Meditazioni Metafisiche #10: il senso del cappello in quattro passi nella dimora dell’anima
L’alternativa alla casa è la fuga? Qual è il senso del cappello? Per rispondere vi mostro il mio pensiero in quattro punti.

Uno: L’alternativa è la fuga
Horreur du domicile è un sentimento che risuona nelle segrete dell’animo umano − l’infelicità, la paura, l’oppressione condividono il nostro stesso appartamento, si celano nelle ombre sulle fotografie di famiglia? Risuonano echi del pensiero di Blaise Pascal – Notre nature est dans le mouvement; le repos entier est la mort –, di Charles Baudelaire – La grande maladie de l’horreur du domicile -, di Bruce Chatwin. L’irrequietezza è la forza propulsiva che ci spinge al dinamismo? Non sempre.
Accanto all’agio e al benessere che i più fortunati tra noi (quelli che possiedono, o possono usufruire di, uno spazio chiamato casa, ndr.) provano quando varcano la soglia, lungo i corridoi si riverbera un senso di angoscia che tocca i pavimenti e sfiora i muri, fino a raggiungere il soffitto viola che…
Fino a scoprire che quel soffitto è un limite che esiste e persiste nelle profondità psichiche, nonostante i voli pindarici dell’anima sopra le foreste del possibile; è un tetto che forse ci rammenta la claustrofobia di un’antica dimora di carne e sangue: vaso primigenio che ci ha tenuti dentro di sé, ventre che ci ha accolti a partire dall’idea di noi fino alla cottura a puntino.
Ci accomuna il terrore per la casa dalle finestre che ridono (Pupi Avati) e ghignano degli stessi timori che proviamo di fronte alle cose della vita: attraverso i vetri, si possono scorgere i nostri traumi. Delitti e misfatti hanno un palcoscenico privilegiato nelle camerette e nei salotti; la violenza si gusta al meglio durante le cene di famiglia, prima che ci faccia conoscere altrove nuove espressioni sociali, amplificandosi, con noi che assumiamo il ruolo di fruitori più o meno passivi quando non di agenti, persino assassini.
O serial killer con sogni da architetto: vedi La casa di Jack[1] di Lars Von Trier e altri interessanti spunti di case horror sul sito Psychofilm.
Non hanno mai sperimentato, i lettori di questa rubrica, una certa voglia di scappare dallo spazio oscuro che divora la mente e il corpo dei malcapitati nelle opere letterarie del mistero e dell’orrore, a partire dal crollo della casa degli Usher, o nelle pellicole che girano e rigirano il coltello nel tema con titoli quali: La casa nera (Wes Craven), semplicemente La casa (Sam Raimi), La casa del diavolo (Rob Zombie), e così via? Evoco immagini che vanno a ricostruire un quartiere intero che è transito a rischio di fissità per l’esperienza collettiva dell’Angst.
Nella seconda teoria freudiana, dal 1926, il padre della psicanalisi sostiene che l’angoscia sia automatica quando vi è un eccessivo afflusso di stimoli, immagini che la psiche non può controllare o contenere. Troppe emozioni, troppo di troppo e la casa si fa piccola, si tende sempre più, fino a scoppiare dentro di noi: diventiamo kamikaze nella crisi, facciamo a pezzi le pareti del mondo noto, entriamo in psicoterapia come un viaggio alla scoperta del nuovo. Continuiamo però a sognare per tutta la vita la casa nella quale siamo cresciuti, ci sentiamo sradicati e insieme desiderosi di superare il passato.
La casa di famiglia è archetipo che seduce dall’inconscio il nostro Io e lo chiama con la voce dei fantasmi che ha cercato di dimenticare. La casa avita ci attrae in nigredo alchemica; stringe l’uomo e la donna in una morsa. Racconta i passaggi della crescita dall’infanzia all’età adulta. Conserva nelle cantine e nelle soffitte gli scheletri delle aspettative altrui, i mostri sigillati nell’armadio a muro, la mummia di Psycho.
Nel liquido vivere contemporaneo, l’irrequietezza ci sembra abituale; nell’inquietudine di questi anni Zero – e qui Zygmunt Bauman potrebbe concordare – non è strano sentirsi e riconoscersi fratelli senza fissa dimora, transitanti, persino apolidi.
L’alternativa alla casa è la fuga?[2]

Due: Pothos, la nostalgia del Puer Aeternus
Fuga dal cerchio primigenio, oltre il primo vaso; per sempre fuori dal ventre della madre. La nostalgia è rischio, anzi norma. Per ogni Puer Aeternus che si rispetti è in arrivo Pothos con lo sguardo rivolto indietro.
Nella prima sezione di Anatomia dell’irrequietezza Bruce Chatwin ricorda che: “Non molto tempo fa, dopo anni di vagabondaggio, decisi che era ora, non di mettere radici, ma almeno di farmi una casa. Pensai i pro e i contro di una casuccia imbiancata a calce su un’isola greca, di un cottage in campagna, di una garconniere sulla Rive Gauche, e di varie alternative tradizionali. Alla fine, conclusi, tanto valeva far base a Londra. Casa, dopotutto, è dove sono i tuoi amici. Consultai un’americana, veterana del giornalismo, che per cinquant’anni ha trattato il mondo come il cortile di casa sua. “Londra ti piace davvero?” le chiesi. “No” disse lei, con voce roca sigarettosa “ma Londra è un posto come un altro per appendere il cappello”.”
Casa è il luogo dove appendere il cappello e di certo lo scrittore ci insegna che di certezze non ce ne sono proprio. Non è certezza nemmeno il poter associare il senso del cappello alla casa, poiché alla fine di tutto c’è l’ultima dimora, il talamo mortale, e a me viene in mente che in quella occasione gli ospiti tengono tra le mani il copricapo mentre ci piangono e noi varchiamo la porta della terra.
Riprendiamo la trama, dunque, per andare a cercare casa. Lei è là dove possiamo abitare il desiderio. Per il marinaio, la casa è nave. Per la Baba-Jaga è isba che fugge con le zampe di gallina.
Nei Saggi sul Puer, James Hillman rintraccia Ulisse e lo trova in narrazioni itineranti, chiamato dentro dalla voce di Itaca. Ulisse ha il volto dei profughi, più che dei viaggiatori; racconta i modi diversi del transito: partire e arrivare, partire e forse un giorno tornare. Dice la nostalgia dell’origine, Ulisse; è un sentire che lega l’eroe alla casa, all’idea animale della tana. Ulisse-Nessuno è emblema ancora attuale, tradotto in mille sfumature di eroe dall’opera lirica, dal teatro, dal cinema, dai cartoni animati. Le donne che incontra nel suo periplo sono i nodi nel filo rosso della storia, un filo ben saldo tra le mani di Minerva, le stesse tracce sulla tela di Penelope.
La sapienza dei ragni per la tela è quanto di più invidiabile esista per un umano che ambisce alla coscienza del proprio centro.

Tre: La casa uovo
Ulisse in patria no non andrà
Ulisse in patria sì ritornerà
Ulisse errante, di Giacomo Badoaro, musica di Francesco Sacrati, 1644.
Nel mondo surreale de La casa dell’incesto, esperimento di prosa poetica, da lei stessa definito la mia stagione all’inferno, Anais Nin giunge alla foresta di “gesso bianco e trova uova bianche su dischi d’argento, un’elegia alla nascita, ogni uovo una promessa (…) non ancora precisata”. Nell’iconografia della Vergine, l’uovo è emblema della compattezza, dell’elemento intonso; l’uovo è compatto e non può generare speranze di risveglio senza rottura.
“La casa aveva la forma di un uovo, era tappezzata di ovatta e priva di finestre; si dormiva nella piuma e attraverso il guscio si udivano l’organetto e il venditore di mele che non riusciva a trovare il campanello.” − Anais Nin
Anais si lamenta di non aver mai
“camminato sulla passatoia fin dentro alle cerimonie. Fin dentro alla pienezza della vita della folla, fin dentro alla musica autentica e all’odore degli uomini.
Cammino davanti a me stessa nell’eterna attesa del miracolo.”
Il miracolo è l’incontro con l’Altro, il diverso da sé, la divergenza che crea il dinamismo, lo scorrere del mondo fuori dalla porta. L’alternativa alla casa non è la fuga, bensì l’uscita. La perdita dell’innocenza per l’anima Vergine – il risveglio della Bella Addormentata dal giaciglio, il destarsi di Biancaneve dalla teca – richiede il coraggio del rischio. O chiusi nel ventre familiare o eternamente erranti? No. C’è la possibilità del confronto, c’è l’azzardo delle nuove indipendenze o di ancora sconosciute intimità.

Quattro: Dalla mia prefazione al libro Una casa tutta per lei
(…)
La casa del desiderio.
Nuove case, nuove entrate, altri paesi, porti e città. Ogni passaggio importante della vita è partenza, è nostalgia del passato – Pothos – in danza con la spinta verso il futuro. Il desiderio mira, per sua stessa etimologia (de-sidera), al voler raggiungere le stelle – avremo, un giorno, dimora su Marte? – mentre Pothos ci chiama e ci invita a guardare indietro, sventolando come una bandiera la fotografia della terra, delle stanze dentro le quali abbiamo vissuto da piccoli, specchio riflesso dell’abbraccio uterino, rievocazione della madre. Abitare consapevolmente lo spazio del desiderio e, al contempo, della nostalgia, è il compimento del rito di passaggio che ci porta dall’infanzia all’età adulta.
Evolviamo nel transito oltre lo zerbino e nel ritorno: welcome and good-bye, casa dolce casa. Studi all’estero, matrimonio, trasferimento e – memento mori – il momento in cui raggiungiamo l’ultimo talamo.
Tutto ciò fa di noi creature in anima, collocate dentro un guscio permeabile.
La casa simbolica è dunque il contenitore degli affetti ed è il vaso alchemico delle trasformazioni che ci conducono attraverso le diverse età della vita, mantenendoci in contatto con le radici che, volenti o nolenti, si snodano in connessioni immaginali, come volti nell’album di famiglia.
(…)
La casa è forno.
È un athanor alchemico che ci avvolge e protegge ma, allo stesso tempo, si rivela calderone che ci sputa fuori – adolescenti, giovani, adulti o mai veramente nati, perennemente nostalgici della prima dimora.
È doppia, come l’utero che ci racchiuse e poi ci fece abitanti del mondo nel giorno della nostra nascita.
Home.
Sweet home.
Or not.
Se non te ne vai al giusto tempo, la giovinezza brucia in vecchiaia, senza trasformarsi mai in età adulta.
(…)
Gaston Bachelard: “Non solo i nostri ricordi ma anche le nostre dimenticanze sono alloggiate; il nostro inconscio è alloggiato, la nostra anima è una dimora e, ricordandoci delle case e delle camere noi impariamo a dimorare in noi stessi. Le immagini della casa (ce ne accorgiamo fin da questo momento) procedono in due sensi: esse sono in noi così come noi siamo in esse.” (La poetica dello spazio, Dedalo, Bari, 1975)
Written by Valeria Bianchi Mian
Note
[1] Jack è pluriomicida, ingegnere per volere del padre, ma sognava di diventare architetto, perché secondo lui l’ingegnere è colui che legge la musica ma l’architetto quello che la suona. Nella casa di Jack ci sono le tracce di tutti i suoi omicidi. C’è il controllo ossessivo, lo sguardo negli angoli e sotto il tappeto. Ogni controllo è vano. Ci sarà sempre una traccia di sangue nella nostra psiche oscura. Link QUI.
[2] Scrive Laura Salvai: “Entrambi i film (di Laugier) si svolgono principalmente in ambienti chiusi, da cui non si può fuggire ma si vorrebbe fuggire. Un classico di molti film, dell’orrore e non, il tema del voler andare via da un luogo per difendersi da una minaccia alla sopravvivenza fisica e psicologica, o per emanciparsi, viaggiare, esplorare, trovare la propria strada. Ma in “Martyrs” e “Incident in a Ghostland” Pascal Laugier suggerisce un doppio “Horreur du domicile”… Da una parte c’è la casa in cui i corpi delle protagoniste abitano o sono rinchiuse, e dall’altra ci sono i loro corpi, come case che loro stesse abitano. Il bisogno di fuga è duplice: andare via con il corpo da un ambiente in cui si è prigionieri e fuggire con la mente dal proprio corpo, martoriato e torturato.” Link QUI.
Bibliografia
Bruce Chatwin, Anatomia dell’irrequietezza, Adelphi, 1997
James Hillman, Saggi sul Puer, Adelphi, 1988
Anais Nin, La casa dell’incesto, Feltrinelli, 2017
AA.VV., a cura di Valeria Bianchi Mian ed Emma Fenu, Una casa tutta per lei, Golem Edizioni, 2017
Info
Rubrica Meditazioni Metafisiche
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