“Diario intimo” di Henri-Frédéric Amiel: l’Europa, la privazione e la rilettura dei classici ‒ luglio 1856/1859
“Così la mia vita è un gioco, che cerca di prendersi, se non sul serio, dal lato della curiosità; io scherzo per necessità, per abitudine e per prudenza, per non intenerirmi e disperarmi; mi faccio leggero, spensierato, disinvolto, per non soffrire e spezzarmi a proposito d’inezie. In altre parole, mi riservo.” ‒ Henri-Frédéric Amiel
Nel mese di luglio ma nel 1856 e 1859 il filosofo, poeta e critico letterario svizzero Henri-Frédéric Amiel (Ginevra, 27 settembre 1821 – Ginevra, 11 maggio 1881) scriveva le sue quotidiane riflessioni nel Diario Intimo.
Amiel non è celebre, non ha avuto la fortuna di altri filosofi e poeti dell’800, la sua non è stata una vita “di corte”, di società ma una vera e propria esistenza donata al Pensiero.
Eppure, malgrado l’atteggiamento da eremita, con il suo Diario Intimo ha mostrato tutte le piaghe della società a lui contemporanea e che si sono moltiplicate nella nostra attuale.
In 16.840 pagine il Journal Intime disegna perfettamente ciò che è accaduto in Europa in 150 anni. Alla sua morte furono pubblicate alcune pagine scelte in “Fragments d’un Journal intime” decretate come fenomeno letterario molto interessante, e successivamente nel 1923 il filologo e docente svizzero Bernard Bouvier pubblica una selezione più ampia.
Henri-Frédéric Amiel è tagliente, non accomoda alcun partito, alcuna fazione, il suo scrivere è portare alla luce, è trasmettere il canto, è ragionamento continuo che non ha pretesa di pubblicazione editoriale né di ammirazione da parte degli altri intellettuali contemporanei.
E forse è per questi semplici motivi che il Journal Intime è vero e si presenta come il dialogo di un uomo con l’anima.
Una rarità nel mondo post illuminista che volgeva l’interesse verso la velocità e la produzione, verso la mercificazione dell’essere umano, sulle basi di quello che noi abbiamo chiamato capitalismo.
Abbiamo deciso di selezionare alcuni brani di questo grande filosofo augurandoci di potar ai lettori di oggi qualche riflessione interessante dando la possibilità di curiosare all’interno di un libro diventato pressoché introvabile.
Siamo partiti dal gennaio del 1866 con una bellissima pagina di diario nella quale il nostro filosofo esortava se stesso ed il possibile lettore alla contemplazione. La selezione di febbraio ci ha portati nel 1869 con il discorso della facoltà di conoscere, a marzo 1868 abbiamo attraversato le facoltà di metamorfosi, aprile del 1850 è stato il mese in cui abbiamo visto come la coscienza possa essere duplice e ci siamo soffermati sull’importanza del matrimonio. A maggio siamo stati a cavallo tra il 1852 ed il 1855 esaminando come la parola possa essere rivelazione, le pagine selezionate condividono l’interrogazione sulla parola e sull’abisso che risiede in ognuno essere umano ma che viene cercato da pochi. Nella selezione del mese di giugno ci siamo trovati nel 17 giugno 1857 e nel 25 giugno 1865, Amiel si interrogava sul come debba agire un uomo di cultura e rifletteva sulla dualità delle lacrime.
Ci troviamo ora a leggere due giornate del 1856 (3 e 21 luglio) e due del 1859 (14 e 17 luglio). Amiel il 3 luglio descriveva l’uomo europeo con le sue diversità culturali. Prende ad esame la Germania, l’Italia, l’Inghilterra e la Francia: è interessane notare come nel 1800 ci si sentisse più europei rispetto ad oggi, come le differenze fossero segno di grandezza e di possibile insegnamento.
Il 21 luglio è una data che ci porta ad una grande riflessione, nella quale lo stesso Amiel arriva a definirsi “in privazione” per non subire l’umiliazione dell’amore, la lotta interna che portava avanti sulla correttezza del filosofo di incontrare il matrimonio è di forte interesse.
Le due date del 1859 sono state selezionate per la presenza di un invito alla rilettura di libri che si sono amati, è sempre consigliato riprendere in mano ciò che è stato letto e che in qualche modo ha colpito con quel tremolio della psiche che possiamo chiamare intuito e, che solo dopo anni, si può comprendere esattamente. Dunque il nostro appello è di sorseggiare queste quattro giornate e successivamente si consiglia di recarsi davanti ad una mensola che non si osserva da anni lasciandosi guidare dalla mano che, sfiorando i libri, saprà cosa afferrare per una “nuova rilettura”.
3 luglio 1856
Il Tedesco concepisce e persegue l’ideale, ma non lo attua mai spontaneamente, per conto suo; non è di razza nobile, ha l’ammirazione e non il genio della forma; è l’opposto dell’Elleno, ha la critica, l’aspirazione e il desiderio, non la potenza serena della bellezza. Non può dunque ciò che vuole, ma può godere della sua volontà.
Il Mezzogiorno, più artista, più soddisfatto di se stesso, più capace di esecuzione, si riposa pigramente nel sentimento del suo equilibrio. Da una parte è l’idea, dall’altra è il talento.
L’impero della Germania sta al di sopra delle nubi, quello dei Meridionali è su questa terra.
La razza germanica medita e sente; i Meridionali sentono ed esprimono; gli Anglosassoni vogliono e fanno.
Sapere, sentire, agire è il trio della Germania, dell’Italia, dell’Inghilterra. La Francia formula, parla, decide e ride.
Pensiero, talento, volontà, parola, o altrimenti, scienza, arte, azione, proselitismo, è la ripartizione delle parti nel quartetto più esteso.
21 luglio 1856 – privazione
[…] Non ho dato il mio cuore, di qui la mia irrequietezza di spirito. Non voglio lasciarlo prendere da ciò ce non lo può appagare, di qui quel mio istinto di spietato distacco da tutto quello che m’incanta senza legarmi definitivamente.
La mia mobilità, in apparenza incostante, non è dunque in fondo che una ricerca, una speranza, un desiderio ed una preoccupazione: è la malattia dell’ideale, che fa gustare, poi giudicare ogni cosa, e tentare l’ignoto senza esserne attratti, ma per una specie di dovere.
Così la mia vita è un gioco, che cerca di prendersi, se non sul serio, dal lato della curiosità; io scherzo per necessità, per abitudine e per prudenza, per non intenerirmi e disperarmi; mi faccio leggero, spensierato, disinvolto, per non soffrire e spezzarmi a proposito d’inezie. In altre parole, mi riservo.
“Gioco, pudore o disdegno, si può prender la maschera
E per giorni migliori riservare il casco.
Più forte, più sicuro.”
Il dissidio è dunque sempre fra l’ideale e il buon senso, l’uno non rinunziando a nessuna delle sue esigenze, l’altro adattandosi al conveniente ed al reale.
Ma il matrimonio e l’amore per buon senso, al ribasso, non sono una profanazione? Un’assurdità?
D’altra parte un ideale che impedisce alla vita di completarsi, che distrugge in germe la famiglia, non è vizioso? Nel mio ideale non entra forse parecchio orgoglio, la non-accettazione del mio destino?
La protesta interiore contro le superiorità artificiali ed arbitrarie? L’orrore d’umiliazioni immeritate?
Esser umiliato nel mio amore mi porterebbe all’esasperazione. Ed io mi privo per non correre simile rischio.
Tutto questo non conduce a nulla, conclude allo status quo, e perciò penso ad altro e non mi occupo di quello che non potrebbe procurarmi che fastidi.
14 luglio 1859
Ho riletto il Faust (tradotto in verso dal principe di Polignac). Ahimè! Tutti gli anni sono riafferrato da questa vita inquieta e da questo fosco personaggio.
È il tipo di angoscia verso cui gravito, e sempre più incontro in questo poema parole che mi vanno dritte al cuore. Tipo immortale, malefico e maledetto! Spettro della mia coscienza, fantasma del mio tormento, simbolo della passione insoddisfatta, immagine delle battaglie incessanti dell’anima che non ha trovato il suo alimento, la sua pace, la sua fede, il suo equilibrio, non sei tu l’esempio di una vita che divora se stessa, perché non ha incontrato il suo Dio, e che, nella sua corsa errante attraverso i mondi, porta in sé come una cometa l’incendio inestinguibile del desiderio e il supplizio del disinganno incurabile?
Anche io sono ridotto al nulla, e rabbrividisco sull’orlo dei grandi abissi vuoti del mio essere interiore, stretto dalla nostalgia dell’ignoto, assetato dalla sete dell’infinito, abbattuto davanti all’ineffabile.
Anche io provo talvolta quelle rabbie sorde di vita, quegl’impeti disperati verso la felicità, ma più spesso l’accasciamento completo e la disperazione taciturna.
E donde tutto questo? Dal dubbio che snerva il volere e toglie il potere, che separa dal prossimo, che fa dimenticare Dio, che fa trascurare la preghiera, il dovere e lo sforzo; dal dubbio inquieto e corrosivo che rende l’esistenza impossibile e sogghigna ad ogni speranza.
17 luglio 1859
[…] Morire al peccato! Questa prodigiosa parola del cristianesimo resta sempre la più alta soluzione teorica della vita interiore. Qui soltanto sta la pace della coscienza, senza la quale non esiste pace di sorta…
Ho letto sette capitoli del Vangelo. Questa lettura è un calmante. Fare il proprio dovere per amore ed ubbidienza, fare del bene, sono le idee predominanti.
Vivere in Dio e compiere la propria opera, ecco la religione, la salvezza, la vita eterna. Ecco l’effetto e il segno dell’amore santo e dello spirito santo.
È l’uomo nuovo annunciato da Gesù, è la vita nuova in cui si entra per la seconda nascita.
Rinascere è rinunciare all’antico io, all’uomo naturale, al peccato, ed appropriarsi un altro principio di vita, è esistere per Dio con un altro io, con un’altra volontà, con un altro amore.
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Bibliografia
“Frammenti di un giornale intimo” di Henri-Frédéric Amiel (Unione Tipografico – Editrice Torinese, 1967, a cura di C. Baseggio)
Info
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