“A private war” di Matthew Heineman: la vita straordinaria della reporter di guerra Marie Colvin
“Ti ritrovi in posti dove sai che puoi essere ucciso, o qualcuno può essere ucciso…” − Marie Colvin

Ispirato da un articolo pubblicato nel 2012 da Vanity Fair, e scritto per mano di Marie Brenner, A private war è un film verità che racconta il dramma di gente comune, catapultata in un conflitto bellico, senza essere consapevole delle cause che l’hanno provocato.
Pellicola dal contenuto notevole e altamente drammatico, A private war narra dell’operato dei reporter di guerra; in questo caso la protagonista della narrazione filmica è una: Marie Colvin, (Rosamund Pike) giornalista e testimone di vicende belliche avvenute in zone, diventate scenari di guerra.
Senza dubbio, si può definire Marie Colvin un’icona dei nostri tempi, per la passione che ha impresso all’impegno che si è data prima di tutto con se stessa; un impegno che non è stato solo professionale, ma intriso di grande umanità.
Realizzato da Matthew Heineman nel 2018, A private war mette in luce il personaggio di Marie Colvin, illustrandone sì l’operato in qualità di reporter di guerra, sottolineandone però, con un onesto tratteggio, le motivazioni che hanno spinto questa donna bella, intelligente e già professionalmente affermata, a raggiungere zone impervie e pericolose del globo, dove l’imperativo era uno solo: fare la guerra, a costo di calpestare qualsiasi vita umana. Grandi e piccoli senza alcuna distinzione.
E di queste guerre, che portano vantaggio solo a un pugno di uomini, Marie Colvin si è assunta il compito di riferirne al mondo intero. Perché, secondo la sua visione, le brutture di cui è stata testimone andavano raccontate, e forse, grazie alla sua testimonianza, si sollevassero le coscienze.
“La gente l’ha giudicata stupida la scelta di andare là…” − Caporedattore
Marie Colvin lavorò presso il settimanale britannico The Sunday Times dal 1985 al 2012 in veste di reporter di guerra, e come tale raggiunse lo Sri Lanka dove un conflitto dissennato stravolse la vita della popolazione inerme.
Episodio questo che dà l’avvio alla narrazione filmica di A private war.
Come accade per ogni guerra, anche qui bombe e ordigni d’ogni tipo colpirono tutti: piccoli e grandi, uomini e donne senza differenza alcuna.
In compagnia di un fotografo, tale Paul Conroy (Jamie Doman), Marie denunciò, in maniera cruda, e perciò aderente alla realtà, dei tragici eventi che si consumavano sotto i suoi occhi, mentre il filmmaker registrava tutte le immagini che la macchina fotografica poteva catturare.
Purtroppo, per Marie, sarà quella una circostanza che lascerà un segno indelebile nel suo bel viso: la perdita di un occhio. Ma lei, coraggiosa e noncurante, accettò l’evento come un semplice, anche se negativo, risultato delle sue scelte, e adottò una benda nera, a mo’ di pirata, per coprire la sua menomazione.
“Potrai fare quello che vuoi… Sei la migliore reporter di guerra…”

Personaggio al fuori degli schemi, dotata di un coraggio pressoché inesauribile, il quale appartiene a pochi, Marie non fece alcun passo indietro, come le venne suggerito anche dal suo capo redattore. Ma continuò a portare avanti il suo compito, diventato nel frattempo una questione privata, più che professionale.
La sua tappa successiva fu l’Afghanistan, teatro di una guerra che non ha risparmiato gli abitanti di quel territorio impervio e povero dove si consumavano misere esistenze.
Anche in questo caso Marie raccontò ciò di cui fu testimone, affinché si sapesse, realmente, quello che accadeva in quell’angolo di mondo dove montagne inaccessibili penalizzavano la popolazione. Quella dell’Afghanistan, fu, come tutte le guerre, destabilizzante, creando disordini geopolitici difficili da risanare, i quali hanno coinvolto anche l’Occidente.
Dopo l’Afghanistan Marie raggiungerà l’Iraq, anche qui per dare conto delle scelleratezze causate da una guerra ingiusta.
Sarà poi la volta della Libia, dove avrà l’occasione di intervistare Gheddafi e vedere la caduta del suo regime.
Quando raggiungerà la Siria, dove la guerra civile è tutt’oggi in atto, sarà scandalizzata nel trovare davanti a sé palazzi sventrati dalla furia omicida di colui che ordina i bombardamenti.
Allibita, Marie era però consapevole della situazione che lì si era venuta a creare. Probabilmente, informatori con cui era in contatto la tenevano aggiornata sulla situazione esistente, compreso lo sterminio di numerosissime persone.
Ma l’Occidente, in questo caso, non diede troppa importanza a questi fatti delittuosi, forse per non minare equilibri geopolitici fra le diverse potenze, alcuni delle quali sostenevano e tuttora sostengono il dittatore.
Anche qui, aiutata dalla forza delle sue idee, Marie Colvin volle dare conto di ciò che vedeva. Consapevole dei rischi che correva, e del pericolo di morte sempre in agguato, non rinunciò a mettere in atto la sua ‘missione’, nonostante le continue suppliche dei colleghi.
E, imperterrita raggiunse la Siria, zona altamente a rischio allora, come d’altra parte lo è tuttora. Marie era a conoscenza che Assad, responsabile di un genocidio senza precedenti, prevedeva che in mezzo a tanti cittadini innocenti ci fossero dei terroristi, la cui protesta era basata su giuste fondamenta.
“Non appenderò il giubbotto antiproiettile al chiodo…” Marie Colvin

Arrivata in Siria, ad accoglierla trovò soltanto la più totale distruzione, oltre che una miseria indicibile: palazzi in procinto di crollare, città diventate fantasma, brandelli di umanità rifugiati fra le mura a pezzi di quelle che un tempo erano abitazioni.
Ed è lì che Marie trovò riparo in compagnia del fotografo.
Ma nei resti fatiscenti di edifici sventrati dove alloggiava anche un gruppo di gente disperata, non c’era ombra della resistenza invocata da Assad.
Nonostante ciò i bombardamenti furono violenti, arrivando a distruggere ciò che già era distrutto: e saranno in molti, anche in questo caso, a farne le spese.
Ma, prima di allontanarsi da quel luogo di terrore, Marie riuscì miracolosamente a collegarsi con una TV e a denunciare gli accadimenti che stavano avvenendo in Siria; con il suo PC portatile accusò, con la sola forza della disperazione, anche grazie ai filmati che raggiunsero l’Occidente, il regime per le aberrazioni di cui fu testimone.
Ma, nel tentativo di allontanarsi da Homs (Siria), colpi di mortaio e intensi bombardamenti colpirono la gente in fuga, e Marie e il suo fotografo non ebbero il tempo di ritirarsi e vennero colpiti mortalmente.
“Non sono pazza, Rita… Tu non stai bene, vogliamo aiutarti…” − Un’amica
È questa la vicenda umana e professionale di un’eroina dei nostri tempi moderni, o meglio di una ‘leggenda’, come è giusto definirla. Perché persona alla costante ricerca della verità, che ha dato voce a coloro che voce non ne hanno: gli innocenti morti sotto le macerie di guerre inutili.
Come Marie sono state molte le giornaliste trucidate in zone di guerra. Donne, dal coraggio non comune, mosse da ideali e da un alto senso della giustizia, vittime innocenti cadute a causa delle numerose mostruosità che insanguinano il mondo.
Il film, nonostante alcune scene cruente, non ha nulla di spettacolare, semmai è stato realizzato con una trama lineare incentrata soprattutto sul personaggio di Marie Colvin.
Tratteggiata in maniera fedele e cruda, il film non fa di Marie il ritratto di un’eroina, ma di una donna normale, con i suoi limiti e i suoi momenti di smarrimento e sconforto, dopo aver assistito alla crudeltà umana, come si evince dalle sequenze filmiche.
Sono i suoi momenti di intimità, nei dialoghi che intreccia con il fotografo, a dare la misura della grandezza di questa donna che ha speso la sua vita per raccontare, denunciare e accusare la brutalità della guerra. Una donna, che per scacciare i fantasmi che la perseguitavano cercava rimedio nella bottiglia, per ricominciare poi, passato il momento della crisi emotiva, a portare avanti il compito che si era data.

Che dire infine della interpretazione dell’attrice Rosamund Pike, personaggio principale di A private war?
Eccellente, non c’è molto altro da dire; se non che è si è calata nei panni di Marie Colvin con naturalezza e bravura insieme. Ne ha assunto l’identità fisica, trasformandosi da bellissima attrice qual è, a donna grigia e incurante del suo aspetto, così come appare nel film che fa memoria delle sue azioni.
Grazie anche alla guida magistrale del regista Matthew Heineman, che ha realizzato un film verità il cui giudizio, dal punto di vista dello spettatore, non dovrebbe che essere etichettato col termine ‘capolavoro’. Soprattutto per l’aspetto umano con cui illustra gli ideali che hanno mosso la protagonista a vivere secondo una norma, che è quella dell’assoluta indipendenza e autonomia di pensiero e soprattutto di azione.
“Quando arrivi in un posto così, se non sei pazzo lo diventi…” − Fotografo
Written by Carolina Colombi