“Canone inverso” di Paolo Maurensig: un io infinito
Concedimi, quindi, di non omettere il tuo cognome, senz’altro significativo, ma un po’ ostico per chi non lo pronuncia o lo scrive spesso: Paolo Maurensig.

Ho passato diversi giorni in tua compagnia o, meglio, insieme ai tuoi io narranti, e un minimo di confidenza, anche se forse non dovuta, me la voglio prendere.
Permettimi di ringraziarti soprattutto per due splendide frasi, colte nei giorni scorsi nel tuo “Canone inverso” (Mondadori, 1996).
“Una lettera è quanto di più irrevocabile ci sia…” (anche questa) e “Che cos’è l’amicizia, in fondo, se non una vicendevole, tacita assoluzione protratta nel tempo?”
Della prima ti ringrazierebbe anche il vecchio Jorge, se fosse ancora tra noi. Lessi non molto tempo fa un suo libro, regalatomi da Riccardo, intitolato “Altre inquisizioni”.
Se ce l’avessi sotto mano, ti consiglio di leggere uno dei primi capitoli, intitolato “Il tempo e J.W.”.
Se non l’avessi, ti suggerirei di acquistarlo, anche se il consiglio andrebbe bene per l’opera omnia dello scrittore argentino. Ricordati, tra l’altro, la sua celebre affermazione: “Ogni libro lo termina di scrivere il lettore”. Quanto sto per dirti lo debbo principalmente a quella lettura, oltre che alla tua opera, ovviamente.
Ho sempre amato i romanzi in prima persona, ma… l’io umanamente condannabile dello “Straniero” di Albert e l’io quietamente morente di “Dissipatio H.G.” di Guido, esempi eccezionali di questo tipo di letteratura, differiscono tanto dalle consuete voci in terza persona, in cui lo scrittore appare come un Dio onnisciente, quanto dai tuoi.
Quelli narrano unicamente ciò che hanno visto coi propri occhi, e da quell’umana limitatezza origina il loro dramma. I tuoi, invece, appaiono, insieme, io e narratori impersonali. Essi sembrano ogni volta giunti a conoscenza di certi, minimi, sperduti fatti perché, in momenti che non appaiono, qualche loro collega glieli ha misteriosamente comunicati.
Nella “Variante” il primo io narrante è il narratore del libro; non tu, Paolo, ma qualcuno che ti ha preso forse la mano ed ha iniziato a scrivere. Quando il secondo io entra in azione, per raccontare la storia della propria iniziazione agli scacchi, il primo si fa cortesemente da parte perché, in quel preciso istante la sua funzione è sospesa. Essa riprenderà di tanto in tanto e poi, definitivamente, quando avrà termine l’opera del secondo.
Egli concluderà infine il libro, omaggiando il lettore di parecchi interrogativi. Vi sono due io, dunque. Il primo appartiene alla schiera dei personaggi del secondo, e viceversa. Ognuno è anche un proprio personaggio, ma nel modo consueto, quello classico di io “finito ed immerso nel passato”.
Nel “Canone” appaiono tre diversi io narranti. Il primo “passa la palla” al secondo, al terzo, al secondo e al primo, seguendo una speciale gerarchia di ruoli, di tipo susseguente, come in una partita di volley. Il secondo io è un’emanazione del primo, come il terzo lo è del secondo e quindi del primo.
Anche stavolta il primo io narrante è il romanziere ufficiale, sebbene il secondo, se si intende il suo carattere di personaggio, sia uno scrittore estremamente deciso a raccontare l’intera storia. Il primo io non sembra entrare nel racconto del secondo e nemmeno del terzo che è, come si è detto, un’appendice del secondo e del primo, ma sarà protagonista di una delle due grandi sorprese finali, essendo uno dei personaggi del terzo, e quindi del secondo: uno dei minori, si direbbe.

Il secondo è un personaggio del primo, ma non del terzo. Il primo e il secondo sono personaggi ricordati da se stessi in quanto io. Il terzo è un personaggio del secondo e quindi del primo e, in terza persona, di se stesso. L’ultima sorpresa del libro consiste nel fatto che non lo è in quanto io, ma in quanto lui. Quando diceva io intendeva quell’altro, quando diceva quell’altro intendeva se stesso.
Secondo Jorge, cioè secondo Herbie:
“L’io è inevitabilmente infinito, giacché il fatto di conoscere se stessi, postula un altro io, che conosce anche esso se stesso, e codesto io postula a sua volta un altro io.”
Secondo Jorge, cioè secondo Dunny, che si ispira a Herbie:
“Un soggetto cosciente non solo è cosciente di ciò che osserva, ma di un soggetto A che osserva e, pertanto, di un altro soggetto B che è cosciente di A e, pertanto, di un altro soggetto C che è cosciente di B.”
Secondo Herbie, perciò, l’io è infinito.
Secondo Dunny, s’installa nell’individuo una vertiginosa gerarchia di soggetti.
Secondo Jorge, si tratta di “stadi successivi (o immaginari) del soggetto iniziale.”
La scelta dell’io narrante conduce all’abdicazione della funzione onnisciente dello scrittore, ma non di quella creativa.
Due fra i più terribili io narranti di questo secolo sono Henry e Louis-Ferdinand. Il loro io, senz’altro lacunosi, sanno essere grandi proprio a causa della loro scellerata limitatezza.
Essi campano dei propri errori e peccati.
Così non è per i tuoi io, caro Paolo, così drammaticamente perfetti! Ognuno di loro sa tutto ciò che deve essere a sua propria conoscenza, ai fini della storia, poiché ogni io, per contatto, per osmosi direi, trasmette all’altro il proprio flusso di coscienza. Giungono, per vie traverse, ed estremamente affascinanti (e in quest’arduo cammino risplende la tua e la loro grandezza), a quell’onniscienza che era stata all’inizio rigettata, in quanto inadatta a quel povero io individuale di fine millennio.
Disse sempre Jorge, citando il “Maggid di Mesritch” (qualunque cosa sia): “La parola io può essere pronunciata solo da Dio”.
Ma sarà poi perdonata, ‘sta bestemmia?
Written by Stefano Pioli