“Diario Intimo” di Henri-Frédéric Amiel: l’eremitaggio morale e le sofferenze vaghe ‒ giugno 1857/1865
“Ciò che non si può, che non si sa, ciò che non si vuol dire; ciò che ci si rifiuta di confessare a se stessi; i desideri confusi, le pene segrete, i dispiaceri soffocati, le resistenze sorde, i turbamenti nascosti, i rimpianti ineffabili, le emozioni combattute, i timori superstiziosi, le sofferenza vaghe, i presentimenti inquieti, le chimere contrariate, le offese al nostro ideale, i languori insoddisfatti, le speranze vane, la moltitudine dei piccoli mali indefinibili […]” ‒ Henri-Frédéric Amiel
Nel mese di giugno ma nel 1857 e 1865 il filosofo, poeta e critico letterario svizzero Henri-Frédéric Amiel (Ginevra, 27 settembre 1821 – Ginevra, 11 maggio 1881) scriveva le sue quotidiane riflessioni nel Diario Intimo.
Amiel non è celebre, non ha avuto la fortuna di altri filosofi e poeti dell’800, la sua non è stata una vita “di corte”, di società ma una vera e propria esistenza donata al Pensiero.
Eppure, malgrado l’atteggiamento da eremita, con il suo Diario Intimo ha mostrato tutte le piaghe della società a lui contemporanea e che si sono moltiplicate nella nostra attuale. C’è da riflettere, dunque, sulla posizione privilegiata dell’eremita nell’analisi della società.
In 16.840 pagine il Journal Intime disegna perfettamente ciò che è accaduto in Europa in 150 anni. Alla sua morte furono pubblicate alcune pagine scelte in “Fragments d’un Journal intime” decretate come fenomeno letterario molto interessante, e successivamente nel 1923 il filologo e docente svizzero Bernard Bouvier pubblica una selezione più ampia.
Henri-Frédéric Amiel è tagliente, non accomoda alcun partito, alcuna fazione, il suo scrivere è portare alla luce, è trasmettere il canto, è ragionamento continuo che non ha pretesa di pubblicazione editoriale né di ammirazione da parte degli altri intellettuali contemporanei.
E forse è per questi semplici motivi che il Journal Intime è vero e si presenta come il dialogo di un uomo con l’anima.
Una rarità nel mondo post illuminista che volgeva l’interesse verso la velocità e la produzione, verso la mercificazione dell’essere umano, sulle basi di quello che noi abbiamo chiamato capitalismo.
Abbiamo deciso di selezionare alcuni brani di questo grande filosofo augurandoci di potar ai lettori di oggi qualche riflessione interessante dando la possibilità di curiosare all’interno di un libro diventato pressoché introvabile.
Siamo partiti dal gennaio del 1866 con una bellissima pagina di diario nella quale il nostro filosofo esortava se stesso ed il possibile lettore alla contemplazione. La selezione di febbraio ci ha portati nel 1869 con il discorso della facoltà di conoscere, a marzo 1868 abbiamo attraversato le facoltà di metamorfosi, aprile del 1850 è stato il mese in cui abbiamo visto come la coscienza possa essere duplice e ci siamo soffermati sull’importanza del matrimonio. A maggio siamo stati a cavallo tra il 1852 ed il 1855 esaminando come la parola possa essere rivelazione, le pagine selezionate condividono l’interrogazione sulla parola e sull’abisso che risiede in ognuno essere umano ma che viene cercato da pochi.
Ci troviamo ora a leggere due pagine del Diario intimo selezionate dal mese di giugno ed esattamente il 17 giugno 1857 ed il 25 giugno 1865.
Nel primo estratto Amiel si domanda cosa possa portare l’uomo di cultura ad agire nel mondo, quali siano le pulsioni che intervengono per questa azione. Amiel non sente questa indole come sua, non vuole intervenire nel mondo, il suo profondo status di eremita lo allontana dalle persone.
Nel secondo estratto è presente un’interrogazione sulle lacrime:sul come esse siano portate sia dalla felicità sia dalla tristezza e sulla parola che essendo analisi non riesce a portar avanti i sentimenti incomprensibili.
17 giugno 1857 (mezzogiorno)
Le intuizioni più fugaci e più preziose sono proprio quelle che io non noto mai.
Perché?
Innanzi tutto perché mi sembra di non poterli più dimenticare; poi perché fanno parte di un insieme infinito e tutte le particelle non hanno per me né valore né interesse e m’ispirano quasi disdegno; inoltre perché non penso mai al pubblico, all’utilità, allo sfruttamento, e provo una gioia sufficiente nell’aver partecipato ad un mistero, nell’aver indovinato una cosa profonda, toccato una realtà sacra; conoscere mi basta; esprimere mi sembra talvolta profanare; far conoscere assomiglia a divulgare, e per non avvilire, lascio celato.
È questo precisamente l’istinto femmineo, la protezione del sentimento, il seppellimento delle speranze individuali, il silenzio sui segreti migliori.
Non è il punto di vista virile della scienza, della grande luce, della propaganda, della pubblicità. Io inclino all’esoterismo, alla discrezione pitagorica, per avversione alla iattanza volgare.
Appartengo per istinto all’aristocrazia di cultura, alla gerofanzia estetica e morale. Per delicatezza, distinzione di natura, e anche timidezza d’anima e diffidenza di cuore, provo disgusto per la plebaglia delle intelligenze.
Più forte, conquisterei l’autorità spirituale, più amante, mi dedicherei alle folle; ma per i miei difetti resto eremita e per le mie facoltà animo la solitudine del mio eremitaggio morale. Non basta. Bisognerebbe concludere e dare. L’epicureismo dello spirito dovrebbe far posto all’energico sentimento di ciò che si deve agli altri, alla fede che si può e si deve essere utili.
Agire, produrre, pubblicare ti è sembrato nel tuo interesse, cioè disgustoso e facoltativo. Vedi in questo dovere positivo, un obbligo stretto, un’opera comandata, e allora come sforzo e sacrificio riprenderanno sapore e attrattiva.
‒ Vae soli! Soli, non abbiamo altro scopo che noi stessi, e questo scopo non vale la pena di un movimento. Ci lascia andare alla deriva, quando non si è attesi da nessuna parte. A che intervenire? Il coraggio sta in un amore.
25 giugno 1865
… Una lagrima può essere il riassunto poetico di tante impressioni simultanee, la quintessenza combinata di tanti pensieri contrari! È come una goccia di quei preziosi elisir dell’Oriente, che contengono lo spirito di venti piante confuso in un solo aroma.
Talvolta è anche la pienezza dell’anima, che trabocca dalla coppa dei sogni. Ciò che non si può, che non si sa, ciò che non si vuol dire; ciò che ci si rifiuta di confessare a se stessi; i desideri confusi, le pene segrete, i dispiaceri soffocati, le resistenze sorde, i turbamenti nascosti, i rimpianti ineffabili, le emozioni combattute, i timori superstiziosi, le sofferenza vaghe, i presentimenti inquieti, le chimere contrariate, le offese al nostro ideale, i languori insoddisfatti, le speranze vane, la moltitudine dei piccoli mali indefinibili che si accumulano lentamente in un recesso del cuore, come l’acqua imperla senza rumore la volta di una caverna oscura; tutte queste agitazioni misteriose della vita interiore sfociano in un intenerimento, e questo si concentra in un diamante liquido sull’orlo delle palpebre.
Se un bacio di tenerezza è già tutto un discorso condensato in un soffio, una lagrima d’intenerimento ha in sé il valore di molti baci, e per questo appunto la sua eloquenza ha un’energia più penetrante. ‒ Ecco perché l’amore, quando è intenso, appassionato, doloroso, non ha spesso più altro linguaggio che i baci e le lagrime, e talvolta i morsi.
Le lagrime esprimono del resto altrettanto bene la gioia quanto la tristezza. Sono il simbolo dell’impotenza dell’anima a contenere la sua emozione ed a rimanere padrona di sé.
La parola è un’analisi; quando siamo sconvolti dalla sensazione o dal sentimento, l’analisi cessa, e con essa la parola e la libertà. La nostra unica risorsa, dopo il silenzio e lo stupore, è il linguaggio d’azione, la mimica.
L’oppressione del pensiero ci riconduce al grado anteriore dell’umanità, al gesto, al grido, al singhiozzo, e infine allo svenimento, al deliquio. Vale a dire che, incapaci di sopportare l’eccesso delle nostre sensazioni come uomini, ricadiamo successivamente al grado di essere animato, poi di essere vegetale.
Dante sviene ad ogni istante nel suo viaggio infernale. E nulla dipinge meglio la violenza delle sue emozioni e l’ardore della sua pietà.
E ci sono poche donne, che non soffrano talvolta di questa eccessiva pienezza dell’anima. Ma per pudore, per prudenza, per fierezza, lasciano sfogo ai sospiri del loro cuore soltanto nella solitudine. ‒ Ci vogliono tante circostanze riunite per osare di farlo in seno all’amicizia, che ciò avviene raramente. Eppure com’è più rapida la consolazione, più efficace e più dolce, quando ci s’accorda questa debolezza!…
Senza essere donne, possiamo aver provato bisogni analoghi e sentito lo stesso desiderio. Questo male è la nostalgia confusa della felicità. Quella guarigione è il beneficio della confessione, e della confessione sbarazzata dalla fatica di parlare. ‒ Henri-Frédéric Amiel
Bibliografia
“Frammenti di un giornale intimo” di Henri-Frédéric Amiel (Unione Tipografico – Editrice Torinese, 1967, a cura di C. Baseggio)
Info
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