“Rerum vulgarium fragmenta”, ovvero il Canzoniere, di Francesco Petrarca: in vita ed in morte di Madonna Laura

 In vita di Madonna Laura

 

Canzoniere - Francesco Petrarca
Canzoniere – Francesco Petrarca

S’amor non è, che dunque è quel ch’i’ sento

Ma s’egli è amor, per Dio, che cosa e quale?”

Sono i due versi endecasillabi con cui inizia il Sonetto LXXXVIII. Ho in mente una domanda che m’è venuta quasi al primo verso che ho letto. Francesco canta le lodi di quest’Essere come mai accadde che qualcuno abbia mai fatto per qualcun altro. Il dubbio è questo: se Francesco è di certo un uomo, la sua Amata cos’è?

Egli chiama Dio a testimonianza: quel “per” significa secondo quanto solo Dio potrebbe testimoniare cosa realmente sia e a quale ordine di fenomeni appartenga. Se non lo sa lo stesso Francesco, ma solo Dio, sarà impossibile per me capirlo.

Al Sonetto XC mi sento finalmente di presentare la tesi che sta covando in me da un centinaio di pagine: Francesco vede Laura come un enigma (una teoria direbbe Karl Popper) religioso: indimostrabile. Solo, se, eventualmente, Dio ci fosse (altro dogma ineffabile) potrebbe dimostrare quell’assurdo in cui talvolta si giunge a credere. L’evento Dio è al di là dei sensi. Il fenomeno Laura è qui, ora, anche se è distante e quasi irraggiungibile. È quel quasi che tanto eccita la mente del poeta. Nel Sonetto XCI, Francesco dice:

Onde Amor paventoso fugge al core,

Lassando ogni sua impresa, e piange e trema;

Ch’io posso far, temendo il mio Signore,

Ivi s’asconde, e non appar più fore.

Che poss’io far, temendo il mio Signore,

Se non star seco fino all’ora estrema?

Amor, impaurito, si rifugia nell’intimo del Poeta, tremebondo. Amore è il Signor impaurito di un uomo che non lo è di meno. Non è un Dio, semmai un’anima gemente a cui occorre restare attaccati fino alla Morte.

Così sempr’io corro al fatal mio sole,

Degli occhi onde mi vien tanta dolcezza,

Che ‘l fren della ragion Amor non prezza,

E chi discerne è vinto da chi vole.” – Sonetto XCII

Il Sole è una divinità, Laura una dea che fa dolere, per cui Amor non vuol sentir ragioni, se non d’amare. E chi intende capire non vale come chi desidera. Si legge, nel Sonetto XCII:

Tanto mi piacque prima il dolce lume,

Ch’l’ passai con diletto assai gran poggi

Per poter appressar gli amati rami

L’amore, mi spinse a risalire somme erte per poter avvicinare la mia Laura.

Altro amor, altre frondi ed altro lume.

Altro salir al ciel per altri poggi

Cerco (che n’è ben tempo) ed altri rami.”

Francesco cerca una via di fuga dalla sua passione terrena: non Amor, ma Dio. Non l’alloro poetico, ma le fronde di Cristo; ed altri rami, quelli della Croce.

Nel Sonetto CV il pianto di Laura zittisce gli elementi:

Che non si vedea ‘n ramo mover foglia;

tanta dolcezza avea pien l’are e ‘l vento.”

La natura è attenta non più a se stessa, com’è sua costumanza, ma a Laura.

Nel Sonetto CVIII si paragonano le qualità di Laura a quelle divine:

Per divina bellezza indarno mira

Chi gli occhi di costei giammai non vide,

Come soavemente ella gli gira.”

Chi vuol vedere la divinità può sol riferirsi a questa Donna.

L’inizio del Sonetto era stato significativo:

In qual parte del Ciel, in qual idea

Era l’esempio onde Natura tolse

Quel bel viso leggiadro, in ch’ella volse

Mostrar quaggiù quanto lassù potea?

Ritratto di Laura, in un disegno conservato presso la Biblioteca Medicea Laurenziana
Ritratto di Laura, in un disegno conservato presso la Biblioteca Medicea Laurenziana

Parrebbe quasi che l’idea di Laura non possa essere prefigurata in cielo, ad onta di qualsiasi platonica dottrina. Che sia l’Idea incarnata della Bellezza?

Lei è Lei (Sonetto CIX):

Che sol se stessa e null’altro simiglia.”

I Suoi sono atti assoluti e sacri:

Qual miracolo e quel, quando fra l’erba

Quasi un fiore siede! ovver quand’ella preme

Col suo candido seno un verde cespo!”

Mircea Eliade direbbe che la Donna in questione crea uno spazio sacro in cui il terreno si mischia col divino:

Mediante l’esperienza del sacro lo spirito umano ha colto la differenza tra ciò che si rivela reale, potente, ricco e dotato di significato, e ciò che è privo di queste qualità: il flusso caotico e pericoloso delle cose, le loro apparizioni e le loro scomparse fortuite e vuote di significato– La Nostalgie des Origines, 1969, p.7 e ss.

Laura è il Sacro, di una sorta terribilmente esigente. Nel Sonetto CXXII Francesco dice:

Ma tu prendi a diletto i dolor miei:

Ella non già; perché non son più duri

E ‘l colpo è di saetta e non di spiedo.”

Il tu è Amore, la mia schiavitù verso di Laura. Tu ami di me anche i miei dolori. Lei invece non li ama troppo perché non più duri. È una pretesa assurda, quindi divina. Amor è umano, Laura no.

L’uomo deve scegliere a quale Dio abbandonarsi. Ma questo è proprio il punto arcano. Può farlo? Sonetto CXXVI:

Un amico pensier le mostra il vado,

Non d’acqua che per gli occhi si risolva,

Da gir tosto ove spera esser contenta:

Poi, quasi maggior forza indi la svolva,

Convien ch’altra via segua, e mal suo grado

Alla sua lunga e mia morte consenta.”

L’ispirazione divina mostra al mio cuore il guado che non sia di lacrime, per andar dove vi sia la beatitudine. Ma qualcosa lo svia verso la mia morte fisica e mentale. Dio e Laura sono due poli opposti che, con effetti drammatici, entrambi l’attraggono, tormentandolo, agendo da antagonisti, ognuno a suo modo e con l’intensità che diversamente gli aggrada. La contrapposizione appare più sfumata, quando, nel Sonetto CXXXIX, Francesco dice:

Siccome eterna vita è veder Dio,

Né più si brama, né bramar più lice,

Così me, donna, il voi veder, felice

Fa in questo breve e frale viver mio.”

Il poter mirare la bellezza divina di Laura rende felice questa fragile vita umana. In attesa di un’altra eternità. Altra, però. Nel Sonetto CXLVII, Francesco, impossessatosi di una reliquia di Lei, di un guanto, rimira in esso la di Lei bellezza. Conscio del suo furto, sa che lo dovrà restituire. E perdere questo contatto con la Divina. Cosa che avviene.

Nel Sonetto successivo il Poeta tesse le lodi dell’Amata, avendo avuto l’occasione di rimirarla. In quello ancora successivo, Francesco si pente non della colpa commessa, ma del suo stesso pentimento, perché il guanto restituito ricopre ora la mano di Colei che, come sempre, lo rigetta.

La sua religione prevede, anzi, necessita di sporadici sacrilegi. Non è priva di critica verso la sua Divinità. Si nutre di essa.

Francesco ha un’idea così religiosa dell’amore, che è fatto di attimi sacri, di religiosità, di eventi miracolosi, che però (perciò) svaniscono. E sente perciò la necessità di fissarli sulla carta. Già pensa alla morte del suo idolo femminile, e la propria: due eventi ineluttabili. Nel Sonetto CLI dice:

Quest’arder mio, di che vi cal sì poco,

E i vostri onori in mie rime diffusi,

ne porian infiammar fors’ancor mille;

Ch’l’ veggio nel pensier, dolce mio foco,

Fredda una lingua, e duo begli occhi chiusi

Rimaner dopo noi pien di faville.”

Francesco Petrarca - ritratto di Altichiero da Verona -1370 circa
Francesco Petrarca – ritratto di Altichiero da Verona -1370 circa

Voi, Divinità, poco date peso a questo mio ardere, che crea e diffonde nel mondo i Vostri onori, tanto da poter far innamorare mille altre donne. Io penso, o Dolce Mio Fuoco, lingua fredda e due occhi belli ma chiusi, ma che, anche quando non ci saremo noi, illumineranno il mondo. Il Canzoniere è una specie di Vangelo dell’Amor, non sacro né profano: Amor e nulla più.

Nel Sonetto CLVI, Francesco dice:

Che sol trovo pietà sorda com’aspe,

Misero onde sperava esser felice

Ed anche:

Or s’infinge o non cura o non s’accorge

Del fiorir queste innanzi tempo tempie

Laura è sorda come si dice che sia l’aspide. O Lei finge o non si cura del dolore che m’incanutisce prima del tempo. Francesco sa che i serpenti non sentono, ma badano ai movimenti dell’incantatore. Laura ha tutti i sensi vigili. Per cui, di certo, finge. Francesco si rivolge allora a Dio, nel VI Sestina:

Guarda ‘l mio stato alle vaghezze nove:

Che ‘nterrompendo di mia vita il corso,

M’han fatto abitator d’ombroso bosco:

Rendimi, s’esser può, libera e sciolta

L’errante mia consorte; e fia tuo ‘l pregio

S’ancor teco la trovo in miglior parte.

Vedi, Dio, come m’han ridotto le Sue bellezze: che cambiando il mio percorso umano, m’han reso prigioniero di un luogo da cui è arduo uscire. Libera la mia anima errabonda. E sarà solo per te e con te che essa ritroverà la sua miglior parte. Ancora Dio contrapposto a Laura.

Nel Sonetto CLIX, precedente la Sestina VI, Francesco definisce magiche le grazie della sua Donna. Come incantesimi che gli hanno mutato l’aspetto (“Da questi magi trasformato fui”).

Nel Sonetto CLX, ad essa successivo, si attribuisce a Dio le immense virtù di Laura:

Raccolto ha ‘n questa donna il suo pianeta,

Anzi ‘l re delle stelle; e ‘l vero onore,

Le degne lode e ‘l gran pregio e ‘l valore

Ch’è da stancar ogni divin poeta.”

Quindi è Dio che l’ha costretto all’amore per Laura. È una religione, un legame, un giogo che da Lui deriva. Lei è una Dea dell’Ingiustizia e dell’Egoismo. Nel sonetto CLXI quel pensiero si esplicita:

Più l’altrui fallo che ‘l mio mal mi dole;

Che pietà viva e ‘l mio fido soccorso

Vedem’arde nel foco e non m’aita”.

È una pietà assolutamente asciutta! Il poeta però ammette, nel seguente Sonetto CLXII, che è giusto così:

Or non odio per lei, per me pietate

Cerco; che quel non vo’, questo non posso;

Tal fu mia stella e tal mia cruda sorte:

Ma canto la divina sua beltade;

Che quand’i sia di questa carne scosso,

Sappia ‘l mondo che dolce è la mia morte.”

Non voglio aver odio per Lei, non posso aver la di Lei pietà: è il mio crudele fato. Canto la Sua bellezza. Sappia il mondo che quando uscirò da questa carne, il morire mi sarà dolce.

Sarà per lo meno un sollievo! Amor e Morte. Perché sono antagonisti? Perché il primo ha sempre la meglio sulla seconda. Ma la seconda annulla inevitabilmente, quando sarà l’ora, il primo. Poi? Chissà? Nel Sonetto CLXIII, si dice:

Tanto e più fien le cose oscure e sole,

Se morte gli occhi suoi chiude ed asconde.”

La Sua morte renderebbe le cose oscure e prive di senso.

Laura è Luce infinita. Più grande del sole, il cui apparire dilegua le stelle. E che svanisce all’apparir di Laura. Sonetto CLXIV:

I’ gli ho veduti alcun giorno ambedui

Levarsi insieme, e ‘n un punto e ‘n un’ora

Quel far le stelle e questo sparir lui.”

Laura e il Poeta - anonimo
Laura e il Poeta – anonimo

Laura è una Dea che, pur meravigliosa, compie peccato. Il verso finale del Sonetto CLXIX ripete la stessa accusa riportata nella Canzone XVI:

Vostro, donna, il peccato, e mio fia ‘l danno.”

Nel Sonetto CLXXIV, ancora:

Ch’l’ non penso esser mai se non felice.

Arda o mora o languisca; un più gentile

Stato del mio non è sotto la luna:

Sì dolce è del mio amaro la radice.”

Arda d’amore, muoia o mi strugga, non esiste sotto la luna uno stato più gentile del mio, essendo sì dolce la radice del mio amaro. Nel Sonetto CLX, diceva infatti:

E non so che negli occhi che ‘n un punto

Può far chiara la notte, oscuro il giorno,

E ‘l mel amaro, ed addolcir l’assenzio.”

Lo sguardo di Laura contiene quel qualcosa che, nel medesimo attimo, può far luminoso il buio e viceversa. E il miele diventa amaro, l’assenzio dolce. Laura è operatrice di miracoli alchimistici.

Il Sonetto CLXXVII è illuminante, per quanto assurdo. Laura, nel Sonetto precedente, è inferma negli occhi. Francesco teme di non poter mai più vedere queste due luci. Ma ora il poeta è felice di poter celebrare la guarigione del suo amato Bene:

Della mia donna, al mio destr’occhio venne

Il mal, che mi diletta e non mi dole:

E pur come intelletto avesse e penne,

Passò, quasi una stella che ‘n ciel vole;

E Natura e pietade il corse tenne.”

Com’è bello aver attratto il male della propria su di sé, e di averla in tal modo sanata!

Il Figlio di quell’altro Sommo Dio si comportò all’opposto. Prese su di sé i mali del mondo. Ma quel Dio è assai lontano, al momento, dalla mente del Poeta. Ora c’è solo Lei che campeggia sola!

Intanto, però, il Sonetto CLXXX mi dona un ulteriore pensiero:

Tu ‘l fai, che sì l’accendi e sì la sproni,

Ch’ogni aspra via per sua salute tenta:

E più ‘l fanno i celesti e rari doni,

C’ha in sé Madonna. Or fa almen ch’ella il senta,

E le mie colpe a se stessa perdoni.”

Tu è Amore che spinge l’Anima ogni pur aspro cammino per giungere alla sua salvezza. E ancor più che te son causa di questo le doti di Laura. Fa’ in modo, Amor, che ella capisca la tua e la sua colpa, che lei deve perdonare a se stessa, non a me.

L’arcano è: dentro Francesco vi sono due Esseri che interagiscono, che sono parti contraddistinte del suo Sé? Amor fa gemere l’anima, nel darle il senso del suo percorso. Amor è la pulsione che agisce e fa violenza sull’anima di Francesco. E la smuove.

Mentre, poi, nel Sonetto CLXXXVI, consiglia a un amico innamorato infelice di affidarsi immediatamente a Dio (“Perchè ‘l cammin è lungo e ‘l tempo è corto”). In quello successivo, ne incontra un altro, in presenza di Laura. Occorre dimenticare presto questo Sonetto, se si vuol (non) comprendere qualcosa dell’intero “Canzoniere”. Infatti:

Non vede un simil par d’amanti il sole,

Dicea ridendo e sospirando insieme;

E stringendo ambedue, volgeasi attorno.

Così partia le rose e le parole:

Onde ‘l cor lasso ancor s’allegra e teme.

O felice eloquenza! o lieto giorno!”

Una lieta accoglienza di Laura, che sorprende ancora il tremebondo Francesco, ispira il Sonetto CC, tanto che egli ha paura di non saper affrontare tanto inusitato piacere.

Mia madre mi diceva “Et mor prest”, “Muori presto”, quando mi comportavo in un modo insolitamente virtuoso.

Questa raccolta sta finendo, mancando solo una canzone e sei sonetti. In essi Francesco ribadisce le qualità dell’amata, sentendone la penosa mancanza, essendo Lei lontana nel tempo e nello spazio, eppure ancora possibile, per cui sempre ne teme la severità, di cui però non sa fare a meno. Finché ella lo tratta male, egli l’amerà.

Se l’amore è un mistero, Francesco l’ha reso per sempre impenetrabile.

In morte di Madonna Laura

Francesco Petrarca - particolare dell'affresco Ciclo degli uomini e donne illustri - Andrea dal Castagno 1450 circa
Francesco Petrarca – particolare dell’affresco Ciclo degli uomini e donne illustri – Andrea dal Castagno 1450 circa

Il Sonetto I, a parere del curatore, il senese Ettore Fabietti, che mi è compagno fedele ed essenziale in questa mia disamina, presenta “la negletta veste di un componimento poetico, cui la commozione dell’autore non ha consentito opera di lima e finitezza”.

Della canzone I, immediatamente successiva, altrettanto elegiaca, vorrei ricordare un verso, il 32esimo: “Questo m’avanza di cotanta spene”, che ne ricorda uno di Ugo che, ignoro il perché, mi è rimasto in mente dagli anni del Liceo: “Questo di tanta speme oggi mi resta!” (“In morte del fratello Giovanni”), e che ricorda anche Giacomo con: “Quando sovviemmi di cotanta speme” (“A Silvia”).

Giacomo inventò una novità poetica che rivoluzionò la poesia. Di Francesco è sicuramente figlio, nonché attento lettore, tanto da esser potuto andar oltre, solo dopo aver ripercorso l’antico tragitto dell’aretino.

Nel Sonetto CLXXI, Francesco aveva già intonato, tra l’altro:

Passer mai solitario in alcun tetto

Non fu quant’io, nè fera in alcun posto,

ch’i non veggio ‘l bel viso, et non conosco

altro sol, né quest’occhi ann’altro obiecto.”

Come già nei primi Sonetti del Canzoniere, anche in questa seconda sezione, faccio fatica a reagire, perché è come dover prendere le misure con un fenomeno imprevisto.

Nel Sonetto XII, Francesco rammenta gli antichi lacci d’amore e disprezza gli eventuali nuovi. Laura è su in cielo (“E Laura mia vital da me partita/ E viva e bella e nuda al ciel salita”, come diceva nel Sonetto X). Si rivolge quindi ancora a Lei, che veglia sulla sua sorte:

Ma tu, ben nata, che dal ciel mi chiami,

Per la memoria di tua morte acerba

Preghi ch’l sprezzi ‘l mondo e i suoi dolci ami”.

Colei che l’ebbe avvinto, ora veglia su di lui affinché non sia preso da altre passioni.

Nel Sonetto XVII, Laura è descritta:

E di doppia pietate ornata il ciglio,

Or di madre or d’amante: or teme or arde

D’onesto foco: e nel parlar mi mostra

Quel che ‘n questo viaggio fugga o segua,

Contando i casi della vita nostra,

Pregando ch’a levar l’anima non tarde;”

Di passaggio cito un verso del Sonetto XIX, scritto in morte dell’amico Sennuccio Del Bene, che il Poeta prega di salutare, nell’ordine: Guittone D’Arezzo, Cino da Pistoia, Dante e Franceschino Degli Albizi. Il fatto, non so perché, mi sorprende ed emoziona.

Laura è ora madre apprensiva o amante infuocata, piena di pii consigli, e gli augura di raggiungerla presto in Paradiso. È il suo maestro spirituale, come indicava in un verso del Sonetto precedente: “Ir dritto alto m’insegna…Ma lei non da oggi veglia sulla sua anima. Anche quando pareva sdegnosa in vita, lo faceva per il suo bene, come dice poi, nel Sonetto XXI:

Or comincio a svegliarmi, e veggio ch’ella

Per lo migliore al mio desir contese,

E quelle voglie giovenili accese

Temprò con una vista dolce e fella.”

Solo ora se ne avvede. Lei si oppone al suo desiderio e temprò quelle sue pulsioni eccessive alternando uno sguardo dolce a uno arcigno. Il concetto è ripetuto nel Sonetto successivo:

Come va ‘l mondo! Or mi diletta e piace

Quel che più mi dispiacque; or veggio e sento

Che per aver salute ebbi tormento,

E breve guerra per eterna pace.”

Laura è colei che ancora invita il Poeta a raggiungerla, finalmente, in luogo dove non può più peccare, in Cielo:

Or vorrei ben piacer; ma quella altera,

Tacito, stanco, dopo sé mi chiama.”

Il Sonetto XXXIV risolve il mio problema con Francesco. Non sapevo, non ero consapevole, fino a questo punto del valore che percepivo di questo Poeta. Egli ha prodotto fin qui oltre duecento componimenti, alcuni dei quali mi sono parsi mere schermaglie poetiche che poco cambiano la vita di chi li legge.

Questo Sonetto è sublime. Non ne cito alcun verso per rispetto e perché chi mi sta leggendo provi il desiderio di farlo un giorno suo. Francesco si leva con l’anima al Cielo e immagina di essere con Laura. Null’altro.

Per cui mi contraddico subito e per facilitarne la ricerca segno il verso iniziale:

Levommi il mio pensiero in parte ov’era…

Nel Sonetto LX, Francesco dice ancora:

S’onesto amor può meritar mercede,

E se pietà ancor può quant’ella suole,

Mercede avrò, che più chiara che ‘l sole

A Madonna ed al mondo è la mia fede.”

Il suo amore fu onesto e meritevole, perché la mia fede in Lei è più chiara del sole.

Però, nel Sonetto LXXXIV, l’autoanalisi fa un passo indietro:

Di tanto error, che di virtute il seme

Ha quasi spento; e le mie parti estreme,

Alto Dio, a te devotamente rendo,

Pentito e tristo de’ miei sì spesi anni;”

Francesco è pentito di una colpa grande e distruttivo del seme della virtù. Ora solo Dio può perdonarlo. Nel successivo Sonetto, insiste nella confessione:

I’ vo piangendo i miei passati tempi

I qual posi in amar cosa mortale,

Senza levarmi a volo, avend’io l’ale

Per dar forse di me non bassi esempi.”

Amare un (oggetto? sentimento?) mortale mi ha impedito d’involarmi verso Dio.

Chiede perciò a Lui l’assoluzione:

Soccorri all’alma disviata e frale.

E ‘l suo difetto di tua grazia adempi

Francesco Petrarca - Madonna Laura
Francesco Petrarca – Madonna Laura

Quel che appare un groviglio di contraddizioni (e in parte lo è, come lo è, in fondo, il “Canzoniere” tutto), è il processo con cui ora Francesco, e, in altri casi, ciascun uomo compie, quando non sa quanto e se ha errato. Nel seguente Sonetto, riconosce in Lei, nella Sua alternanza di atteggiamenti, dolci e severi, ma sempre onesti, la sua salvezza che, diversamente, sarebbe persa.

Or presto a confortar mia frale vita;

Questo bel varïar fu la radice

Di mia salute, che altrettanto era ita.”

La seconda parte del “Canzoniere termina con una lunga canzone dedicata a Maria:

Vergine, quante lagrime ho già sparte,

Quante lusinghe e quanti preghi indarno,

più per mia pena e per mio grave danno!”

Quanto ho lottato contro la mia felicità per ottenere il di lei amor terreno!

E ‘l cor or coscïenza or morte punge.

Raccomandami al tuo Figliuol, verace

Uomo e verace Dio,

Ch’accolga il mio spirto ultimo in pace.

Orfeo si reca nell’Ade per riportare sulla Terra la sua Euridice. Persefone glielo concede, a patto che per tutto il tragitto non si giri verso l’amata. Non riesce a resistere e Euridice svanisce. A seguito di tale tragico evento, Orfeo diventerà il massimo poeta. La mancanza dell’amata lo renderà, pur infelicemente, libero.

Tristano e Isotta sono due appassionati amanti, nonostante che ella sia destinato al re Marco, a cui Tristano è (per il resto) fedele. A un tratto, colpito da rimorso, Tristano pone una spada fra sé e l’amata. E poi restituisce la donna al suo re. Solo allora comprende quanto l’ama. La lontananza, sai, è come il vento…

Nel caso di Francesco, il caso è diverso. Egli ha sempre vissuto lontano dall’amata avignonese. Quand’era viva, la bramava, anche a costo di dimenticare Dio, di cui Laura era in concorrenza. Ora che è morta, il dissidio si è risolto, ed è subentrata una saggia accettazione.

Analoga è la situazione prevista per l’interazione nucleare forte. Il gluone mantiene uniti i quark nei neutroni e nei protoni. La sua energia è debole quando i quark sono vicini, ma si rafforza all’inverosimile man mano che essi si allontanano. Ad un certo punto (e tutto accade sempre ad un certo punto) avviene la rottura del legame, così come capita a un elastico tenuto troppo teso. I quark sono finalmente sciolti fra di loro (ma per sempre entangled, coinvolti).

Francesco ha amato Laura, per le sue doti, ma innanzi tutto perché è altrove, perché se fosse qui e ora, perderebbe il suo potere. Il legame è tanto più forte quanto più Lei è lontana.

Alla fine il legame fisico si rompe. Laura è assurta in Cielo, come una Divinità, insieme al Dio di entrambi.

Una frase provocatoria può spiacere e al contempo dare l’idea. In dialetto reggiano si dice: “L’è dmei ‘na cros morta ch’una viva.” È meglio una croce morta che una viva.

Francesco, non più privo di amorosi sensi (e condizionamenti), ha sanato il conflitto.

Potrà finalmente librarsi, senza più fisiche costrizioni, al Divino Punto Omega.

 

Written by Stefano Pioli

 

Bibliografia

Francesco Petrarca, Il Canzoniere, a cura di Ettore Fabietti, Casa per Edizioni Popolari

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *