“Io sono confine” di Shahram Khosravi: per meritare l’asilo bisogna aver sofferto
“Per i bakhtiari/ nessuno è più spregevole di chi chiude la porta agli altri./ Per mia madre l’ospitalità non era solo un fatto di buona educazione, un gesto nobile,/ ma l’essenza stessa dell’essere umani./ Non le ho mai confidato che talvolta dormivo all’addiaccio./ Non avrebbe potuto capirlo.”
Iran 1986.
Shahram Khosravi riceve la cartolina precetto ma, convinto dalla madre, decide di imboscarsi.
Fugge così dall’Iran in Afghanistan poi in Pakistan, in India, e da qui in Europa: un tentativo (fallito) per l’Olanda e poi con un passaporto greco contraffatto (scrive a questo proposito “Il mio primo nome era Kostas, ma il cognome era una sfilza di sillabe per me impronunciabili: ho passato la notte a imparare a memoria il mio nome”) in Svezia, dove viene spedito nel campo profughi di Kiruna, a nord del circolo polare artico.
Meno di tre anni dopo, John Wolfgang Alexander Ausonius, un aggressore seriale di immigrati, gli spara (la storia del killer – figlio di immigrati e bullizzato per il cognome e i capelli nerissimi − è raccontata in “L’uomo laser” di Gellert Tamas, pubblicato da Iperborea nel 2012 ed anche in un film per la tv dove lo stesso Khosravi ha disconosciuto il fatto di essere stato rappresentato non come uno studente laico di antropologia ma come un talebano, con tanto di barba d’ordinanza).
Oggi è cittadino svedese e docente di Antropologia sociale all’Università di Stoccolma e la casa editrice Elèuthera ha appena pubblicato in italiano, con la traduzione dall’inglese di Elena Cantoni, il testo ‘Illegal Traveller’: An Auto-Ethnography of Borders.
Il titolo italiano Io sono confine è mutuato da un concetto di Étienne Balibar secondo cui “gli indesiderabili non sono più espulsi dal confine ma sono costretti a essere loro stessi il confine”.
Questo libro parla dunque di confini e di coloro che li violano: coniugando auto-narrazione, scrittura etnografica, analisi dei flussi migratori, riflessioni e citazioni di altri autori (Benjamin, Arendt, Derrida, Foucault, Fanon, Agamben, Bauman, Kafka, solo per citarne alcuni), con molte interviste e testimonianze dirette arriva a definire le frontiere come “una tecnica per calcolare il valore degli stranieri: supera il confine soltanto chi è utile, chi è produttivo”.
In particolare si sofferma sulla figura del dal lal, ingranaggio imprescindibile ma quasi sempre nascosto della macchina della migrazione illegale cioè il “facilitatore dell’attraversamento”: intervista così Amir Heidari che dal carcere denuncia l’ipocrisia delle scelte europee “Durante la seconda guerra mondiale Raoul Wallenberg ha fatto per gli ebrei le stesse cose che io ho fatto per i curdi. Oggi lui è un eroe e io sono un criminale”.
Altro importante spunto di riflessione riguarda la tematica del corpo e la sua relazione con la frontiera: per “meritare” l’asilo bisogna aver sofferto.
Le ferite sono considerate una prova oggettiva e ritenute più credibili delle parole. Bisogna presentare un corpo fragile o fragilizzato che funga da testo su cui leggere la sofferenza… ancor più per il corpo femminile soggetto a stupro sistematico inteso sia come un meccanismo di controllo sia come un pedaggio per poter accedere al di là del confine.
Un libro urgente ed attualissimo, non “solo” sul migrare altrove per rincorrere la speranza di una vita migliore ma soprattutto sulla necessità di superare il confine più pericoloso, quello mentale, perché ingabbia le persone dentro modelli rigidi; per questo invita a chiederci: “che cosa vedremmo se il confine lo guardassimo stando dall’altra parte?”
Written by Monica Macchi