, in “una delle scene clou del dramma teatrale e del film, la madre di Meisuke, che era ancora una donna giovane e attraente, fa visita al figlio in cella…”, avendo egli capeggiato una rivolta contadina, e gli dice: “Anche se morirai, io ti darò di nuovo alla luce. Perciò non devi preoccuparti.” Frase forse illogica, ma chiarissima.
“Mentre portavo quegli oggetti al piano di sopra…”, si tratta di: “schede, quaderni, libri e dizionari”.
In tutta l’opera di Kenzaburō-Chōkō essi sono considerati non solo come reliquie, ma anche come una sorta di amuleti misteriosi, ma efficaci. In Italia non succede spesso che uno scrittore diventi un mito. In Giappone pare sia diverso: il gruppo teatrale è composto da fedeli (e direi quasi religiosi) lettori dell’opera (intera!) di Kenzaburō-Chōkō.
A pagina 376, Unaiko presenta a Kenzaburō-Chōkō il suo fidanzato, tale Katsura Katsuo, che “scrive articoli e recensioni per alcune riviste”, ma che “in realtà svolge un’altra professione (beh, un po’ come me). Anch’egli (io non so ancora, avendo finora letto solo una sua opera giovanile “Animale d’allevamento”) è un profondo conoscitore dell’opera omnia di Kenzaburō-Chōkō.
A pagina 377 mi viene un lampo: a pagina 27 Usaiko e Chōkō discorrevano di una celebre opera francese “Gargantua e Pantagruel” di Rabelais, dove si narra di un’enorme turba di cani che, attratti da qualcosa di immondo, tratto dal ventre di una cagna in calore maciullata da un servo di nome Panurge, saltano addosso alla signora, a cui Panurge, dopo il canicidio, aveva introdotto di nascosto l’orrida carne nel cappotto, “dando vita a scene di violenza e a un pandemonio inenarrabile. Le lascio immaginare cosa potrebbe accadere se ‘più di 600.014 cani’ – l’autore cita il numero esatto – si scatenassero nello stesso momento.”
Cani veri, non di peluche!
Torno a Katsura Katsuo, mentre sta affrontando un punto delicato, se non del romanzo, almeno della mia reazione ad esso. Propone di mettere un po’ in ombra, nelle opere tratte dai romanzi di Kenzaburō-Chōkō, insomma di “dare a lui e ad altri personaggi un po’ in là con gli anni ruoli meno importanti, per esempio rendendoli meno appariscenti e conferendo loro una funzione di supporto, per lasciare che in primo piano ci fossero figure più giovani.” Lo scopo è di rendere l’opera “più originale e accattivante, oltre che fruibile da lettori di diverse fasce d’età.” Unaiko non è d’accordo, ma Katsura insiste, mettendo il dito nella piaga (anche della mia reazione): “… i suoi romanzi degli ultimi dieci o quindici anni seguono sempre la stessa falsariga, soprattutto riguarda al protagonista o al coprotagonista, che spesso coincidono con l’io narrante e lo stesso autore. L’alter ego di Chōkō Kogito…” (di Kenzaburō Oe, a questo punto traduco)…
“Qui si rasenta l’accanimento.” – di certo Katsura non è uno che te le manda a dire! E mette Kenzaburō-Chōkō con le spalle al muro: “… perché sceglie sempre di scrivere del suo ristretto mondo individuale, in cui l’accesso dall’esterno è un’impresa ai limiti dell’impossibile?”
Kenzaburō-Chōkō non fa opposizione e ammette: “… senza seguire un approccio semi autobiografico non sarei capace di scrivere niente o quasi. In tutta onestà, sono costretto a restare entro quegli stessi confini per una questione di pura necessità.”
A questo punto, grazie sia a Katsura che a Kenzaburō-Chōkō, ho deciso definitivamente di disdettare il mio proponimento di verificare quanto Kenzaburō sia Chōkō e viceversa. La faccenda è ininfluente, dal punto di vista del lettore, quasi illegittima. Luigi (Pirandello) direbbe: “Così è, se vi pare”!
Katsura cita poi un romanzo che Kenzaburō-Chōkō ha scritto, ispirandosi a William (Blake). Per la cronaca esiste nelle Opere di Kenzaburō. Ma a chi interessa, ormai?
Katsura, che agisce in modo onesto, ma drastico e non molto opportuno, chiede a Kenzaburō-Chōkō di un altro verso di Eliot, a cui egli risulta affezionato: “These fragments I have shored against my ruins”. Da notare che il poeta usa il verbo “shore” nel senso di “puntellare” e “sostenere”.
“D’altra parte mi sono reso conto che, man mano che passano i giorni e divento vecchio, le mie facoltà fisiche e mentali subiscono un inesorabile declino…”
A quelle parole “Unaiko aveva cominciato a piangere, e ora due rivoli di lacrime scorrevano copiosi lungo le sue guance…”
A cento pagine dalla fine, un particolare biografico (mio, di Kenzaburō-Chōkō, di Akari e di Ricchan): si cita un poema di Arthur (Rimbaud), “Dopo il diluvio”, che è in realtà il proemio di “Illuminations”. Ricchan lo proponeva come titolo della composizione musicale di Akari, che “con un tono che non ammetteva repliche” ne sceglie un altro “Le grandi acque!”
Ancora su Kenzaburō-Chōkō. Difficilmente le sue donne gliene lasciano passare una liscia. Ha due figli problematici, uno con una malformazione al cranio (e alla psiche) e una molto, troppo, pepata. Tanto che arriva a biasimare il padre perché non pensa con sufficienza lungimiranza al suo dopo, cioè a quello che accadrà alla sua famiglia dopo il suo decesso.
Asa, la sorella di Kenzaburō-Chōkō, stupisce un po’ il lettore (cioè me) quando afferma, rivolta a Unaiko: “Forse è solo un sogno irrealizzabile, ma ho immaginato che dopo la morte di mio fratello Ricchan possa trovare il modo di continuare a essere al contempo la tua partner artistica e la maestra di musica di Akari, oltre che l’assistente personale di Chikashi… in fondo sognare non costa nulla.”
Vorrei solo sottolineare che Asa non è poi così giovanissima, che Chikashi è reduce da un poco simpatico tumore e che Akari, fino a poche pagine fa, doveva essere preparato e magari anche accompagnato prima o poi da Kenzaburō-Chōkō a salire su, nella foresta.
A volte mi domando con quale spirito il suddetto abbia scritto il romanzo.
Solo lui potrebbe rispondermi. Prima o poi lo farà.
All’inizio del 14° capitolo succede qualcosa per cui emerge un fatto terribile che riguarda la giovinezza di Unaiko, che non mi va di riportare.
Kenzaburō-Chōkō si limita ad affermare: “ma cosa c’entrano l’aborto con la nazione e il nuovo progetto teatrale?” Al che la sorellina lo fulmina con lo sguardo e gli fa: “Kogii, so che stavi solo riflettendo ad alta voce, ma non posso starmene in silenzio mentre dici cose insensate, soprattutto dopo che Unaiko ti ha…”
Carissimo Kenzaburō-Chōkō, sai che ti dico? Ognuno ha la sorella che si merita.
L’ultimo capitolo, che sembra a prima vista non avere a che fare col resto del libro, è fortemente drammatico.
Avviene un sequestro di persona, anzi di gruppo, che culmina in maniera assurdamente tragica.
Protagonisti sono tutti i personaggi principali, ma soprattutto uno di loro, senz’altro il più poliedrico, polivalente, polifunzionale e, in un certo senso, polidirezionale.
Sarà lui a risalire, alla fine, tutto solo, verso il cuore della foresta.
Il libro di Kenzaburō-Chōkō è ideale per chi ha del gran tempo da perdere, e che ne vuole sempre di più. È una di quelle opere che torneranno sempre, ogni tanto, e poi si eclisseranno all’improvviso, nella selva oscura della vita, un po’ come fece, a suo tempo, l’immagine di Kogii.
E qui termina la mia logorroica reazione.
Un dolce saluteannui[2] a Carlo Coci, padre di Gianluca, il traduttore dell’opera,“ora in un remoto mondo paradisiaco che è al tempo stesso come una foresta rigogliosa e una vasta distesa marina…”
P.S.: Vi sono altri due personaggi, che finora non ho menzionato. Si tratta del duo comico Ale & Franz, pardon, volevo dire Suke & Kaku. Difficilmente si potranno rinvenire facendo una ricerca su Google.
Ma il libro andrebbe comunque letto, non fosse altro che per fare la loro conoscenza.
Parola mia.
Written by Stefano Pioli
Note
[1] “Ad ogni essere mi sembravano dovute molte altre vite.”
[2] Espressione napoletana: quando uno muore si chiede salute/salvezza a chi rimane.
Bibliografia
La foresta d’acqua di Kenzaburō Ōe, Garzanti, 2019